Che cos’è oggi la Fiom

È la domanda che si sta facendo la dirigenza del principale sindacato dei metalmeccanici, alle prese con grossi cambiamenti tra cui è difficile orientarsi

di Angelo Mastrandrea

Una manifestazione dei lavoratori di Stellantis organizzata dalla Fiom a Roma il 14 febbraio 2023. (Roberto Monaldo / LaPresse)
Una manifestazione dei lavoratori di Stellantis organizzata dalla Fiom a Roma il 14 febbraio 2023. (Roberto Monaldo / LaPresse)
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Appena la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha preso la parola al congresso della Cgil a Rimini, a mezzogiorno di venerdì 17 marzo, una trentina di delegati hanno intonato “Bella ciao”, una delle canzoni simbolo della Resistenza al nazifascismo. Poi hanno lasciato la sala in segno di protesta. Molti contestatori erano iscritti alla Fiom (Federazione italiana operai metalmeccanici), una delle categorie lavorative più forti delle dodici di cui è composta la Cgil, la stessa da cui proviene il segretario generale Maurizio Landini, che l’ha diretta dal 2010 al 2017.

«Siamo quella parte del sindacato che fin da subito ha espresso contrarietà alla partecipazione di Meloni al congresso», ha spiegato Eliana Como, una delle organizzatrici della protesta. Como, sindacalista della Fiom, sociologa e storica dell’arte, è la portavoce della minoranza interna che si oppone alla linea di Landini, da loro ritenuto troppo morbido nei confronti del governo e troppo conciliante con gli altri sindacati confederali, Cisl e Uil, a loro volta considerati moderati e consociativi, vale a dire più propensi alla cooperazione e al compromesso con gli industriali e con i governi che al conflitto.

Sebbene il documento che hanno presentato, nel quale proponevano «più radicalità, non moderazione», abbia ottenuto solo il 2,4 per cento dei voti al congresso della Cgil e il 5 per cento a quello della Fiom, i contestatori hanno una base militante molto attiva e una presenza forte nei cantieri navali di Palermo, alla Piaggio di Pontedera (PI), alla Same di Treviglio (BG) e soprattutto alla ex Gkn, una fabbrica di componenti per auto di Campi Bisenzio, in provincia di Firenze, chiusa a luglio del 2021 dai proprietari, il fondo inglese Melrose, e da allora occupata dai lavoratori.

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L’obiettivo di Landini è «una nuova unità sindacale con Cisl e Uil, perché le ragioni storiche, politiche e partitiche che portarono a questa divisione non ci sono più», come spiegò in un’intervista a Repubblica appena eletto segretario generale, nel 2017.

Il segretario della Cgil Maurizio Landini con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni il 17 marzo. (Filippo Attili/Palazzo Chigi/LaPresse)

La Cgil (Confederazione generale italiana del lavoro) è la più antica organizzazione dei lavoratori italiani e da sempre quella con il maggior numero di iscritti. È l’erede della Confederazione generale del lavoro (Cgdl), che nel 1906 mise insieme le Camere del lavoro, nate nelle maggiori città italiane dal 1891 con l’obiettivo di trovare lavoro a chi vi si rivolgeva, e in più fornire assistenza e istruzione ai lavoratori: si dividevano tra le Leghe di resistenza, cioè organizzazioni dei lavoratori che si contrapponevano ai datori di lavoro con le loro rivendicazioni politiche e salariali, e le prime due federazioni di lavoratori, quella dei contadini e quella dei metalmeccanici, la Fiom, fondata nel 1901 a Livorno.

All’inizio del 1927, dopo che i fascisti assaltarono e bruciarono la sede di Milano, la Cgdl decise di sciogliersi. Si ricostituì con il nome di Confederazione generale italiana del lavoro (Cgil) il 9 giugno del 1944, quando i tre principali partiti antifascisti, quello comunista, socialista e democristiano, firmarono il cosiddetto Patto di Roma. I promotori principali furono il comunista Giuseppe Di Vittorio, che divenne il primo segretario della Cgil, e l’ultimo segretario della Fiom Bruno Buozzi, che però fu ucciso dalle SS naziste a Roma proprio alla vigilia della firma del patto.

