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  • Lunedì 12 dicembre 2022

Il problema di leggere Omero se non si sa il greco

È una questione annosa e senza una soluzione semplice, di cui si riparla per via dell'uscita di una nuova traduzione in italiano

di Luca Misculin

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Uno dei problemi più discussi nello studio della letteratura riguarda l’accessibilità di opere antiche considerate dei capolavori. Da secoli migliaia di letterati e traduttori si chiedono come avvicinare a un pubblico più ampio possibile prodotti culturali creati in un contesto totalmente diverso da quello attuale, in una lingua ormai scomparsa e in tempi in cui di fatto non era ancora stata inventata la modalità con cui quelle opere sono oggi prevalentemente fruite, cioè la lettura individuale di un testo scritto. Le principali esigenze sono due, spesso contrapposte: tramandare l’opera in una forma il più possibile fedele all’originale, e farsi capire dalle nuove generazioni, perché l’opera in questione rimanga parte del patrimonio collettivo.

Molte di queste discussioni ruotano intorno all’Iliade e all’Odissea, poemi in greco antico che hanno come sfondo la cosiddetta Guerra di Troia composti circa tremila anni fa. Ci sono stati tramandati come opera di un unico mitico autore, Omero, di cui non sappiamo nulla e che secondo diversi studiosi non è mai esistito.

L’Iliade e l’Odissea rimangono tuttora due delle opere più venerate della letteratura occidentale, ispiratrici di centinaia di opere di prosa e poesia successive, ma anche di  film, serie tv e più di recente fanfiction diventate fenomeni letterari su TikTok. Eppure la forma in cui le leggiamo oggi – sui banchi di scuola o in tram, spesso da soli, in italiano, in prosa – è lontanissima da quella originale: quelli che oggi chiamiamo “poemi omerici” venivano cantati in versi, in pubblico, da una persona che lo faceva di lavoro, l’aedo, verosimilmente accompagnato da uno strumento musicale. L’aedo li declamava a memoria operando continue e minuscole variazioni al testo da cui partiva. Tutti gli altri ascoltavano le gesta dell’eroe greco Achille o il lunghissimo ritorno a casa di Ulisse dopo la guerra, soggetto dell’Odissea, in compagnia attorno a un fuoco. Il canto dell’Iliade, per esempio, doveva suonare più o meno così.

Ogni nuovo tentativo di attualizzare un’opera del genere aggiunge un pezzettino a una discussione in corso da secoli. In Italia da qualche settimana è uscita un’edizione dell’Odissea di cui per varie ragioni si discuterà: è di Blackie Edizioni, la succursale italiana di una piccola casa editrice spagnola.

L’Odissea di Blackie è ospitata da un volume bello da vedere e da maneggiare, ricco di illustrazioni pregiate e calzanti. Il suo obiettivo dichiarato è privilegiare l’accesso all’opera, a prescindere dalle conoscenze pregresse. Il testo è una traduzione in italiano contemporaneo di una traduzione dal greco antico all’inglese fatta a fine Ottocento dallo scrittore inglese Samuel Butler. L’Odissea di Blackie fa parte di una collana chiamata Classici Liberati e nell’edizione spagnola comprende anche l’Iliade e il libro biblico della Genesi.

«In fondo i classici sono di tutti e ognuno li legge come preferisce», si legge nell’introduzione dell’Odissea, che cita il fatto che per decenni la versione di Butler è stata apprezzata da diversi intellettuali occidentali, fra cui l’argentino Jorge Luis Borges​, per «l’efficacia con cui trasmette l’essenza del racconto originale». Il traduttore della versione di Butler è Daniel Russo, specializzato nella traduzione dall’inglese all’italiano e professore dell’università dell’Insubria, a Varese.

