Gestire Disney è sempre un problema

Lo sa Bob Chapek, che è stato rimosso come CEO dopo meno di tre anni, e lo sa Bob Iger, che ha accettato di tornare prendendo il suo posto e ritrovando nuovi grattacapi

(Mark Ashman)
(Mark Ashman)
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Il prossimo 16 ottobre The Walt Disney Company, la più famosa azienda dell’intrattenimento al mondo, compirà 100 anni. Attraversando i drammatici cambiamenti che ha subìto il mondo in quasi un secolo di storia, la società ha dovuto affrontare numerose difficoltà e reinventarsi più volte, cercando di mantenere lo spirito e le ambizioni sui quali era stata fondata dai fratelli Walt e Roy Disney in un giorno di autunno del 1923 a Hollywood: divertire e meravigliare il pubblico, facendo dimenticare almeno per qualche minuto i propri problemi.

Ma fuori dagli schermi e dai parchi a tema, per Disney si sono accumulati grattacapi e crisi e i dirigenti devono ora gestire una delle fasi più turbolente e difficili che abbia mai incontrato l’azienda, a causa dei rapidi cambiamenti nel settore dell’intrattenimento. I problemi insomma non mancano, nel “posto più magico del mondo”.

Bob Chapek, l’ultimo CEO di Disney, è durato meno di tre anni e a novembre dello scorso anno ha lasciato il posto a Bob Iger, che era già stato alla guida dell’azienda per 15 anni determinandone alcuni dei principali successi. Il ritorno di Iger, rispettatissimo nel settore, è stato accolto con sollievo dai creativi che lavorano per Disney e positivamente dagli analisti e dagli investitori, delusi dalle scelte di Chapek. I conti dell’azienda sono buoni, ma le prospettive di crescita sono incerte, al punto da avere spinto uno degli azionisti a cercare un posto nel consiglio di amministrazione per ottenere cambiamenti radicali, rimettendo in discussione il recente ritorno di Iger.

Uomini e topi
Da piccola casa di produzione di brevi cartoni animati, con un topo saccente e un papero indisponente, Disney è diventata nel corso dei decenni una delle più grandi aziende al mondo con una enorme quantità di società controllate e attività di ogni tipo. I suoi oltre 220mila dipendenti si occupano della produzione di film e serie tv, dello sviluppo e dell’organizzazione dei parchi a tema e di una linea di crociere, della gestione di etichette musicali, case editrici, alberghi, servizi per lo streaming, villaggi vacanze, negozi e molto altro. Disney controlla alcune delle case di produzione cinematografica più redditizie e di successo come Marvel Studios, con il suo famoso universo di supereroi, Lucasfilm, che comprende lo sterminato mondo di Star Wars, Pixar e 20th Century Studios, frutto dell’acquisizione di una parte consistente delle attività di Fox nel 2017, voluta fortemente da Iger.

Disney ha concluso il 2022 con un fatturato di 82,7 miliardi di dollari e ha prodotto un utile netto di 3,1 miliardi di dollari, con un aumento degli utili del 57,6 per cento rispetto al 2021. Nei due anni precedenti a causa della pandemia e di altri fattori i risultati erano stati invece più deludenti, con una riduzione degli utili. A causa del coronavirus, la società aveva dovuto chiudere i propri parchi a tema, una delle principali fonti di ricavo, sospendere le attività delle navi da crociera e ritardare la produzione e la distribuzione di molti film nei cinema, chiusi in buona parte del mondo. Tutte scelte che aveva dovuto sostenere Bob Chapek, all’epoca sessantenne e da poco nel delicato ruolo di CEO successore di Bob Iger, che di anni ne ha 71 ed era stato l’artefice di uno dei più grandi cambiamenti nella storia recente di Disney, legato alla distribuzione di contenuti in streaming.

Streaming e concorrenza
Circa cinque anni fa, quando era nel suo ultimo periodo da CEO, Iger aveva iniziato a esplorare la possibilità per Disney di distribuire direttamente online i propri film e le altre produzioni senza che fossero altre piattaforme a farlo sotto licenza, come Netflix. Il settore dello streaming online era in piena espansione e proprio Netflix aveva basato parte del proprio successo sulla possibilità di offrire contenuti di valore e molto richiesti come alcuni film Pixar e Marvel.