L’unità sindacale durò solo pochi anni e le divisioni seguirono quelle dei partiti politici. Nel 1948 i cattolici abbandonarono la Cgil per poi fondare, nel 1950, la Confederazione italiana sindacati lavoratori (Cisl), che si appoggiò alla rete delle Associazioni cristiane dei lavoratori italiani (Acli) con l’obiettivo di «formare solidamente nella dottrina sociale cristiana» i lavoratori. La Cisl sostenne i governi democristiani e si caratterizzò soprattutto come un sindacato che assisteva ed erogava servizi ai propri iscritti. Nel 1950 si separarono pure alcuni socialisti riformisti, i laici repubblicani e i socialdemocratici, che fondarono l’Unione italiana del lavoro (Uil), che fu vicina ai governi di centrosinistra dagli anni ‘60 in poi.

La Cgil rimase l’unico sindacato che fondava la sua politica sul conflitto con i datori di lavoro e i governi, sostenendo gli scioperi e le occupazioni delle fabbriche degli anni ‘60 e ‘70, anche se i movimenti studenteschi dell’epoca ne contestavano l’eccessiva dipendenza dal Pci. Dopo il crollo del sistema dei partiti della Prima repubblica, i tre sindacati si riavvicinarono. Nel 1993 diedero vita a un nuovo sistema di relazioni basato sulla cosiddetta concertazione, vale a dire sul confronto con il governo sulle politiche economiche e del lavoro. Da allora, hanno alternato politiche concertative con i governi di centrosinistra e opposizione ai governi di centrodestra.

La Fiom invece non ha seguito la Cgil nella politica della concertazione e ha spesso preso iniziative autonome rispetto al sindacato di cui fa parte, anche grazie alla grande capacità di mobilitazione di cui è sempre stata capace. Nonostante abbia espresso segretari generali della Cgil come Luciano Lama, Bruno Trentin e infine Landini, è stata spesso considerata come una sorta di formazione indipendente. Nel 1996 l’allora segretario Claudio Sabattini avviò un processo di autonomia dalla Cgil e di apertura ai movimenti di attivisti politici, che culminò nella partecipazione alle manifestazioni contro il G8 di Genova del 2001. Quando nel 2010 fu eletto segretario, Landini fondò con il giurista Stefano Rodotà una «coalizione sociale» che riuniva, oltre alla Fiom, organizzazioni impegnate per il rispetto dei diritti civili e sociali come l’associazione antimafia Libera. Molti ipotizzarono che fossero i preparativi di una nuova forza politica di sinistra: lui invece puntò alla segreteria della Cgil, alla quale fu eletto nel 2017. Alla Fiom al suo posto fu eletta Francesca Re David, prima segretaria generale nella storia del sindacato.

Nell’aprile del 2022 divenne segretario Michele De Palma, che è molto legato a Landini. La sua formazione politica non è avvenuta nel sindacato, ma tra gli altermondialisti (quelli che a partire dai primi anni Duemila aderirono ai movimenti contro la globalizzazione e per modelli economici più sostenibili) e i Giovani comunisti, la formazione giovanile del Partito della Rifondazione Comunista (Prc), di cui è stato segretario. Nel 2008, con la scissione del Prc, seguì il suo concittadino Nichi Vendola – entrambi sono nati a Terlizzi, in provincia di Bari – in Sinistra ecologia libertà. Solo in seguito entrò come funzionario alla Fiom di Reggio Emilia, dove Landini – ex operaio saldatore in una cooperativa di Cavriago – aveva cominciato la sua carriera sindacale fino a diventarne segretario.

Francesca Re David, Michele De Palma e Maurizio Landini posano per celebrare l’elezione di De Palma alla segreteria della Fiom (Roberto Monaldo / LaPresse)

De Palma oggi deve confrontarsi con i cambiamenti profondi del mondo del lavoro e degli stessi iscritti, e per certi versi con il futuro stesso del sindacato. Al congresso che si è svolto a Padova a metà febbraio erano presenti 645 delegati, eletti da 151.013 iscritti al termine di 8.256 assemblee nei luoghi di lavoro. Solo il 55 per cento di loro erano operai. «Non siamo più solo un sindacato di tute blu, ma anche di colletti bianchi e guanti verdi», dice ancora De Palma, spiegando che gli iscritti non sono più solo operai, ma anche impiegati e addetti alla fabbricazione di computer, prodotti di elettronica e di ottica.