«Il testo di Butler è stato scelto per diverse ragioni, alcune più evidenti altre più profonde», spiega Mario Bonaldi, direttore editoriale di Blackie. «A un primo livello: è integrale, che per noi era una condizione imprescindibile (non volevamo fare un bigino), ed è avvincente. A un livello più profondo: per le teorie dello stesso Butler, secondo cui l’Odissea potrebbe avere un’origine femminile (che siano fondate o meno non le rende meno affascinanti). Questo aspetto non è forse direttamente percepibile nel suo testo, ma secondo noi contribuisce al tentativo di dare modernità alla nostra edizione. Poi ovviamente l’endorsement di Borges è difficile da ignorare».

 

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Nell’introduzione Blackie Edizioni dimostra una certa consapevolezza quando scrive che la sua Odissea, risultato di una traduzione di una traduzione, possa sembrare «un’eresia».

Il greco omerico è una lingua ricchissima, condizionata dalle migliaia di voci che l’hanno usata nel tempo, prodotto della stratificazione di varie epoche – è probabile siano passati un paio di secoli dalla creazione dei testi omerici a quando furono trascritti per la prima volta – nonché di dialetti anche molto diversi fra loro, espressioni e formule poetiche, vocaboli usati solo da Omero o chi per lui. È un greco difficilissimo anche per chi è appena uscito da cinque anni di liceo classico, molto distante da quello di età “classica”, parlato e scritto nell’Atene fra il quinto e il quarto secolo a.C. Rimane quindi una lingua elitaria: in Italia – dove comunque il suo studio è assai più diffuso che altrove – le persone che riescono a decifrarlo sono forse qualche migliaio.

Per tradurre in maniera efficace una lingua del genere servono competenze linguistiche e culturali fuori dal comune: uno dei più illustri grecisti italiani, Giulio Guidorizzi, da quasi una decina d’anni sta curando una nuova traduzione accademica dell’Iliade assieme a un ramificato team di collaboratori, economicamente molto impegnativa, per la Fondazione Valla. In una recente intervista, Guidorizzi ha raccontato che i problemi nel tradurre in italiano un’opera del genere sono «tanti»: fa l’esempio di ψυχή, psyché, una parola che in greco antico «non è solo l’anima, è la vita, certe volte è il soffio, l’ultimo respiro». Servono anni e anni di carriera per ponderare esattamente quando nel testo omerico psyché significa «vita» e quando significa «anima».

La traduzione di una traduzione, il cui testo di partenza peraltro è una versione assai poco letterale come quella di Butler, rischia di allontanarsi parecchio dal testo originale, rimasticando e tralasciando pezzi importanti di quello che si porta dietro il testo omerico nel tentativo di renderlo più accessibile. Per esempio tagliuzzando interi versi, operazione che Butler fece probabilmente per comprimere e rendere più digeribile il testo. Questa per esempio è la traduzione dell’edizione di Blackie dei primi 18 versi del 22esimo libro, quello in cui Ulisse uccide i pretendenti di sua moglie Penelope che in sua assenza avevano occupato il palazzo reale dell’isola di Itaca.

Ulisse si tolse gli stracci di dosso e balzò davanti alla porta con l’arco e la faretra carica di frecce. Rovesciò i dardi ai suoi piedi e disse: «La gara è finita. Ora vedremo se Apollo mi consentirà di centrare un altro bersaglio che nessuno ha ancora colpito.» Puntò una freccia su Antinoo, che si stava portando alla bocca una coppa a due anse per bere un sorso di vino. Chi avrebbe immaginato che tra tutti gli astanti un solo uomo, sia pure valoroso, l’avrebbe ucciso? La freccia colpì Antinoo alla gola e gli trapassò il collo. Si accasciò e la coppa gli cadde di mano, mentre un denso fiotto di sangue gli sgorgava dalle narici.

Questa, invece, è una traduzione in prosa dal testo greco degli stessi 18 versi.