Iger riteneva che non avesse senso dipendere da un sistema di distribuzione esterno, che intanto continuava a crescere, accumulando nuovi abbonati e capitali per produrre direttamente alcuni contenuti che avrebbero poi fatto concorrenza a quelli Disney. Lasciò che il contratto con Netflix arrivasse alla scadenza naturale nel 2019 e non lo rinnovò, in modo da offrire in esclusiva lo sterminato catalogo di proprie produzioni su Disney+, una nuova piattaforma per lo streaming cui la società stava già lavorando da qualche tempo. In breve tempo, tutti i film Marvel, quelli di Star Wars e le relative derivazioni, senza contare tutti i film di animazione Disney e Pixar e molti altri contenuti, divennero disponibili solamente su Disney+ costituendo un grande incentivo ad abbonarsi per gli appassionati dei vari generi.

Bob Iger con Topolino (Getty Images)

Complice una campagna promozionale per avere un primo anno di abbonamento a prezzi molto vantaggiosi, Disney+ raccolse alla fine del 2020 oltre 70 milioni di abbonati, riuscendo a sfruttare le conseguenze della pandemia da coronavirus che aveva sensibilmente modificato le abitudini legate all’intrattenimento, con i cinema chiusi e le piattaforme di streaming come primo punto di accesso per vedere film, serie tv e documentari.

I due Bob
I primi successi di Disney+ coincisero con la scelta di Bob Iger di lasciare il proprio incarico, considerando l’avvio del nuovo sistema come un punto di arrivo nella trasformazione di Disney verso il digitale. Si dimise da CEO e indicò come proprio successore Bob Chapek, che aveva lavorato per 18 anni nella divisione dell’azienda che si occupa dei parchi a tema. Iger mantenne un ruolo esecutivo nel consiglio di amministrazione, occupandosi di fatto di alcune importanti decisioni fino alla fine del 2021, con l’obiettivo di aiutare Chapek nel periodo di transizione e di affrontare meglio gli effetti della pandemia che avevano reso necessarie chiusure, rinvii di produzioni e il licenziamento di migliaia di persone.

Chapek era stato tra i più convinti proponenti del passaggio a un servizio in streaming e per questo era considerato da molti analisti il più adatto per proseguire le attività avviate da Iger, anche se rispetto al suo predecessore non aveva lo stesso carisma: era visto come un abile manager molto attento ai numeri e meno agli aspetti creativi. Oltre a decidere una riorganizzazione interna, istituì una nuova entità chiamata Disney Media and Entertainment Distribution (DMED) mettendoci a capo Kareem Daniel, che non aveva nessuna esperienza sulla produzione e sulla distribuzione di contenuti.

Bob Chapek (David Livingston/Getty Images)

L’idea era di avere un sistema per coordinare meglio le produzioni tra le varie divisioni e decidere come dovessero essere distribuite, se al cinema o direttamente su Disney+, per esempio. In un’azienda molto grande può avere senso ridurre i punti di attrito e le ridondanze in queste attività, ma DMED finì per intaccare l’autonomia dei gruppi creativi che si occupano di valutare le varie proposte, decidere che cosa diventerà un film o una serie tv e di concordare con altri settori dell’azienda i canali di distribuzione. Sotto Bob Iger, questi gruppi erano alquanto autonomi, anche nel gestire le risorse, proprio perché Iger era consapevole delle dinamiche che fanno funzionare i processi creativi, molto più sfumati e talvolta frutto di idee estemporanee se non del caso, rispetto ai processi di gestione aziendale con le loro rigidità, numeri e piani di spesa.

Per una società che deve gestire un grande patrimonio di prodotti culturali, sui quali ha poi costruito di tutto (dalle giostre ai libri passando per le crociere), tenere in ordine budget e piani aziendali è naturalmente essenziale, ma lo è anche mantenere motivati e attivi i gruppi che si occupano di creare nuovi contenuti, che in futuro entreranno a far parte di quel grande patrimonio accumulato in quasi un secolo di esistenza. Nel suo breve periodo da CEO, secondo molti analisti Chapek trascurò l’importanza di questi aspetti e più in generale ciò che Disney rappresenta per centinaia di milioni di persone in tutto il mondo.

Magic Kingdom
Esistendo da così tanto tempo ed essendo per moltissime persone uno dei primissimi ricordi d’infanzia (chi non ha visto almeno un cartone animato Disney da piccolo?), Disney è percepito come qualcosa di diverso da un semplice marchio come possono esserlo Ikea o Starbucks. Questa percezione è amplificata dal tipo di esperienze che offrono i prodotti Disney, che intercettano più generazioni e che nel caso dei parchi a tema diventano qualcosa di molto concreto e tangibile, trasformandosi poi per molti in un ricordo di famiglia.