Nella relazione introduttiva, il pomeriggio del 16 febbraio nell’auditorium della Fiera di Padova, De Palma ha esordito sostenendo che tra gli iscritti ci sono troppe poche donne, giovani e immigrati. Le donne tra i delegati Fiom sono il 28 per cento, i giovani sono pochi e le nuove generazioni «spesso non sanno neppure cos’è il sindacato». I lavoratori immigrati sono 41 mila, il 14,7 per cento degli iscritti. «Un’organizzazione in cui aumenta l’età media fa fatica ad avere un futuro», ha concluso.

Un’indagine della Fondazione Di Vittorio presentata al congresso della Cgil di Rimini gli dà ragione: il 47 per cento dei lavoratori sotto i 34 anni di età che hanno risposto al questionario che gli è stato sottoposto ha sostenuto che non si iscrive al sindacato perché non sa cosa faccia. «Negli ultimi anni è andato in crisi il tramandarsi della conoscenza di come si entra e si partecipa a un sindacato, si dà per scontata l’esistenza del contratto nazionale quando invece sette milioni di lavoratori in Italia non hanno alcuna copertura contrattuale», spiega De Palma.

Il principale compito della Fiom è discutere con le associazioni dei datori di lavoro i contratti nazionali – gli accordi che disciplinano il trattamento economico e normativo minimo per una categoria di lavoratori, sottoscritti dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dai sindacati – che vengono firmati solo dopo un referendum tra i lavoratori. In più, tratta in ogni fabbrica le misure di welfare aziendale, come i buoni pasto, gli straordinari e i premi di produzione. Organizza vertenze collettive, proclama scioperi e ogni iscritto vi si rivolge per qualsiasi problema con l’azienda. Ma secondo De Palma molti operai non sanno che per arrivare a un contratto nazionale si preparano dei documenti con le proposte che vengono discussi in ogni luogo di lavoro, modificati e votati dai lavoratori prima di essere sottoposti alle organizzazioni degli industriali. «Non siamo mai stati un sindacato di servizi, ma negoziamo i contratti e i salari e ci occupiamo di sicurezza sul lavoro», dice De Palma.

Al congresso di Padova, quando il presidente dell’assemblea Madnack Dan, un operaio originario delle isole Mauritius e da 38 anni in Italia, ha chiamato sul palco il presidente dell’Anpi (Associazione nazionale partigiani italiani) Gianfranco Pagliarulo, dalla platea è partita ancora una volta “Bella ciao”. Questa volta l’hanno cantata tutti, alzandosi in piedi. «I delegati della Fiom hanno una solida formazione politica e sindacale, sono le nuove generazioni di iscritti a non avere più punti di riferimento», dice Gabriele Polo, ex direttore del Manifesto e fondatore di iMec, il giornale cartaceo e web della Fiom.

Lorenzo Zamponi, un ricercatore dell’Università Normale di Pisa, ha condotto una ricerca su 318 metalmeccanici bolognesi iscritti alla Fiom. È emerso che sono interessati alla politica, diffidano del governo e hanno poca fiducia nelle banche, nei partiti, nel parlamento e pure nei social media. Alle ultime elezioni la maggioranza di loro ha votato il Partito Democratico, ma molti hanno preferito il Movimento 5 Stelle. Nel 2018, invece, molti operai delle fabbriche del bergamasco e del bresciano, del Veneto e del Friuli scelsero la Lega, un fenomeno cominciato già alle elezioni del 2008, quando la cosiddetta Sinistra arcobaleno (composta da vari partiti di sinistra) fu abbandonata in massa dagli elettori e non raggiunse neppure il quorum del 3 per cento necessario per entrare in parlamento.

«In quell’occasione, la vera novità fu però il voto ai 5 Stelle», in particolare tra gli operai dell’Ilva di Taranto, dicono alla Fiom. L’ex segretario tarantino Rosario Rappa disse che «le loro parole d’ordine sono le nostre». Alle elezioni del 25 settembre 2022, invece, «gran parte degli iscritti si è astenuta», dice Polo. Al contrario, al voto per i rappresentanti sindacali le percentuali superano il 90 per cento. «Gli operai ci votano perché ci sentono vicini e si fidano di noi, invece non hanno più fiducia nella politica, che sentono distante», sostiene De Palma.

Il congresso della Cgil appena concluso ha rieletto Landini segretario con il 94,2 per cento dei voti dei 965 delegati presenti, la metà dei quali donne, selezionati dopo una prima fase di 43.211 congressi di base, di cui 37.220 sul posto di lavoro e 6.011 territoriali, e una seconda selezione nei 1.939 congressi provinciali, regionali e di categoria.