Allora Ulisse, uomo dalla mente veloce, si spogliò dagli stracci che aveva e si mise in mezzo alla porta di casa tenendo in mano l’arco e la faretra piena di frecce. Buttò per terra le rapide frecce e disse, rivolgendosi ai pretendenti: «questa gara decisiva finisce qui. Vedremo se Apollo mi fornirà un altro bersaglio, che nessun uomo ha ancora centrato». A quel punto allora mirò con una freccia appuntita verso Antinoo, che si stava portando alla bocca una bella coppa, dorata e a due manici: la stava sollevando con le mani per bere del vino. La morte non occupava alcun posto nella sua testa. Chi avrebbe mai immaginato che uno dei molti uomini che si stavano intrattenendo in quel posto, uno solo, sebbene fortissimo, avrebbe convocato la nera morte, brutta e infausta? Dopo aver preso la mira Ulisse scoccò la freccia verso il collo, e quella entrò proprio nel punto dove è più tenero. Antinoo cadde di lato, la coppa gli scivolò dalle mani, a lui che era stato colpito: e immediatamente dal naso gli uscì un denso rivolo di sangue umano.

Le differenze principali fra i testi sono due. Nella versione di Blackie mancano interi pezzi che Butler, forse, riteneva appesantissero la lettura, ma che aumentano lo spessore letterario del testo: come l’introspezione psicologica sul personaggio di Antinoo, «la morte non occupava alcun posto nella sua testa», o la finezza dell’immagine della freccia che lo colpisce nel punto dove la carne del collo è più tenera.

Spesso poi nell’edizione di Blackie mancano gli epiteti, cioè gli aggettivi ricorrenti associati agli eroi o a certi luoghi e oggetti, e più in generale le formule che servivano all’aedo per chiudere i versi rispettando la metrica dell’esametro, un verso greco dalla cantilena e dall’andatura abbastanza riconoscibile, per chi lo frequentava spesso. Una freccia è una freccia, non «una rapida freccia», come spesso viene chiamata nell’Iliade e nell’Odissea. Molti versi omerici si chiudono per esempio con “δαίμονι Ισος”, una formula a volte sovrabbondante che significa “simile a un dio” che si incastra perfettamente con l’ultima parte dell’esametro, che vuole due accenti rispettivamente sulla quintultima e sulla penultima sillaba. Gli epiteti sono più pertinenti in un testo che viene recitato piuttosto che letto: anche per questo forse sono stati tagliati, da Blackie come in molte altre edizioni adattate dell’Odissea in prosa.

Sembra inoltre che Blackie abbia compiuto una scelta precisa nella traduzione dal greco omerico all’italiano, provando a sostituire il lessico ricercato e la creativa struttura delle frasi – fatta per aiutare l’aedo a ricordare e cantare – con un certo innalzamento del registro della lingua italiana. Da qui l’uso di parole desuete come «astanti», «balzare», quello di «accasciarsi» al posto di «cadere». In altre parti della traduzione è molto evidente l’uso di «giungere» o «recarsi» al posto di «andare», anche nei punti in cui il testo omerico usa, banalmente, i molti verbi greci che significano «andare». Rendere il testo dell’Odissea è complicatissimo e da parte dei traduttori stratagemmi del genere, anche se forse poco aderenti al testo originale, sono piuttosto comuni.

Blackie comunque assicura che il lavoro di traduzione è stato accurato e pensato, e non ha riguardato soltanto il testo di Butler. «Daniel Russo è un anglista di specializzazione, ma per la traduzione della nostra Odissea si è basato anche sul testo originale greco e su precedenti versioni italiane», spiega Bonaldi. «Possiamo dire che non solo ha tradotto il testo di Butler, ma lo ha anche reso più completo e fedele, oltre ad avere reso la lingua più fresca e meno “borghese” (come Borges aveva definito, in modo bonariamente ironico, il testo butleriano)».

