Le mostre “instagrammabili” sono un problema?

Da alcuni anni quelle che propongono esperienze coinvolgenti e adatte alla condivisione sui social stanno proliferando, nello sconforto degli esperti d'arte

di Viola Stefanello

(Justin Sullivan/Getty Images)
(Justin Sullivan/Getty Images)
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Da circa cinque anni a questa parte, un numero crescente di ex magazzini o complessi industriali riorganizzati come spazi culturali privati – e anche qualche museo pubblico – hanno cominciato a proporre mostre di enorme successo che, a un primo sguardo, sembrano fatte apposta per finire poi nelle foto su Instagram o in un video di TikTok. E che infatti vengono fotografate, riprese e pubblicate sui social da molte persone disposte a pagare almeno una ventina di euro a biglietto per questo tipo di esperienza.

Nella categoria delle “mostre instagrammabili” rientrano molte proposte diverse tra loro. Ci sono quelle tipo la fortunata “Van Gogh Experience”, un formato che viene pubblicizzato come “esperienza immersiva” organizzato normalmente da aziende private che affittano un grande spazio espositivo in una città per qualche mese, usando decine di proiettori per mostrare sulle pareti (ma anche su pavimenti e soffitti) delle animazioni digitali raffiguranti centinaia di opere, per esempio, del pittore olandese Vincent van Gogh.

Il formato ha ottenuto un successo tale da ispirare decine di mostre simili dedicate ad altri artisti molto famosi, come Pablo Picasso, Claude Monet, Frida Kahlo e Gustav Klimt. Ad accomunarle è il fatto che la maggior parte delle opere riprodotte siano di pubblico dominio, dato che i loro autori sono morti da molto tempo, e quindi possano essere reinterpretate e ricontestualizzate a costi relativamente ridotti, affidando a degli esperti di grafica il compito di inserirle all’interno di filmati appariscenti e colorati di circa un’ora.

In questo genere di mostra, ha scritto la ricercatrice Chiara Palsgraaf, «l’arte viene usata come sfondo per i post su Instagram, che servono sia a creare un ricordo online che a mostrare a tutti che sei stato in quel posto». I visitatori sono invitati a sedersi per terra o a camminare a piacere nello spazio espositivo, ascoltando la musica (spesso classica e incalzante) che accompagna le immagini, facendosi fotografare di fronte a gigantografie di girasoli o ninfee. Il fenomeno è enorme: Bloomberg ha raccontato che la mostra “Immersive Van Gogh” proposta da un’azienda canadese in diverse grandi città statunitensi ha venduto 3,2 milioni di biglietti, diventando l’attrazione mondiale di maggior successo sul sito Ticketmaster.

Ci sono poi società – che spesso hanno dietro delle agenzie di comunicazione o persone che lavorano molto con i social media – che organizzano mostre spesso temporanee fatte di stanze e angoli decorati appositamente per diventare lo sfondo di un selfie, con colori sgargianti e oggetti di scena interattivi e sorprendenti. Uno dei primi ad aprire è stato il Museum of Ice Cream, nato inizialmente a New York e poi aperto anche ad Austin, Chicago, Singapore e Shangai: consiste in una serie di stanze arredate in modo chiassoso, con muri rosa, coni gelato che pendono dal soffitto, gonfiabili che riempiono un’intera sala e una piscina di finte caramelle. Quando ne è stata annunciata l’apertura, nel 2016, i primi 300 mila biglietti sono andati esauriti nell’arco di cinque giorni, al prezzo di 18 dollari l’uno.

(Kelly Sullivan/Getty Images for Museum of Ice Cream)

Da allora questo genere di “musei per selfie”, come sono stati chiamati da diversi esperti, ha aperto in tantissime città: a Milano e Roma, per esempio, negli ultimi due anni c’è stato il “Balloon Museum”, dove per 18 euro si può fare il bagno in una vasca di palline di plastica, infilare la testa in una finta nuvola fatta di palloncini e fare tantissime foto a opere di “arte gonfiabile”.

Il fatto che ci sia un numero crescente di aziende che decidono di investire in questo genere di esperienza “immersiva” – e un flusso costante di persone disposte a spendere almeno venti euro per andarci, vederle e fotografarle – ha attirato una serie di critiche sul fenomeno, sempre più ingombrante soprattutto nelle grandi città.

