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  • Martedì 27 dicembre 2022

Cosa si può fare per rendere meno pericoloso andare in bici per strada in Italia

Gli approcci di maggiore successo in Europa suggeriscono di cominciare dalle strade, e non dalle bici

Una persona porta a mano una bici sul ponte Vittorio Emanuele I a Torino, che non si può attraversare in bici (ANSA/TINO ROMANO)
Una persona porta a mano una bici sul ponte Vittorio Emanuele I a Torino, che non si può attraversare in bici (ANSA/TINO ROMANO)
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In Italia, quando si parla di una maggiore sicurezza per chi va in bicicletta, si cercano soluzioni collegate in senso stretto al mezzo: per le città si cita il numero insufficiente di piste ciclabili, per le strade extraurbane una distanza di sicurezza di un metro e mezzo tra ciclisti e automobilisti durante i sorpassi. Della distanza di sicurezza se ne parla ciclicamente anche in parlamento: è successo anche dopo la morte dell’ex ciclista Davide Rebellin, investito su una strada regionale da una persona alla guida di un camion.

Sono proposte utili e su cui l’Italia ha grosse carenze: le piste ciclabili sono ancora poche rispetto ad altri paesi, e la legge sul metro e mezzo è molto lontana dall’approvazione. Ma secondo molte persone che si occupano da tempo di questi temi, da sole non basterebbero comunque a risolvere i problemi di sicurezza sulle strade, che sono assai più ampi e vengono da lontano. Nel 2021 in Italia sono morte 220 persone in incidenti in bicicletta, più di una ogni due giorni, ma anche 471 pedoni, tra cui decine di bambini.

– Leggi anche: Perché in Italia si muore andando in bici

Secondo molti esperti di mobilità bisognerebbe intervenire prima di tutto a un livello più ampio, culturale, in un modo che punti a sostituire progressivamente l’idea della strada come luogo dedicato quasi esclusivamente alle auto.

Le migliori soluzioni proposte e sperimentate fin qui nel mondo hanno mostrato l’esistenza di approcci che gioverebbero a tutti gli utenti della strada, automobilisti compresi. Peraltro, quasi nessun utente può dire di appartenere a una sola categoria: anche se la mobilità è molto spesso descritta come un conflitto fra categorie distinte e in competizione tra loro, tutti gli automobilisti sono sempre anche pedoni, e spesso sono poi ciclisti, motociclisti, passeggeri di mezzi pubblici, eccetera.

Un cambio di mentalità di questo genere in Italia sembra ancora molto lontano, spiega Matteo Dondé, architetto urbanista esperto in pianificazione della mobilità ciclistica e nella moderazione del traffico: «Basta guardare come sono fatte le strade e la suddivisione dello spazio: in Italia spesso l’80 per cento è dedicato all’auto, fra parcheggi e carreggiata». Il predominio delle automobili è un fatto che ormai diamo quasi per scontato, ma non è affatto necessario. In questo modo «si perde molto della ricchezza d’uso per cui la strada è nata», dice Dondé: in teoria sarebbe più semplicemente «il luogo della vita della città», e di chi ci abita.

È una contraddizione non da poco: la strada occupa circa l’80 per cento dello spazio aperto accessibile delle città, e finisce per essere dedicata quasi solo alle automobili, che mediamente sono per la maggior parte del tempo vuote e ferme. E anche quando sono in movimento, nella maggior parte dei casi sono piene per un quinto, cioè occupate dal solo conducente, e vengono usate per viaggi di pochi chilometri: a Roma e Firenze, per esempio, la metà degli spostamenti in auto è inferiore ai 6 chilometri.

È un atteggiamento che non penalizza solo chi va in bici e a piedi, ma anche gli stessi automobilisti, che sono spesso costretti a passare la maggior parte del tempo alla guida nel traffico. Con 66 automobili ogni 100 abitanti, l’Italia è il secondo paese dell’Unione Europea con il più alto tasso di motorizzazione, dopo il Lussemburgo.

Il risultato è che spesso il vantaggio di spostarsi in auto è solo apparente. Matteo Dondé fa l’esempio di un tragitto molto percorso a Bologna, tra via Sardegna e il centro, prendendo come riferimento le due Torri (Garisenda e degli Asinelli): in auto ci vogliono tra i 12 e i 35 minuti, a seconda delle condizioni di traffico, a cui va aggiunto il tempo impiegato a cercare parcheggio; in bici ce ne vogliono 14. È difficile trovare dati complessivi per tutto il paese, ma sono condizioni singolarmente riscontrabili in moltissimi tragitti delle città italiane.

