I beni immobiliari confiscati alla mafia

Sono quasi 20mila quelli già assegnati per scopi sociali, ma sono ancora di più quelli da assegnare, dice un rapporto dell'associazione Libera

Il sequestro di terreni e immobili in Sicilia, a Caltanissetta (Ansa)
Il sequestro di terreni e immobili in Sicilia, a Caltanissetta (Ansa)
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Libera, l’associazione contro la mafia presieduta da don Luigi Ciotti, ha pubblicato un rapporto intitolato “Raccontiamo il bene” che illustra la situazione in Italia dei beni confiscati alla criminalità organizzata. A 27 anni dall’entrata in vigore della legge 109 sul riutilizzo pubblico e sociale proprio di quel tipo di immobili, i beni confiscati e già «destinati» sono 19.790, mentre quelli «in gestione» all’ANBSC (Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata) sono 24.529. Le aziende “destinate” sono 1.761 mentre quelle in gestione sono 3.366.

Quando si parla di beni in gestione si intendono quelli sottoposti a confisca non definitiva, quindi ancora in attesa di giudizio in seguito al ricorso da parte di chi possedeva quel bene. Dopo il giudizio di secondo grado, i beni diventano definitivamente confiscati e passano alla gestione diretta dell’ANBSC mentre nella fase precedente erano gestiti da un amministratore giudiziario nominato dal tribunale.
I beni destinati sono invece quelli per cui è stato concluso il percorso giudiziario: sono quindi i beni che sono già stati trasferiti ad amministrazioni dello Stato – per esempio ai comuni, alle regioni o alle città metropolitane – per finalità istituzionali o per il riutilizzo sociale.

Secondo i dati di Libera le organizzazioni non profit impegnate nella gestione dei beni immobili sequestrati alla criminalità organizzata sono in totale 991, prevalentemente al Sud (696). Al Nord sono 227 e al Centro 68. Il 40 per cento degli immobili confiscati è composto da appartamenti, il 19 per cento da terreni agricoli, il 18 per cento da ville, fabbricati, palazzine, il 10 per cento da locali commerciali, il 6 per cento da box e garage, il 3 per cento da unità immobiliari non definite, il 3 per cento da complessi immobiliari e l’1 per cento da impianti sportivi o strutture turistiche.

La maggioranza dei beni confiscati si trova in Sicilia (7.692), in Calabria (3.127), in Campania (3.102), in Puglia (1.822) e in Lombardia (1.583). Per quanto riguarda le aziende confiscate, sono 551 in Sicilia, 330 in Campania, 259 nel Lazio, 227 in Calabria.

Il 57 per cento degli immobili confiscati viene destinato a iniziative per il welfare e le politiche sociali; il 27 per cento a iniziative culturali e di turismo sostenibile; il 10 per cento all’agricoltura e all’ambiente; il 4 per cento a produzione e lavoro; il 3 per cento allo sport.

Tuttavia la situazione dei beni confiscati mostra anche alcune criticità, dovute soprattutto alla lentezza del percorso giudiziario.

Secondo un rapporto del ministero della Giustizia presentato al parlamento a giugno dello scorso anno, il governo ha nei suoi database 230.517 beni interessati da procedimenti di prevenzione. Di questi quasi il 40 per cento è al termine del percorso giudiziario, quindi è stato dissequestrato e restituito ai proprietari. Sono iter che riguardano beni in tutta Italia, ma che sono più numerosi nelle regioni del Sud e in Sicilia.

La legge sui beni confiscati che fornisce il quadro giuridico a tutto quanto è la n. 646 del 13 settembre 1982. Il primo firmatario fu Pio La Torre, senatore del Partito comunista italiano, assassinato dalla mafia pochi mesi prima che la legge venisse approvata. L’altro firmatario fu Virginio Rognoni, ministro dell’Interno dal 1978 al 1983, appartenente alla Democrazia Cristiana.

