Perché mangiamo all’ora a cui mangiamo

Dietro agli orari dei pasti di periodi storici e paesi differenti ci sono sorprendenti spiegazioni sociali, culturali e geografiche

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Clienti in un ristorante vicino a Girona, in Spagna (AP Photo/Emilio Morenatti)
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Tra persone che non vivono nello stesso paese l’orario convenzionale dei pasti è un argomento di conversazioni spesso contraddistinte da un certo stupore reciproco. A chi abita nel sud dell’Europa e non è solito cenare prima delle 20:30, per esempio, può apparire strano che nei paesi della Scandinavia si ceni invece intorno alle 18, o anche prima. Ma appare sorprendente anche che in molte zone della Spagna si ceni intorno alle 22-22:30.

La variabilità degli orari dei pasti principali da un paese a un altro è in parte dovuta a fattori ambientali e geografici. Le abitudini alimentari individuali sono fondate sul ritmo circadiano, il ciclo di circa 24 ore che regola la produzione di alcuni ormoni sotto l’influenza, tra le altre cose, di fattori esterni come la luce e la temperatura. È quindi del tutto comprensibile che l’ora di cena a Stoccolma, dove il sole a metà marzo tramonta intorno alle 18 (e sorge alle 05:50), non coincida con l’ora di cena a Siviglia, dove tramonta intorno alle 19:35 (e sorge alle 07:28).

Ma i criteri geografici non sono gli unici alla base delle differenze nelle abitudini alimentari, che sono d’altra parte il risultato di un insieme eterogeneo di fattori storici, sociali e culturali. Per lungo tempo, per esempio, è esistita in Europa una differenza marcata tra gli orari dei pasti delle classi dirigenti e dell’aristocrazia, e quelli del resto della popolazione. E anche differenze di abitudini tra gli abitanti dei grandi centri urbani e quelli delle periferie. I segni di questa evoluzione sono presenti ancora oggi, tra le altre cose, nella quantità dei pasti principali e anche nelle parole stesse utilizzate per definirli.

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Nel Settecento, come racconta lo storico Alessandro Barbero nel libro A che ora si mangia? Approssimazioni storico-linguistiche all’orario dei pasti, in Europa il pasto più abbondante della giornata – dîner, nel francese internazionale usato dalle classi elevate – si consumava tra mezzogiorno e le 14. Ma a causa di un progressivo slittamento dell’orario di quel pasto principale tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento il pranzo diventò la cena, e la colazione del mattino (déjeuner) diventò il pranzo, fino a quando le differenze di classe sociale all’inizio del Novecento smisero di essere un fattore tra i più influenti nella variabilità degli orari dei pasti.

La tendenza diffusa tra gli aristocratici e le classi dirigenti a posticipare l’orario del pasto principale era motivato dal fatto che quell’orario cominciò da un certo punto del Settecento in poi, in Inghilterra e in Francia prima che altrove, a essere considerato un segno di appartenenza a una certa classe sociale. Pranzare tardi significava aver fatto tardi la sera prima, tra balli, giochi di carte e altre attività dilettevoli, e potere svegliarsi molto più tardi di chi invece lavorava fin dalle prime ore della giornata e non poteva tirare fino alle cinque o le sei del pomeriggio senza mangiare.

All’inizio del Settecento in Inghilterra era normale che il Re pranzasse alle 15 e i membri dell’aristocrazia ancora più tardi, intorno alle 16. Ma la crescente valenza sociale dell’orario dei pasti spostò quello del pranzo ancora più avanti, e pranzare alle 16 – troppo “presto” per i gentiluomini – finì per diventare un’abitudine da provinciali. Come annotato nel 1815 dall’ambasciatore statunitense a Londra e futuro presidente John Quincy Adams, nella case aristocratiche a Londra il pranzo era servito alle 19.

Ma ciò che contraddistingueva all’epoca il pranzo nelle classi agiate in Europa non era l’orario in cui era servito bensì l’abbondanza del pasto. Anche nella piccola borghesia, scrive Barbero, non comprendeva mai meno di quattro o cinque portate, di cui almeno due di carne. E questa abbondanza – oltre all’orario in cui veniva servito il pasto – portò in quegli ambienti sociali all’abitudine di non cenare affatto, a meno che il ballo o le altre attività dopo il pranzo si protraessero oltre le due o le tre di notte (in quel caso poteva essere servita a tarda notte una cena, souper, a base di minestre, carni fredde e dolci).

In Francia emerse un’altra interpretazione dell’abitudine ottocentesca di pranzare sempre più tardi negli ambienti aristocratici: era considerato un modo per estendere il tempo da dedicare agli affari e riuscire così a concluderli entro pranzo, appunto, dal momento che nessuno tornava a lavorare dopo il pasto. Non era così negli Stati Uniti, dove nel 1830 un viaggiatore scozzese in visita a New York, Thomas Hamilton, scriveva che il pranzo era servito abitualmente alle 15 e i «gentiluomini» tornavano quindi ai loro affari. E non era così nemmeno in Germania, dove l’abitudine di pranzare tardi prese piede più lentamente e meno marcatamente che altrove.

L’abitudine di pranzare molto tardi in Francia era inoltre un fenomeno diffuso a Parigi ma molto meno nella provincia. E la stessa tendenza esisteva in parte anche in Italia, attestata tra gli altri da Alessandro Manzoni, che scrivendo nel 1850 dell’abitudine di pranzare alle 17 si riferiva ai costumi della nobiltà milanese ma non a quelli della provincia e di altre classi sociali.