Anche se in Italia le piste ciclabili sono poche, è indubbio che negli ultimi anni siano notevolmente aumentate: i motivi per cui la mobilità in bicicletta invece nel frattempo è calata, e per cui molte persone preferiscono ancora spostarsi in auto, sono legati soprattutto alla sicurezza. Secondo Dondé si possono adottare misure molto concrete al riguardo, che darebbero risultati in poco tempo: «Dobbiamo pensare alla “città 30”, lo stanno facendo in modi diversi in moltissimi posti: Parigi, Berlino, Barcellona».

Per “città 30” s’intende in senso stretto una città in cui quasi tutte le strade abbiano un limite di velocità di 30 chilometri orari, invece dei 50 normalmente previsti in ambito cittadino. Non basta però solo abbassare il limite di velocità e inserire i relativi cartelli: a questo va affiancata una serie di altri interventi infrastrutturali. Tra i più piccoli e banali ci sono per esempio l’inserimento di dossi sulla carreggiata o in generale di strumenti per far rallentare le auto. Altri considerati particolarmente importanti sono rialzi agli incroci o rotatorie che li sostituiscano del tutto, visto che gli incroci sono il luogo in cui statisticamente avvengono più incidenti.

Più in generale però la città 30 (quando l’iniziativa è circoscritta a un solo quartiere si parla di “zona 30”) punta a riequilibrare lo spazio pubblico: ridurre quindi lo spazio della strada dedicato alle auto, con l’inserimento di piste ciclabili e l’allargamento dei marciapiedi, per creare spazi vivibili per le persone, con più alberi e più panchine. «Significa permettere agli anziani di fare più passeggiate perché possono sedersi, ai bambini di andare a piedi o in bici a scuola da soli», dice Dondé, «vuol dire creare città più belle, più civili, più democratiche».

Oggi in Italia la percentuale di bambini che va a scuola a piedi o in bici è meno della metà rispetto a quella di chi viene accompagnato in auto, un fatto che «ha anche conseguenze sulla salute e sulla sedentarietà», dice Dondé.

I singoli interventi per realizzare le zone 30 hanno insomma conseguenze su più livelli: fare carreggiate più strette per esempio significa anche che le auto avranno meno spazio per fare le curve, e quindi dovranno necessariamente rallentare agli incroci (il posto più pericoloso della strada). È un modo per cambiare nel tempo la mentalità degli automobilisti e di tutti i fruitori della strada, e naturalmente sono anche tutti interventi che vanno nella direzione di avere città meno inquinate.

In un contesto del genere in diverse città europee si è dimostrato che funzionano bene anche le piste ciclabili realizzate semplicemente disegnando sulla strada le strisce che le delimitano, senza elementi fisici e architettonici che le separino dal resto dell’area occupata dalle auto: quelle che da chi se ne occupa vengono chiamate, per distinguerle, “corsie ciclabili”. Dove le zone 30 funzionano non ci sono motorini che le invadono, auto e furgoni che ci parcheggiano sopra, eccetera.

Bruxelles ha inaugurato il suo progetto per diventare una città 30 all’inizio del 2021, e dopo un anno aveva già risultati molto tangibili: il 20 per cento in meno di incidenti per le strade e la metà dei morti rispetto all’anno precedente, con un aumento del 20 per cento del numero di ciclisti. Inoltre secondo i dati raccolti dall’agenzia che si occupa di mobilità, Bruxelles Mobilité, nonostante il limite di velocità più basso non c’è stato un impatto significativo sui tempi di percorrenza dei tragitti in auto.

Conclusioni simili sono state raggiunte anche a Edimburgo, che ha iniziato il progetto nello stesso periodo (con un limite di 20 miglia orarie in quel caso, cioè poco più di 32 km/h).

A Barcellona invece esiste da anni un progetto che non è proprio la stessa cosa della città 30 ma ci somiglia, quello delle cosiddette “superilles” (“superblocchi” in catalano): cioè pezzi di città composti da nove isolati ciascuno, dove sostanzialmente le auto non sono benvenute. L’obiettivo è permettere la circolazione delle auto quasi solo lungo il perimetro delle superilles, mentre all’interno la priorità è data ad altre forme di mobilità e agli spazi verdi pubblici. Gli effetti sono molto promettenti in ciascuna delle superilles e sono giudicati positivamente da gran parte della popolazione.

