Facciamo meno scoperte rivoluzionarie?

Secondo un'analisi su un'enorme quantità di dati, la proporzione di ricerche scientifiche che segnano un punto di svolta si è ridotta moltissimo in mezzo secolo

(Fox Photos/Getty Images)
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Negli ultimi decenni la quantità di ricerche scientifiche pubblicata ogni anno è aumentata enormemente, eppure secondo una nuova analisi le scoperte che segnano un punto di svolta rispetto alle conoscenze già acquisite è continuata a diminuire, in proporzione. Analizzando i dati su milioni di ricerche, è emerso che negli ultimi 20 anni le scoperte hanno portato a piccoli incrementi nella conoscenza, mentre nei decenni precedenti gli studi segnavano più spesso un radicale cambiamento, rendendo obsolete le ricerche e le conoscenze precedenti in un determinato settore. I motivi di questo cambiamento non sono ancora completamente chiari, né implicano necessariamente che la ricerca scientifica abbia smesso di portare innovazione.

La nuova analisi, che sta attirando grande interesse da parte della comunità scientifica, è stata pubblicata su Nature e realizzata negli Stati Uniti da Russell Funk, professore di strategia di impresa all’Università del Minnesota, insieme al dottorando Michael Park e a Erin Leahey, docente di sociologia presso l’Università dell’Arizona. Il gruppo di ricerca ha analizzato 45 milioni di studi scientifici e quasi 4 milioni di brevetti, pubblicati a partire dalla metà del Novecento circa. Sulla base di vari parametri, hanno assegnato a ogni ricerca un valore, definito come “indice di consolidamento-svolta” (CD, da “consolidation-disruption”) a seconda che lo studio segnasse una radicale novità rispetto ai lavori precedenti nel medesimo settore, oppure solo un miglioramento delle conoscenze già acquisite.

Per calcolare il CD, il gruppo di ricerca è partito da questo assunto: se uno studio segna un punto di svolta, le ricerche seguenti che lo citano difficilmente citeranno molti lavori precedenti a quello studio, considerato che quest’ultimo ha portato a un cambiamento di paradigma. Sulla base di questo presupposto, hanno poi calcolato il CD che varia da -1 nel caso in cui uno studio consolidi conoscenze già acquisite a +1 per uno studio che presenta invece una rottura con le conoscenze precedenti.

In media, il valore del CD si è ridotto del 90 per cento tra il 1945 e il 2010 per quanto riguarda le ricerche scientifiche e del 78 per cento, tra il 1980 e il 2010, per quanto riguarda i brevetti. L’indice si è ridotto in tutti gli ambiti di ricerca esplorati dall’analisi: dalla fisica alla medicina, passando per la tecnologia e le scienze sociali. La riduzione è risultata via via più marcata tra gli anni Sessanta e Settanta, anche quando il gruppo di ricerca ha tenuto in considerazione altri parametri per compensare i cambiamenti nel modo in cui vengono citate le precedenti ricerche nei nuovi studi.

Da diverso tempo, infatti, tra i principali parametri per valutare la reputazione di una ricerca e quella delle persone che l’hanno scritta si calcola il numero di citazioni che uno studio riceve, anche se ciò non implica sempre che un certo lavoro sia di grande qualità o particolarmente determinante per lo sviluppo di una disciplina. Il CD è basato in parte su questi criteri, ma li estende per comprendere quanto alcuni studi siano diventati meno rilevanti, perché antecedenti a una scoperta che ne ha smentito o messo fortemente in discussione le conclusioni.

Dall’analisi è inoltre emerso come siano cambiati i termini più ricorrenti utilizzati nelle ricerche pubblicate. Negli anni Cinquanta era maggiore l’incidenza di parole legate alla scoperta di qualcosa o alla creazione di novità, mentre negli scorsi anni Dieci è diventato più frequente l’uso di parole legate a piccoli progressi come “miglioramenti” e “potenziamenti”.

Per realizzare l’analisi sono stati presi in considerazione numerosi altri parametri su una mole enorme di ricerche, tale da rendere necessario l’impiego di computer molto potenti e un mese di lavoro per analizzare tutti i dati e costruire l’indice. Secondo il gruppo di ricerca, una decina di anni fa un lavoro simile non sarebbe stato possibile, proprio per la mancanza di sistemi di calcolo potenti a sufficienza per raccogliere tutti i dati ed effettuare i calcoli.

In passato altre ricerche, basate su minori quantità di dati, avevano già evidenziato come l’innovazione in ambito scientifico avesse rallentato negli ultimi decenni. Quelle analisi avevano portato a un ampio dibattito sulle capacità e il ruolo della scienza, sugli ambiti in cui si possano ancora trovare veri punti di svolta e più in generale sulla capacità di innovare in numerosi settori. La nuova analisi porta ulteriori elementi e rende nuovamente attuale quel confronto.

Già nel 1996 il giornalista scientifico statunitense John Horgan aveva scritto nel suo libro La fine della scienza che l’epoca delle grandi scoperte era finita. La sua tesi era che ci fosse un numero comunque finito di verità scientifiche da scoprire e di potenziali nuove scoperte che sovvertano alcune delle nostre conoscenze. Di conseguenza la quantità di punti di svolta è limitata ed è destinata a finire.

L’idea di Horgan e più in generale della finitezza delle scoperte è discussa da tempo e non è ritenuta da tutti una spiegazione sufficiente. La minore quantità di ricerche che rompono con il passato deriva probabilmente da più fattori, a cominciare dal livello di specializzazione sempre più alto raggiunto da chi fa ricerca. Rispetto alla metà del Novecento, oggi gli ambiti di ricerca sono molto più definiti e racchiusi in specifici settori, condizione che rende più probabili i progressi per piccoli incrementi rispetto a grandi scoperte, che magari interessano contemporaneamente più ambiti di ricerca.

Altri ancora segnalano come in fin dei conti la storia della scienza insegni come i veri momenti “eureka”, quelli di una grande e rivoluzionaria scoperta, siano stati relativamente pochi. In questo senso, la scienza è un progresso e le nuove scoperte si basano quasi sempre sulle conoscenze maturate in precedenza. Molti progressi sono stati inoltre realizzati partendo da scoperte nella ricerca di base, per le quali non si prevedevano da subito applicazioni pratiche e almeno inizialmente sembravano essere confinate ai laboratori dove erano state svolte.

Infine, la grande quantità di ricerche scientifiche prodotte ogni anno costituisce una grande opportunità, ma anche un ostacolo alle nuove scoperte. Si stima che in un anno vengano ormai pubblicati circa un milione di studi, ciò significa che ogni giorno centri di ricerca, università, aziende e singole persone pubblicano 3mila studi su una miriade di riviste scientifiche. Districarsi in questa grande quantità di ricerche può essere molto difficile, con il rischio che alcuni importanti progressi in un determinato settore passino inosservati.

Le cause della riduzione del CD non sono comunque ancora completamente chiare, dice il gruppo che ha curato la nuova analisi. La quantità di studi che hanno segnato un punto di svolta è rimasta relativamente costante nel periodo di tempo analizzato, mentre si è ridotta sensibilmente la loro proporzione rispetto alla quantità di ricerche prodotte. Idealmente, un buon misto tra ricerche rivoluzionarie e incrementali sarebbe l’ideale per avere importanti progressi in numerosi ambiti della ricerca scientifica.