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  • Martedì 6 dicembre 2022

Perché in Italia si muore andando in bici

C’è un incidente mortale ogni due giorni, ed è un problema di piste ciclabili ma anche di regole e cultura

Il luogo dell'incidente in cui è morto Davide Rebellin (ANSA/ TOMMASO QUAGGIO)
Il luogo dell'incidente in cui è morto Davide Rebellin (ANSA/ TOMMASO QUAGGIO)
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Nell’ultima settimana in Italia è stata molto commentata la morte di due persone in due diversi incidenti in bicicletta: una era l’ex ciclista Davide Rebellin, 51 anni, investito da una persona alla guida di un camion su una strada regionale vicino a Vicenza. L’altra era un giovane calciatore di 15 anni, Manuel Ntube, investito il giorno dopo su una strada provinciale vicino a Ferrara da una persona che guidava un suv.

Non sono stati avvenimenti eccezionali: dal 2018 al 2021 in Italia sono morte in media 217 persone ogni anno in incidenti in bicicletta, più di una ogni due giorni, secondo i dati raccolti dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT).

Per il 2022 non esistono ancora stime definitive, ma secondo l’associazione Asaps (Associazione sostenitori e amici della polizia stradale), che si occupa di sicurezza sulle strade, nei primi otto mesi dell’anno sono morte almeno 103 persone in incidenti in bici: è una stima al ribasso, perché prende in considerazione solo le persone morte immediatamente dopo l’incidente (e non chi, per esempio, muore in ospedale dopo alcuni giorni). Con ogni probabilità il numero aumenterà nei calcoli ufficiali.

In relazione alla popolazione, il numero di incidenti mortali per i ciclisti in Italia è appena sotto la media dei paesi dell’Unione europea: almeno in linea generale (senza contare che ci sono paesi in cui il numero di ciclisti è più alto che in Italia) non è quindi un problema più grande o più marcato che altrove.

Secondo esperti del settore e attivisti per la mobilità sostenibile però è un problema che si potrebbe limitare con alcuni interventi piuttosto semplici. Quelli legati alle città riguardano in gran parte l’aumento di piste ciclabili e una riduzione dei limiti di velocità in alcune zone specifiche. Quelli legati alle strade extraurbane – dove sono avvenuti gli incidenti di Rebellin e Ntube – puntano soprattutto all’introduzione di nuove regole di sicurezza nel codice della strada.

Le strade extraurbane (provinciali, regionali, statali) sono quelle dove avvengono gli incidenti più pericolosi, perché sia automobilisti che ciclisti viaggiano a maggiore velocità, e hanno molte zone di scarsa visibilità o che la sera sono poco illuminate.

Su questo punto, dopo i recenti fatti di cronaca, le associazioni di settore “Io rispetto il ciclista” e ACCPI (Associazione corridori ciclisti professionisti italiani) hanno inviato una lettera al presidente della Repubblica Sergio Mattarella in cui chiedevano una norma specifica: quella che stabilirebbe per gli automobilisti un limite minimo di un metro e mezzo di distanza da una bicicletta per poterla sorpassare.

È una proposta promossa da tempo e di cui si torna a parlare periodicamente: l’associazione “Io rispetto il ciclista” gira l’Italia da alcuni anni per affiggere cartelli simbolici sulle strade che invitano gli automobilisti a seguire il limite del metro e mezzo, nonostante non sia prescritto dal codice della strada. Lo scorso febbraio al Senato era stato presentato un disegno di legge a firma del senatore Marco Perosino di Forza Italia (oggi non più in carica) che lo avrebbe dovuto introdurre, ma alla fine non se ne è fatto niente.

Un mese fa ci ha riprovato Mauro Berruto, deputato del Partito Democratico ed ex allenatore della nazionale di pallavolo, che si occupa da tempo del tema.