In tutta la Spagna nel 2021 è entrata in vigore una legge che limita la velocità a 30 chilometri orari su tutte le strade del paese con una sola corsia, a 20 quando il marciapiede è al livello della strada o se ci sono due singole corsie a senso alternato. Il limite di 50 chilometri orari è rimasto solo nelle strade con almeno due corsie per senso di marcia, che intanto in città come Barcellona sono rimaste solo fuori dai quartieri.

– Leggi anche: La rivoluzione urbanistica di Barcellona

Parigi ha introdotto il concetto di città 30 in gran parte delle sue zone a fine agosto del 2021, ma i primi risultati sono da guardare con una certa cautela, perché paragonano i 12 mesi a partire da settembre 2021 ai 12 mesi precedenti, quindi con una grossa influenza degli effetti della pandemia sui dati presi in considerazione: gli incidenti sono comunque diminuiti di circa l’8 per cento, anche se i morti sono stati di più (40, contro i 29 del periodo precedente).

Anche qui la popolazione si dice soddisfatta della novità introdotta, per varie ragioni già verificabili: dalla diminuzione dell’inquinamento acustico alla maggiore disponibilità di spazi per vivere le strade. A Parigi in questi anni è stato messo in atto anche un progetto per pedonalizzare completamente il lungo Senna che va nella stessa direzione: ora è a disposizione solo di bici o pedoni. Nelle città attraversate da grandi fiumi in Italia, come Roma e Firenze, il lungofiume è invece tra le zone più trafficate.

Una riva della Senna a Parigi lo scorso luglio (AP Photo/Michel Euler)

Secondo Matteo Dondé il successo del progetto della sindaca Anne Hidalgo a Parigi è stato nella comunicazione: «Ha avuto il consenso perché ha raccontato la visione complessiva che aveva delle città, ed è diventata comprensibile ai cittadini».

Anche secondo Marco Scarponi, fratello dell’ex ciclista Michele Scarponi, che morì nel 2017 investito da una persona alla guida di un furgone, in Italia il problema è la mancanza di un progetto di così ampio respiro. Scarponi dice che le singole iniziative legislative sono benvenute, ma da sole possono fare poco.

È il caso della proposta di legge che prevede una distanza di sicurezza di un metro e mezzo durante i sorpassi alle biciclette sulle strade extraurbane, depositata il mese scorso dal deputato del Partito Democratico Mauro Berruto (ma già proposta anche dal senatore Marco Perosino di Forza Italia a febbraio): «Se non c’è una cultura in cui questo genere di leggi viene rispettato davvero, allora non serve a molto. È come per le leggi sui limiti di velocità, che è abituale non rispettare non appena c’è l’occasione», dice Scarponi, che dopo la morte del fratello ha fondato la Fondazione Michele Scarponi, che porta avanti vari progetti sulla sicurezza stradale.

Scarponi sostiene che la legge sul metro e mezzo, che comunque è ancora lontana dall’iniziare il suo percorso verso l’approvazione, andrebbe affiancata a maggiori controlli sulla velocità nelle strade extraurbane (provinciali, regionali, statali). Anche investire sulle città 30 secondo lui influirebbe positivamente su tutta la mobilità, non solo cittadina, perché cambierebbe la prospettiva con cui la si affronta: «Il cittadino non è più un suddito che rispetta regole, ma gli si fa toccare con mano perché è importante allargare i marciapiedi, le strisce pedonali, restringere le carreggiate».

Matteo Dondé ha realizzato vari progetti di questo genere (si chiamano interventi di “urbanismo tattico”), con sperimentazioni di zone 30 in singoli quartieri di alcune città, affiancando a questi ampie campagne per raccontare agli abitanti del posto cosa sarebbe stato fatto: due a Milano, uno a Terni in Umbria e uno a Casalmaggiore in Lombardia. Sono stati accolti molto bene dalla popolazione, ma sono comunque iniziative piccole e circoscritte, che avrebbero bisogno di un sostegno politico più ampio.

In Italia è già stato avviato un progetto di città 30 a Olbia, in Sardegna, e dovrebbero cominciarne altri due a Parma e a Bologna, in Emilia-Romagna. Quello di Bologna sarebbe il più grande per una città italiana, e quindi potenzialmente anche il più influente, ma è ancora presto per capire come sarà sviluppato e che impatto avrà.