Passare qualche giornata a Disneyland Paris (Francia) o a Disney World (Florida) è piuttosto costoso, ma per lungo tempo Disney aveva mantenuto prezzi accessibili, con varie offerte e formule per estendere il più possibile l’insieme dei potenziali clienti. Essendo i parchi uno dei settori più redditizi di tutta l’azienda, Chapek aveva aumentato sensibilmente il prezzo dei biglietti e introdotto vari extra a pagamento. Ciò aveva portato a maggiori ricavi, ma al tempo stesso a un certo disamoramento da parte di molti clienti affezionati e a minori opportunità di attrarre nuovi clienti, da fidelizzare poi con altri servizi come Disney+. E ad aumentare gli abbonati a Disney+ Chapek ci teneva moltissimo, al punto da crearsi da solo un altro bel problema.

Numeri
Forse per dimostrare di poter essere meglio di chi lo aveva preceduto e per confermare il proprio interesse verso Disney+, a inizio 2021 Chapek annunciò agli investitori una revisione delle previsioni di crescita del servizio di streaming. Sulla scia del successo ottenuto con 100 milioni di iscritti – ben al di sopra delle previsioni più ottimistiche di Iger riferite tra l’altro al 2024 – Chapek annunciò di volere arrivare entro tre anni a 230-260 milioni di iscritti. Era un obiettivo molto ambizioso anche perché non c’erano elementi per ritenere che Disney potesse continuare ad accumulare circa 15 milioni di nuovi iscritti ogni trimestre, come aveva fatto in precedenza. Secondo gli analisti Chapek aveva trascurato la progressiva saturazione del mercato, illudendosi di poter raggiungere velocemente Netflix, impegnando Disney a perseguire un obiettivo che teneva in secondo piano gli aspetti di sostenibilità economica, verso cui gli investitori iniziavano a essere molto più sensibili.

Come avviene spesso nei settori emergenti, per diverso tempo l’aumento degli abbonati era il dato più osservato e soppesato da analisti e investitori, perché costituiva un buon metro di giudizio per valutare la crescita dei servizi di streaming e le loro potenzialità. Il fatto che le loro attività fossero in perdita era secondario, considerato l’andamento dei loro titoli in borsa e i grandi investimenti di chi scommetteva sul loro successo. Ora i tempi sono maturati (anche in questo caso la pandemia ha dato una certa accelerazione) e da Netflix, Disney+ e gli altri ci si aspetta che inizino a rendere sostenibile il loro modello, mostrando di avere una base di utenti stabile – un “vero pubblico” – e di poterla sfruttare per produrre utili.

Netflix ha cercato di sfruttare il più possibile a proprio vantaggio questo orientamento, concentrando meno l’attenzione sul numero di propri iscritti e mettendo invece in evidenza l’andamento dei ricavi e di altri dati economici sui quali non c’è molta gara con le altre piattaforme. Da azienda del settore più grande e in grado di realizzare utili (circa 5 miliardi di dollari nel 2022), Netflix ha spinto analisti e investitori a utilizzare ancora di più questi parametri per valutare l’andamento dei suoi concorrenti, mettendo in una posizione difficile Disney+ e Chapek, fino a quando era CEO dell’azienda.

Reed Hastings di Netflix, durante una presentazione (Ore Huiying/Getty Images for Netflix)

Nel trimestre terminato nei primi giorni dello scorso novembre, Disney+ aveva perso 1,47 miliardi di dollari, mostrandosi distante dall’obiettivo di essere in attivo entro il 2024 come più volte annunciato dal suo CEO. Più in generale, l’azienda aveva mancato varie previsioni di crescita, tanto da indurre il consiglio di amministrazione a rimuovere Bob Chapek, annunciando di avere richiamato per due anni Bob Iger, nonostante questi avesse negato pubblicamente in più occasioni di essere interessato a tornare a essere il CEO di Disney.

Il ritorno
È tornato a farlo trovando un’azienda organizzata diversamente da come l’aveva lasciata, ma che potrebbe essere riportata con relativa facilità al precedente assetto. Iger ha istituto un gruppo di lavoro per valutare come ristrutturare l’azienda, ma secondo molti analisti il piano potrebbe ridursi a riportare buona parte della gestione al periodo pre Chapek, eliminando iniziative come DMED che avevano portato grande scontento tra i gruppi creativi, che riguadagnerebbero così maggiori autonomie. A inizio anno Disney ha intanto annunciato una revisione dei prezzi per i biglietti di accesso ai propri parchi a tema, con nuove offerte e riduzioni, mostrando una certa attenzione verso le segnalazioni e le lamentele di molti clienti per i prezzi aumentati con le riaperture dopo la pandemia.