All’indomani del congresso, nella sede centrale della Fiom a corso Trieste nella zona nord-orientale di Roma, si commentano le parole di Meloni e la risposta di Landini. Meloni ha rifiutato la proposta di salario minimo, che prevederebbe una soglia minima decisa su base oraria o mensile che non potrebbe essere ridotta da contrattazioni nazionali o private, e ha affermato che bisogna «puntare tutto sulla crescita economica», perché «la ricchezza la creano le aziende e i loro lavoratori». Landini ha sostenuto che c’è una «grande distanza» dalle parole pronunciate da Meloni e che la Cgil è pronta a scioperare con Cisl e Uil contro la proposta di riforma del fisco presentata dal governo, che prevede una riduzione della tassazione per sostenere le imprese e, a suo dire, penalizzerebbe lavoratori e pensionati. La Fiom si prepara a discuterne con i lavoratori. «Avvieremo un ciclo di assemblee nei luoghi di lavoro per discutere di politiche industriali, salvaguardia dell’occupazione e politiche ambientali, dei salari e della stabilizzazione dei precari, fino ad arrivare alla mobilitazione generale», dice il segretario De Palma.

La vera questione è il futuro dell’industria metalmeccanica in Italia, che ha perso 300 mila lavoratori dal 2008: erano 2 milioni e 100 mila, ora sono calati a 1,8 milioni, secondo i dati dell’Eurostat. Di questi, mezzo milione lavora per imprese che hanno più di 250 dipendenti, il resto è impiegato in aziende medio-piccole. Anche il numero di imprese è calato: sono 357mila, 4mila in meno rispetto al 2013. Si tratta di un numero elevato solo in apparenza, visto che la gran parte di queste hanno pochissimi dipendenti, in media meno di undici. I dirigenti sindacali sono preoccupati in particolare per le notizie che arrivano dal settore automobilistico. «Dal 2021 abbiamo perso quasi settemila posti di lavoro nel settore e la situazione rischia di peggiorare ancora», dice Simone Marinelli, responsabile del settore automotive.

Nonostante la Fiom sia il sindacato più rappresentativo nelle aziende affiliate a Federmeccanica (l’organizzazione degli industriali del settore) con oltre il 50 per cento degli iscritti, «in molti casi non abbiamo nessuna interlocuzione con i datori di lavoro», spiega ancora De Palma. L’8 marzo è stato firmato il rinnovo del contratto per 70 mila lavoratori di CnhI, Ferrari, Iveco e Stellantis – la società automobilistica nata dalla fusione di Fiat Chrysler Automobiles (Fca) con il gruppo francese Psa, comprendente Peugeot, Citroen e altre – e la Fiom è stata tenuta fuori. Non è stata risolta la rottura voluta alla fine del 2011 dall’allora amministratore delegato di Fca Sergio Marchionne, che decise di non aderire al contratto collettivo nazionale di lavoro e di proporre ai sindacati un contratto aziendale.

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Secondo Marchionne esisteva «un prima e un dopo Cristo» in economia, vale a dire un prima e un dopo la globalizzazione, che ha spazzato il sistema di relazioni industriali fondato sugli Stati nazionali e sugli accordi tra le organizzazioni che rappresentano i datori di lavoro e i lavoratori. A suo parere, l’accordo alla Fiat avrebbe dovuto essere un modello per tutte le altre aziende che agivano sui mercati globali. Nessun’altra azienda ha però seguito il suo metodo. A Stellantis l’accordo – che prevede 207 euro di aumenti mensili in due anni, 600 euro una tantum e un incremento dei premi del 30 per cento – è stato approvato ancora una volta solo da Cisl e Uil, senza la firma di Confindustria e della Fiom. «Hanno voluto proseguire sulla strada della divisione, e per noi questa rimane una ferita aperta», dice Marinelli.

Nei mesi scorsi la Fiom aveva incontrato gli operai nelle fabbriche ed elaborato con loro una serie di proposte: adeguare i salari all’inflazione, stabilire un nuovo sistema di premi, migliorare le condizioni di lavoro, garantire investimenti e occupazione, e soprattutto sottoporre l’intesa a un referendum tra i lavoratori. Nessuna di queste è stata tenuta in considerazione nel nuovo contratto.