Altre scelte molto nette riguardano l’introduzione e le note. L’Odissea viene introdotta da un testo sintetico e un po’ vago sull’enorme dibattito intorno all’autore e il suo contesto storico-letterario. Sono assenti paragoni con testi simili della tradizione indoeuropea come il Ramayana: un poema in antico indiano in cui il principe Rama riconquista moglie e trono dopo anni di esilio. Le note poi sono presentate in maniera narrativa, non critica. Elena per esempio «nasce da una delle due uova che Leda depone dopo essersi unita a Zeus». Del popolo dei Mirmidoni, guidati da Achille, viene detto che erano formiche trasformate in uomini da Zeus. Le ipotesi storico-critiche sono diverse: il fatto che sia vicina a molte parole indoeuropee per “formica” –  mrǰiwn, in antico armeno – ha indotto alcuni studiosi a pensare che indicasse guerrieri mercenari, realmente esistiti nell’Età del Bronzo, noti forse per combattere ordinati come formiche. Sarebbe una delle prime tracce di guerrieri mercenari nella letteratura occidentale.

La scelta di usare uno stile narrativo anche per le note è stata deliberata. «L’idea dietro la collana è quella di riavvicinare i lettori ai testi fondanti della nostra cultura. Che spesso anche a causa di volumi carichi di barriere come gli apparati storici e filologici non vengono più letti per quello che sono, ovvero storie straordinarie», spiega Bonaldi. «Quello che cerchiamo di fare è offrire una versione integrale e fedele del testo, in una veste seducente. Nella nostra Odissea anche le note sono avvincenti, ma al tempo stesso puntuali. Poi magari chi dopo la lettura vuole approfondire ha a disposizione decine di edizioni validissime. Così l’Odissea liberata di Blackie avrà compiuto la sua missione».

Molte delle traduzione italiane dei testi omerici che Bonaldi definisce «validissime» hanno tutte, comunque, dei punti deboli: e districarsi fra le tante è difficilissimo.

Nell’Ottocento andavano di moda le traduzioni autoriali, in cui «il traduttore non accetta di farsi da parte, di rendersi quasi “trasparente” per non coprire l’originale, ma al contrario lo pervade con la sua personale poetica fino a trasformarlo in una nuova opera, quasi imitazione e riscrittura», come ha scritto di recente il grecista Alessandro Iannucci. Per molti decenni la traduzione italiana più frequentata dei poemi omerici fu quella composta dal poeta Vincenzo Monti, quella del famoso incipit dell’Iliade «Cantami, o Diva, del Pelide Achille l’ira funesta, che infiniti addusse lutti agli Achei». In pochi però sanno che Monti aveva una conoscenza assai approssimativa del greco e si servì soprattutto di una traduzione latina e di un’altra in italiano.

La prima traduzione unanimemente riconosciuta come corretta dal punto filologico e letterario fu quella realizzata per Einaudi negli anni Cinquanta dalla grecista Rosa Calzecchi Onesti, con la collaborazione di Cesare Pavese. Ma anche la sua versione oggi, secondo Iannucci, «mostra tutti i suoi anni e ora, paradossalmente, è suo malgrado aulica, infarcita di latinismi e parole sentite ormai come arcaicizzanti». Iannucci aggiunge che la versione di Calzecchi Onesti «oggi non è quasi più comprensibile senza un ricco apparato di note a esegesi della lingua italiana, più che di Omero».

Non è soltanto un problema di lingua, ma anche di musicalità. Alcuni studiosi di Omero sono convinti che per rimanere il più possibile fedeli all’esperienza originale dell’Odissea qualsiasi traduzione deve prevedere una componente ritmica. I poemi omerici sono stati composti in esametro. È l’opinione per esempio del poeta e grecista Daniele Ventre, che qualche anno fa ha pubblicato con la casa editrice Mesogea una traduzione italiana in versi dell’Iliade e dell’Odissea.

In Omero, ha scritto Ventre per la rivista Nazione Indiana, «racconto, atto retico, ritmo sono concepiti come un’unità indissolubile, fatta di strutture ricorsive, componenti irrinunciabili di quello stile formulaico che è la dictio epica: un Wiedergebrauchsrede, cioè un “discorso di riuso”, sempre rifruibile – e teoricamente aperto nella sua modularità – atto a celebrare, codificare ed evocare situazioni tipiche, e pertanto del tutto opposto al semplice Verbrauchsrede, “discorso di consumo” di impiego quotidiano e occasionale, veicolatore dei significati ordinari del linguaggio ordinario. Chi si ponga l’obbiettivo di tradurre l’Iliade o l’Odissea non può non tener conto di questa dimensione originaria del testo che ha di fronte».