Sulla base delle prime dichiarazioni di Iger e delle previsioni degli analisti, Disney+ continuerà a essere al centro dei piani aziendali, con una particolare attenzione alle spese e ai ricavi derivanti dal servizio. L’impegno in questo senso ha già tranquillizzato gli investitori, che avevano sollevato preoccupazioni dopo gli ultimi dati finanziari di Disney. Farlo non sarà comunque semplice, considerato che i piani di investimenti per le produzioni riguardano più anni e tagliare alcuni progetti già avviati potrebbe rivelarsi più costoso di portarli a termine.

Non è ancora chiaro se Bob Iger rimarrà CEO di Disney per soli due anni, come stabilito a novembre, o se il consiglio di amministrazione abbia intenzione di estendere la sua permanenza. Molto potrebbe dipendere da quanto tempo richiederà la ricerca del nuovo successore, dopo l’esperienza non riuscita con Chapek. E forse proprio la scelta della persona che lo avrebbe dovuto sostituire è stata il più grave errore compiuto da Iger in circa 15 anni alla guida di Disney. Alcuni osservatori ritengono che la sua decisione di tornare sia proprio dipesa dalla volontà di rimediare, trovando qualcuno più adatto a un ruolo così delicato e che possa reggere il confronto con uno dei CEO più rispettati e di maggior successo che abbia avuto Disney.

Su Iger la pensa diversamente il miliardario statunitense Nelson Peltz, tra i fondatori del grande fondo di investimento Trian. Nelle ultime settimane, Peltz ha avviato un’iniziativa ostile nei confronti del consiglio di amministrazione di Disney, dicendo di essere contrario al ritorno di Iger e alla fine della gestione Chapek.

Per questo ha avviato varie operazioni per ottenere un posto nel consiglio di amministrazione della società, che ne ha però respinto la richiesta sostenendo che Peltz non abbia sufficiente esperienza nel campo dei media e dell’intrattenimento. In realtà, molti consiglieri di amministrazione di Disney provengono da ambienti molto diversi e variegati, di conseguenza secondo molti osservatori la motivazione sarebbe stata usata come scusa per ostacolare Peltz, che per ora non sembra essere determinato a desistere anche in vista della ricerca di un nuovo CEO.

La scelta da parte di Iger e dei suoi collaboratori potrebbe ricadere su dirigenti che già fanno parte di Disney e di cui si era già parlato prima della nomina di Chapek. Tra questi ci sono Dana Walden, che si occupa di produzione di contenuti per l’intrattenimento legati a Disney+ e agli altri sistemi di streaming dell’azienda, e Alan Bergman, che lavora per Disney da 25 anni e ha curato l’integrazione dei prodotti dopo le varie acquisizioni decise da Iger. Altri potenziali candidati potrebbero essere Kevin Mayer e Tom Staggs, entrambi ex dirigenti Disney, che avevano deciso di lasciare l’azienda quando era stato scelto Chapek.

La difficoltà nel trovare la persona adatta spiega perché sia stato richiamato Iger, anche se ciò non implica naturalmente che non ci sia nessun altro che possa ricoprire adeguatamente quel ruolo. Alcuni osservatori ritengono che Disney sia ormai troppo grande e articolata per avere un solo CEO e che l’azienda dovrebbe seguire il modello adottato da Netflix, con due responsabili che si occupano rispettivamente della parte operativa (Reed Hastings, che ha appena lasciato il proprio incarico) e di quella creativa (Ted Sarandos). A ben vedere, non sarebbe nemmeno una scelta così innovativa e insolita per Disney.

Quando i fratelli Disney fondarono la loro società quasi un secolo fa, decisero di essere soci alla pari: Walt si sarebbe occupato della parte creativa, lasciando quella operativa a Roy. In pochi anni la loro società subì varie trasformazioni e non mancarono i contrasti, ma quella impostazione rimase a lungo invariata consentendo ai due fratelli di occuparsi di ciò che sapevano fare meglio. Una ventina di anni dopo la creazione della loro azienda, Walt Disney ricordò come in definitiva tutto avesse avuto inizio con il disegno abbozzato di un topolino: «Saltò fuori dalla mia mente su un taccuino 20 anni fa in un viaggio in treno da Manhattan a Hollywood, in un momento in cui gli affari per me e per mio fratello Roy erano al loro minimo e un disastro sembrava essere dietro l’angolo. Nato per necessità, quel piccolo amico ci rese letteralmente liberi da ogni preoccupazione».