Di recente il critico Alex Fleming-Brown ha scritto un articolo su Vice intitolato provocatoriamente “Le mostre d’arte immersive sono ovunque e sono orribili”, sostenendo che esperienze di questo genere costano decisamente troppo e finiscono per non essere nemmeno tanto immersive, termine coniato per promettere un profondo coinvolgimento degli spettatori, anche fisico. Una volta che ne hai vista una, secondo Fleming-Brown, le hai viste tutte: «forse la cosa più ironica è che il pubblico principale di questi spettacoli “immersivi” è su Internet, dove è di fatto impossibile fare esperienza delle presunte caratteristiche “immersive” di queste mostre. Ma dato che è questo pubblico online a far venire voglia di comprare i biglietti, non è davvero sorprendente che i curatori commerciali sacrifichino ogni ambizione di creare un’esperienza effettivamente multisensoriale all’altare unidimensionale della fotogenicità».

Altri critici hanno fatto notare che questo genere di mostre prende superficialmente ispirazione da installazioni artistiche come Infinity Mirror Rooms di Yayoi Kusama e Rain Room, del collettivo artistico Random International, proposte da istituzioni molto importanti nel mondo dell’arte contemporanea, come la Biennale di Venezia, il Museum of Modern Art di New York o il Tate Modern di Londra, senza però avere lo stesso peso artistico. Quelle opere non erano state create appositamente per avere successo sui social network, ma hanno ottenuto comunque un eccezionale riscontro mediatico e di pubblico, suggerendo che ci fosse un mercato per eventi simili, pure se privi della vocazione e dello spessore artistici originali.

Una stanza della mostra “Infinity Mirror Rooms” dell’artista giapponese Yayoi Kusama (AP Photo/Markus Schreiber)

«Questo genere di operazioni commerciali usa il termine “museo” per definire qualcosa che non fa necessariamente il lavoro di un museo. C’è veramente poco del lavoro di un curatore nel decontestualizzare l’opera di Van Gogh e trasformarla in una stanza colorata: è qualcosa di piuttosto distante dalla funzione educativa o conservativa di un museo. Piuttosto potremmo definirla un’opera di risemantizzazione in chiave commerciale», dice Paola Dubini, che insegna Management delle istituzioni culturali alla Bocconi.

«Da un certo punto di vista, queste operazioni stimolano i musei a pensare che c’è bisogno di cambiare i modi in cui vengono presentate le proprie opere. D’altronde, i musei devono fare i conti con la crescente centralità di Instagram: basti pensare al fatto che al Louvre è pieno di gente che cerca il modo di scattarsi un selfie tremendo davanti alla Gioconda e non guarda nemmeno Le Nozze di Cana del Veronese, che sono lì di fianco», aggiunge Dubini.

È comunque almeno dagli anni Novanta – quindi da prima dei social network – che il settore museale discute a livello internazionale della necessità di coinvolgere maggiormente gli spettatori, sviluppando percorsi audiovisivi, applicazioni e videogiochi per farli sentire più partecipi. Istituzioni come il Rijksmuseum di Amsterdam, per esempio, hanno digitalizzato la propria collezione creando delle copie digitali che hanno una risoluzione altissima, permettendo a chiunque di guardare da più vicino le opere, avvicinandovisi come non sarebbe mai possibile fare di persona in un museo. «Ma la maggior parte di queste esperienze immersive non ingrandiscono il quadro di Van Gogh o Monet per permettere di fare un ragionamento più sofisticato sulle sue tecniche di pittura: lo fanno semplicemente per stupire, per incantare», dice Dubini.

Sul sito di cultura Defector, però, la giornalista Kelsey McKinney scrive che a suo parere il problema principale non è che queste mostre esistono, che la gente spenda volentieri decine di euro per poter dire ai propri follower di esserci stata, che «non sia vera arte»: è che si tratta in larghissima parte di operazioni puramente commerciali e private che non contribuiscono a pagare curatori, rendere più sostenibili i musei pubblici, arricchire (né economicamente né culturalmente) il tessuto culturale delle città dove passano.

Scrive McKinney:

Il problema è che gli obiettivi dell’arte e gli obiettivi del mercato non si intersecano e non possono intersecarsi armoniosamente. La stessa cosa che sta accadendo al giornalismo, ai ristoranti, alle librerie, a Hollywood, a tutto ciò che è bello e interessante, sta accadendo all’arte. I posti di lavoro stanno scomparendo. I fondi di investimento si mostrano interessati. All’inizio del 2020, i musei statunitensi hanno tagliato 1.350 posti di lavoro. Tutto ciò che non era sufficientemente redditizio ora viene sventrato per creare qualcosa che serve solo a rendere ricco qualcuno sul momento. Questo è il problema delle mostre tipo Van Gogh Experience: il loro obiettivo non è l’educazione, l’ispirazione o la meraviglia. È ottenere profitti infiniti e certi. Non c’è bisogno di un curatore per proiettare un dipinto su un muro. Cazzo, non c’è bisogno nemmeno di pagare i diritti d’autore su quelle opere.