Altri grecisti sono meno sensibili a questo aspetto dell’opera, soprattutto perché lo ritengono impossibile o quasi da riprodurre tremila anni più tardi, in una lingua completamente diversa.

Purtroppo, al momento, nessuno è riuscito a trovare un’accettabile via di mezzo fra rispettare il testo originale e farsi capire da lettori curiosi ma digiuni di greco antico. Nella sua rassegna di traduzioni italiane di testi omerici Iannucci descrive come ottime edizioni le traduzioni dell’Odissea uscita per Bur nel 2010 e curata da Vincenzo Di Benedetto, e quella di Franco Ferrari per Utet, nel 2001. Entrambe comunque presentano il testo a fronte: inutile, per chi non conosce il greco.

Un tentativo a suo modo originale e innovativo su un testo omerico fu tentato qualche anno fa da Alessandro Baricco, che condensò e tradusse l’Iliade in una rielaborazione prima raccontata a teatro in uno spettacolo di nove ore, poi raccolta in un libro ancora oggi molto letto e consigliato nelle scuole. La versione di Baricco non aveva la pretesa di aderire perfettamente al testo originale, ma comunque riusciva a conservarne alcuni aspetti, fra cui l’estrema violenza di certe scene di combattimento e la tenerezza di alcuni dialoghi, come quello fra il capo troiano Ettore e sua moglie Andromaca.

Baricco fece delle scelte forse ancora più radicali di quelle di Blackie: rimosse completamente gli dei dalla narrazione, rigirò tutte le scene in modo che fossero raccontate in prima persona, aggiunse alcune parti scritte da lui, in corsivo (poche e spesso alla fine di un capitolo).

Anche l’Iliade di Baricco aveva dietro un elaborato lavoro sul testo, e scelte ragionate a lungo, come ricorda oggi lo stesso Baricco. La scelta di rimuovere completamente gli dei, per esempio, fu fatta perché «le scene degli dei sono nella stragrande maggioranza dei raddoppi di scene umane: e quindi un guerriero che nella calca sviene per la fatica, la confusione e la paura, nel testo omerico viene resa con un dio che scende e lo butta in una bolla di nebbia. Ma il testo nell’Iliade contiene sempre i due eventi. Tra l’altro togliendo i raddoppi divini le sequenza d’azione, per esempio, diventano più asciutte e le riconosci meglio. Praticamente tutte le combinazioni che si possono avere di pezzi sulla scacchiera del genere western li trovi già lì: l’Iliade è una specie di grande serbatoio di figure primarie, soprattutto per la letteratura di genere». 

Baricco rivendica anche di avere utilizzato una tecnica filologica «molto puntigliosa» per la sua rielaborazione. «Ho usato soltanto frasi omeriche, come tanti mattoni: a volte ho tolto dei mattoni, ma solo se il muro stava in piedi lo stesso». E per quanto riguarda la traduzione, il lessico della sua Iliade è molto più vicino alla prosa dell’italiano contemporaneo che si parla tutti i giorni rispetto alle traduzioni esistenti. Gran parte del suo lavoro si basò su una traduzione in italiano dell’Iliade che Baricco giudica ancora oggi «molto buona», perché più vicina alla sua sensibilità: quella fatta dalla grecista Maria Grazia Ciani per Marsilio all’inizio degli anni Novanta.

«Ai tempi rimossi l’equivoco sul fatto che il testo omerico sia una poesia e che vada trattato come una poesia: ha una sua ritmica, certo, ma quella era dovuta a esigenze di memorizzazione. È un testo che ha a che fare più con l’epica che con la poesia, e quindi non c’entra nulla, per dire, con Giacomo Leopardi. Il fatto che per tradurlo bene bisogna essere aulici è un’astrazione», spiega Baricco.