Lo spostamento in avanti del pasto principale della giornata ebbe tra i vari effetti non soltanto la sostanziale scomparsa della cena, ma anche la diffusione dell’abitudine di fare una colazione abbondante, consumata a tavola (à la fourchette), non al risveglio ma a metà mattinata o a mezzogiorno. E questa ambiguità emerge ancora oggi dall’uso di espressioni – per esempio déjeuner d’affaires, “colazione di lavoro” – in cui parlare di colazione vuol dire di fatto parlare di pranzo.

Questo lungo processo si concluse all’inizio del Novecento, quando le parole fino a quel momento utilizzate per definire il pasto principale della giornata (dîner in francese, dinner in inglese) e quelli complementari cominciarono a essere associati soprattutto all’orario condiviso di quei pasti e non ad altre caratteristiche. Per definire quello di metà giornata in Italia rimase prevalente l’uso della parola “pranzo”, di origine latina (per gli antichi Romani prandium era il pasto di mezzogiorno e coena quello delle 16, il pasto principale). In Francia prevalse déjeuner, che assunse un significato più stabile e distinto dalla colazione (petit déjeuner). Nei paesi anglosassoni prevalse lunch, una parola specificamente riferita al pranzo e non ad altri pasti. E dîner e dinner finirono per indicare, più o meno stabilmente, l’ultimo pasto della giornata (ma dinner, nel Regno Unito, è a volte utilizzato anche per dire pranzo).

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La variabilità attuale degli orari dei pasti principali è in generale sia una conseguenza dell’evoluzione delle abitudini alimentari di ciascun paese nel tempo, sia una conseguenza di altri eventi e condizioni ambientali specifiche e comuni a tutte le persone (non soltanto a quelle di una certa classe sociale). Quelle condizioni hanno influenzato in molti modi i comportamenti delle popolazioni a seconda che appartenessero a una certa area geografica e non a un’altra. E hanno influenzato il rapporto che quelle persone hanno sviluppato con l’ambiente per soddisfare in modo più efficiente bisogni energetici che cambiano molto tra il giorno e la notte.

In Norvegia e in Finlandia le persone cenano di solito intorno alle 17, scrisse l’Independent nel 2022 commentando una mappa molto circolata su Reddit riguardo agli orari di cena in Europa, comunque riportati con un certo margine di approssimazione. E la cena – middag, in norvegese – può includere piatti molto sostanziosi come il fårikål, uno stufato a base di carne, verza e patate, e le kjøttkaker, polpette di carne fritte e passate in forno con una salsa.

L’ora di cena tende a spostarsi in avanti man mano che ci si sposta verso sud, e la Spagna è il paese in cui non solo si cena più tardi in assoluto ma, come sintetizzava il quotidiano El País nel 2016, «un ritardo medio di due ore condiziona l’organizzazione quotidiana di tutti gli ambiti della vita: lavoro, famiglia e tempo libero». La principale ragione per cui la Spagna è considerata un’eccezione tra i paesi del Mediterraneo, che già hanno orari tendenzialmente più spostati in avanti rispetto agli altri paesi europei, è l’eccezionale discrepanza tra l’ora segnata dagli orologi e l’ora solare, motivo di frequenti dibattiti nel paese, anche durante la pandemia.

Fin dal 1942, a causa di una decisione politica del regime del generale Francisco Franco, presa per uniformare l’orario del paese a quello delle altre potenze europee durante la Seconda guerra mondiale, la Spagna si trova infatti nello stesso fuso orario di Italia, Germania e Francia pur trovandosi a ovest del meridiano di Greenwich e più a ovest di qualsiasi altro paese dell’Europa continentale eccetto il Portogallo. Ha quindi un fuso orario diverso da quello che sarebbe più appropriato in funzione della posizione geografica in cui si trova, e cioè quello di Portogallo e Regno Unito. E di conseguenza il cielo è tendenzialmente ancora buio quando la maggior parte delle persone si sveglia, e ancora relativamente luminoso alle 22, con tutta una serie di effetti sulla qualità della vita.

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«In Spagna il sole splende solitamente per circa nove ore in inverno e sedici in estate», disse al País José María Fernández-Crehuet, che insegna economia all’Università politecnica di Madrid (UPM). E aggiunse che l’adozione dell’ora legale – spostare un’ora avanti gli orologi – porta a una situazione in cui in gran parte della penisola, specialmente nella parte più occidentale, in Galizia, la discrepanza con l’ora solare diventa ancora più ampia ed evidente. Non adottare l’ora legale permetterebbe invece di avvicinare l’orario ufficiale a quello solare e «renderebbe più facile cambiare alcune abitudini per migliorare la qualità della vita».

Il fuso orario “sbagliato” e le caratteristiche climatiche del paese hanno favorito nel corso del tempo la diffusione dell’abitudine di fare una pausa pranzo di due ore, dalle 14 alle 16, e finire la giornata di lavoro più tardi che negli altri paesi europei, spostando quindi in avanti anche l’ora di cena. Ma secondo diverse ricerche questa organizzazione dei tempi non basta a compensare i disagi causati dalla discrepanza tra i ritmi circadiani e l’orologio: discrepanza che porta le persone a rimanere sveglie più a lungo e che spiegherebbe, secondo le stesse ricerche, perché in Spagna si lavori per più ore che in altri paesi ma con risultati peggiori in termini di produttività.