Uno dei molti cartelli affissi dall’associazione “Io rispetto il ciclista“ per invitare a mantenere un metro e mezzo di distanza nei sorpassi delle bici, in provincia di Cuneo (Facebook “Io rispetto il ciclista”)

In un intervento che è circolato molto sui social network, lunedì Berruto ha parlato di nuovo alla Camera per sostenere la necessità di questa legge, spiegando che i «150 centimetri» di distanza servirebbero sì a tutelare i ciclisti da un punto di vista pratico, «ma soprattutto inizierebbero a cambiare la cultura di un paese dove la strada è un campo di battaglia». Nel 2021 in Italia sono stati registrati 16.448 incidenti che hanno coinvolto biciclette.

La parte del problema legata alle città invece si manifesta in modo più evidente nella generale mancanza di piste ciclabili. Secondo i dati raccolti in un dossier di Clean Cities, una rete europea di associazioni ambientaliste, sono piuttosto bassi per esempio i dati di Torino, che ha 2,5 chilometri di ciclabili ogni 10mila abitanti, e Milano, che ne ha 2,1: molto pochi, se confrontati a città come Gent in Belgio e Helsinki in Finlandia, che arrivano a circa 20 chilometri ciascuna e sono le più virtuose in Europa, ma anche rispetto ad altre città più confrontabili, come Lione (5,1) in Francia e Monaco di Baviera (6,8) in Germania.

Il dossier si chiama Non è un paese per bici e mette a confronto la situazione italiana con quella di altre città europee: tra le maggiori città italiane quelle che hanno più chilometri di piste ciclabili ogni 10mila abitanti sono Venezia e Bologna, rispettivamente 6 e 4 ogni 10mila abitanti, mentre sono molto più indietro altre come Roma (1) e Napoli (0,3).

Anche se intuitivamente un maggior numero di piste ciclabili sembra essere associato a una maggiore sicurezza, visto che permette ai ciclisti di mischiarsi meno nel traffico insieme ad automobili e moto, il collegamento tra le due cose non è sempre così diretto. In diverse città italiane per esempio ci sono state molte lamentele e critiche per il modo in cui sono state realizzate alcune piste ciclabili, inserite nelle carreggiate semplicemente disegnando sulla strada le strisce che le delimitano e senza elementi fisici e architettonici che le separino dal resto dall’area occupata dalle auto: quelle che da chi se ne occupa vengono chiamate, per distinguerle, “corsie ciclabili”.

Sabato a Milano, Genova, Napoli e Lecce sono state organizzate dimostrazioni simboliche lungo le piste di questo genere, con centinaia di ciclisti che sono rimasti per alcune ore a segnare fisicamente il confine tra la pista e il resto della strada, impedendo alle auto di invaderne lo spazio: non è raro infatti che piste ciclabili senza separazioni vengano invase da altri mezzi parcheggiati o in movimento, creando ostacoli potenzialmente pericolosi per la circolazione delle bici. A Bari qualche mese fa ci furono molte polemiche per una pista ciclabile del centro indicata solo dalla segnaletica orizzontale, dopo la morte su quella pista di un ragazzo investito da una persona in auto.

Le biciclette, in ogni caso, viaggiano spesso anche sulla strada, perché costrette o per altri motivi: per questo secondo il dossier di Clean Cities, oltre a un maggior numero di piste ciclabili in Italia servirebbe «un più ampio ripensamento degli spazi urbani» attraverso, per esempio, «l’istituzione del limite dei 30 km/h nei centri e nelle aree urbane dense».

Nel 2019 il secondo governo guidato da Giuseppe Conte aveva stanziato un fondo da 47 milioni di euro all’anno per tre anni, dal 2022 al 2024, per la costruzione di nuove piste ciclabili, la realizzazione di zone con un limite di velocità di 30 km/h e altre infrastrutture per le biciclette. I 47 milioni del 2022 sono stati regolarmente erogati, ma il resto dei fondi è stato azzerato dal ministero delle Infrastrutture con una nota alla legge di bilancio presentata dal governo Meloni: il ministero non ha ancora chiarito per quali ragioni e se abbia in ponte altri progetti.

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