La legge prevede la confisca penale obbligatoria di ciò che è servito a commettere il reato o di ciò che ne è il prezzo, il prodotto o il profitto o che ne costituisce l’impiego. La confisca e il sequestro hanno conseguenze simili, cioè la sottrazione di un bene, ma nel primo caso la misura, dopo i ricorsi, ha carattere definitivo (lo Stato si appropria del bene e non lo restituisce), nel secondo caso è temporanea e può avere vari scopi, per esempio evitare che attraverso il bene in questione si continui a commettere un reato.

Per esempio ci sono le cosiddette misure di prevenzione patrimoniali. In questi casi il questore, il direttore della Direzione investigativa antimafia, il procuratore nazionale antimafia o il procuratore capo possono compiere indagini sui patrimoni di una persona sospettata (quindi anche non condannata) di essere vicina alla criminalità organizzata. Se emergono introiti non giustificati dalle attività svolte e non proporzionati al reddito dichiarato allora si chiede al tribunale (in particolare alla sezione “misure di prevenzione”) il sequestro finalizzato alla confisca.

Negli anni Novanta, dopo la stagione delle stragi di mafia, ci fu una campagna promossa da Libera proprio sui beni confiscati, riassunta nello slogan “La mafia restituisce il maltolto”. La richiesta di Libera e di molte altre associazioni era che i beni confiscati venissero rapidamente dati agli enti locali per poi essere destinati a finalità sociali. La legge 109 sulla destinazione dei beni confiscati venne approvata il 7 marzo 1996 dalla Commissione Giustizia del parlamento, “in sede deliberante”, cioè senza il passaggio in aula. Con un decreto legge del 4 febbraio del 2010 venne poi istituita l’ANBSC.

Fino alla fase di confisca definitiva, i beni interessati dalle cosiddette misure di prevenzione patrimoniale sono “congelati”, cioè vengono sottratti alla disponibilità del proprietario e gestiti da un amministratore giudiziario. Sono però ancora di proprietà della persona a cui sono stati sequestrati. Dopo il sequestro c’è un’altra fase temporanea, quella della confisca di primo grado, durante la quale il proprietario può presentare ricorso. Infine c’è la confisca definitiva, con cui il bene viene affidato all’ANBSC: segna il trasferimento della proprietà al patrimonio dello Stato. La fase successiva è quella del riutilizzo.

Come dicevamo, ci sono alcuni problemi legati soprattutto al fatto che troppi beni confiscati rimangono inutilizzati o addirittura vengono occupati abusivamente dai proprietari a cui sono stati tolti. Dal sequestro all’uso sociale infatti può passare molto tempo, fino a dieci anni, e in quel periodo le proprietà possono deteriorarsi, per esempio. Inoltre molti comuni non pubblicano l’elenco dei beni in loro possesso. Addirittura alcune amministrazioni comunali dicono di non sapere nemmeno se nel loro territorio esistano beni sotto sequestro. E anche quando lo sanno, spesso non conoscono le finalità cui possono essere destinati e qual è la strada da seguire per arrivare a utilizzarli. Per quanto riguarda le aziende confiscate, un dossier di Libera spiegava che «la maggior parte di quelle confiscate giunge nella disponibilità dello Stato priva di reali capacità operative; le aziende sono spesso destinate alla liquidazione e alla chiusura, se non si interviene in modo efficace nelle fasi precedenti».

Tatiana Giannone, responsabile del settore beni confiscati di Libera, ha detto alla rivista Valori: «In 27 anni sono stati fatti moltissimi passi avanti. Oggi quasi mille enti del terzo settore gestiscono ex-proprietà mafiose. Moltissime aziende hanno trovato il loro posto nel mercato legale, sano». Le perplessità restano però sui tempi, spesso troppo lunghi: «Dal sequestro all’uso sociale del bene possono passare più di 10 anni. Tempi lunghi, lunghissimi, nei quali le proprietà non sono di fatto a disposizione delle persone».

Tra le proposte di Libera c’è quella di aumentare la trasparenza delle pubbliche amministrazioni in materia di beni confiscati, in modo che tutti possano sapere quanti e quali beni sono stati assegnati all’amministrazione per poi essere destinati all’uso sociale.