• Mondo
  • Martedì 6 dicembre 2022

I giorni in cui lo smog di Londra uccise migliaia di persone

70 anni fa per una combinazione di fattori umani e atmosferici una nebbia tossica avvolse la città, che andò nel caos

Il Tower Bridge nel 1952 (Fox Photos/Hulton Archive/Getty Images)
Il Tower Bridge nel 1952 (Fox Photos/Hulton Archive/Getty Images)
Caricamento player

Il 5 dicembre 1952 era una giornata grigia a Londra, ma la cosa non colpì più di tanto i londinesi. Il sole si vedeva raramente ed era abbastanza normale che in autunno inoltrato ci fosse la nebbia in città. Era un venerdì, la settimana stava per finire e in pochi si accorsero che la coltre giallognola di fumo che copriva il cielo aveva qualcosa di diverso dal solito. Gli abitanti andarono avanti con le loro faccende quotidiane, accorgendosi solo il giorno seguente dell’inconsueta densità dello smog. E passò molto tempo prima che ci si rendesse conto di quanto quello smog fosse letale: uccise almeno quattromila persone, probabilmente di più, e passò alla storia come il “Grande Smog” di Londra.

Avere a che fare con l’inquinamento atmosferico non era una novità per la città. La stessa parola smog fu inventata nel 1905 dal dottor Harold Antoine des Voeux per descrivere l’aria londinese, fondendo smoke (il fumo prodotto dalle fabbriche e dalle case) e fog, la nebbia. Quest’ultimo fenomeno atmosferico si verifica a determinate condizioni: quando c’è una netta differenza di temperatura tra suolo e atmosfera; quando c’è molta umidità; e anche quando l’aria è particolarmente inquinata, perché la nebbia è vapore acqueo che per condensarsi ha bisogno di particelle solide a cui “aggrapparsi”. Nel caso delle città inquinate, le particelle di polveri sottili.

L’autunno del 1952 era stato molto freddo, c’erano state nevicate in buona parte dell’Inghilterra. Per fronteggiare questo freddo eccezionale i londinesi tenevano perennemente accesi i riscaldamenti, che all’epoca nel Regno Unito erano alimentati prevalentemente a carbone. Nel resto del mondo occidentale il carbone era stato soppiantato progressivamente da derivati del petrolio, proprio per ridurre l’inquinamento nelle città, ma gli inglesi erano rimasti attaccati all’idea di riscaldare la propria casa con il fuoco e con il carbone.

A questi due fattori (freddo e case alimentate a carbone) se ne aggiungeva un altro, quello che contribuì in maniera decisiva alla formazione del “Grande Smog”: in quel periodo nella zona di Londra si era formato un anticiclone, una zona di alta pressione che spinge l’aria verso la superficie terrestre, raffreddandola nel percorso. In altre parole, il 5 dicembre 1952 Londra era intrappolata da un “tetto” di aria più calda che sovrastava l’aria negli strati più vicini alla superficie terrestre.

Si verificò il fenomeno chiamato inversione termica, per il quale la temperatura dell’aria, salendo, aumenta invece di diminuire. È una condizione che limita il rimescolamento in verticale dell’aria e favorisce la permanenza di coltri di smog, perché l’aria negli strati più bassi è più fredda e quindi più pesante di quella negli strati superiori.

In questo volume di aria senza ricambio non si immettevano solamente i fumi del carbone bruciato nelle case, ma anche quelli delle fabbriche. Negli anni Cinquanta Londra era ancora una città industriale e manifatturiera: specialmente il quartiere dell’East End era pieno di stabilimenti e lungo il Tamigi c’erano molte centrali elettriche, alimentate a loro volta a carbone. Nel periodo più nebbioso, cioè dal 5 al 9 dicembre, si stima che furono immesse nell’aria 2.000 tonnellate di anidride carbonica, 140 tonnellate di acido cloridico e 14 tonnellate di composti del fluoro. Inoltre 370 tonnellate di anidride solforosa si trasformarono in acido solforico, il principale agente chimico delle piogge acide.

A causa della scarsa visibilità, in quei giorni ci furono molti incidenti stradali. I medici e i pompieri che dovevano soccorrere i feriti dovevano camminare davanti alle ambulanze e ai camion, per evitare di fare a loro volta incidenti. Il servizio di autobus fu sospeso, e la metropolitana diventò troppo affollata, con lunghissime code alle biglietterie. La maggior parte degli aerei diretti a Londra fu dirottata in altri aeroporti, e quelli in partenza rimasero a terra.

Gli autobus dovevano essere guidati da uomini a piedi muniti di torce (Monty Fresco/Getty Images)

Un traghetto partito da Folkestone, sulla costa meridionale dell’Inghilterra, e diretto in Francia a Calais dovette rimanere fermo per 15 ore con 300 passeggeri a bordo, perché la scarsa visibilità nel canale della Manica rendeva impossibile farlo dirigere verso il porto francese. A Londra ci fu anche un aumento dei crimini, perché i ladri sfruttarono la nebbia per rubare e scappare senza potere essere inseguiti. In certe zone, per esempio in quelle più industriali, le persone all’aperto non riuscivano a vedersi neanche i piedi. Negli ambienti chiusi non è che andasse tanto meglio: un corrispondente del Guardian scrisse che uno spesso strato di «sporcizia oleosa» copriva le superfici interne e oscurava gli schermi dei cinema.

Donald Acheson, all’epoca medico dell’ospedale Middlesex, raccontò che di notte, mentre andava al lavoro a piedi, non riusciva neanche a trovare la strada giusta benché la conoscesse perfettamente. Il fumo tossico era talmente fitto che dovette camminare rasente al muro per intravedere i nomi delle strade agli angoli. Secondo Acheson per strada c’era «un silenzio inquietante». Una volta entrato nell’ospedale, poi, vide che il fumo era penetrato dentro le stanze delle persone malate.

Nel giro di qualche giorno l’obitorio del Middlesex si riempì di pazienti morti per problemi respiratori o cardiaci, e non c’era più spazio dove mettere i corpi. Secondo i dati di una ricerca delle università Johns Hopkins e Carnegie Mellon, le ospedalizzazioni di quella settimana aumentarono del 48 per cento in tutta Londra, e quelle legate a problemi respiratori aumentarono del 163 per cento. Sempre secondo la stessa ricerca, i morti legati alla permanenza del fumo tossico non furono 4.000 ma addirittura 12.000.

Veduta di Holborn, Londra, 30 dicembre 1953 (Hulton Archive/Getty Images)

Nonostante questo, la risposta pubblica al problema fu per i primi tempi inesistente, anche per via del fatto che i londinesi convivevano da tempo con problemi di smog. Il primo ministro britannico, l’anziano Winston Churchill, non commentò mai il “Grande Smog” né le sue conseguenze. Tuttavia con il passare dei giorni e delle settimane le dimensioni eccezionali del fenomeno cominciarono a emergere. Dopo alcune resistenze iniziali, negli anni successivi il governo preparò un provvedimento per limitare le emissioni tossiche nell’atmosfera delle città britanniche.

La legge, il cui promotore principale fu il deputato conservatore Gerald Navarro, venne chiamata Clean Air Act e fu approvata nel 1956. Prevedeva che nelle città fossero istituite zone in cui non potevano essere bruciati combustibili che generavano polveri sottili, e che le nuove fabbriche venissero costruite fuori dai centri urbani. A questa legge ne seguì poi un’altra nel 1968, arrivata dopo ulteriori episodi di nebbia tossica a Londra tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta.

– Leggi anche: Che ne sarà della famosa nebbia di San Francisco con il cambiamento climatico