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  • Domenica 20 novembre 2022

Le politiche sui microchip degli Stati Uniti sono un problema per gli alleati

Il governo americano vuole che Giappone, Taiwan e Corea del Sud vietino alla Cina le tecnologie strategiche, con qualche imbarazzo

di Guido Alberto Casanova

Un impianto di fabbricazione di microchip a Pechino (AP Photo/Mark Schiefelbein, File)
Un impianto di fabbricazione di microchip a Pechino (AP Photo/Mark Schiefelbein, File)
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Dopo aver approvato una serie di norme durissime al riguardo, gli Stati Uniti stanno esortando alleati e paesi asiatici ad adottare politiche che limitino il trasferimento di tecnologie avanzate verso la Cina, in particolar modo di semiconduttori. A ottobre, l’amministrazione americana di Joe Biden ha introdotto numerosi divieti e restrizioni per impedire le esportazioni di tecnologia avanzata verso la Cina, e rallentare e ostacolare il settore strategico dei microchip, al punto che si è parlato perfino dell’apertura di una nuova fase della guerra commerciale tra i due paesi.

Ora gli Stati Uniti, come ha detto durante una recente intervista Gina Raimondo, la segretaria del commercio degli Stati Uniti, si aspettano di vedere i propri alleati seguire il loro esempio, e imporre pesanti restrizioni e limitazioni alle esportazioni di microchip verso la Cina. L’amministrazione americana si riferisce soprattutto a Giappone, Corea del Sud e Taiwan, che sono tra i principali produttori di microchip al mondo, ma che con Pechino hanno stretti rapporti tecnologici e commerciali, cosa che sta creando non poche resistenze e difficoltà.

I semiconduttori sono componenti necessari per la produzione di microchip, necessari per il futuro dello sviluppo tecnologico. La loro diffusione è pressoché universale in qualunque apparecchio che abbia componenti elettronici, dagli smartphone ai computer, dalle automobili fino agli armamenti in dotazione alle forze armate. È un settore industriale molto complesso, dove i produttori affrontano ostacoli tecnici notevoli dovendo operare con alta precisione su dimensioni piccolissime, intorno al milionesimo di millimetro.

Attorno ai semiconduttori negli ultimi anni è nata una rivalità geopolitica intensa tra le maggiori potenze tecnologiche. La maggior parte di queste potenze si trova in Asia orientale: Corea del Sud e Taiwan sono i due paesi più importanti nel mercato dei semiconduttori, di cui ognuna possiede circa il 20 per cento, mentre Giappone e Stati Uniti seguono un po’ più indietro. La Cina però ha investito moltissimo sull’acquisizione delle capacità necessarie per la produzione interna, cercando di avanzare in questo settore strategico per l’industria e la difesa.

A oggi le società cinesi sono ancora indietro rispetto a leader come la coreana Samsung o la taiwanese TSMC, ma i progressi del settore (sostenuti attivamente dalle politiche industriali del governo cinese) sono stati notevoli: lo scorso luglio è stato scoperto che il gigante tecnologico cinese SMIC è riuscito a sviluppare microchip da 7 nanometri, rivelando di possedere capacità tecnologiche al di sopra delle attese, cosa che ha allarmato gli Stati Uniti.

Quando si parla di microchip da 7 nanometri si intende il livello di miniaturizzazione dei componenti interni di un chip (un nanometro corrisponde a un milionesimo di millimetro), che consentono di avere maggiore potenza a parità di dimensioni. Più piccola è la dimensione in nanometri, maggiore è lo stato di evoluzione della tecnologia: attualmente i microchip più evoluti al mondo sono da 3 nanometri, ma già produrli da 7 è un eccellente risultato.

Il 7 ottobre l’amministrazione di Joe Biden ha pubblicato una revisione delle proprie politiche commerciali in tema di semiconduttori che ha completamente riscritto le regole del confronto tecnologico tra Washington e Pechino. Da un lato il nuovo regolamento stabilisce che le società statunitensi debbano richiedere l’autorizzazione del governo per esportare in Cina i macchinari necessari per la fabbricazione di semiconduttori sotto i 16 nanometri (con alcune eccezioni). Dall’altro espande a tecnologie emergenti come i semiconduttori necessari per i supercomputer il principio del “foreign direct product” che, oltre a vietarne il commercio diretto con Pechino, prevede anche che le società di un paese terzo debbano necessariamente richiedere il permesso alle autorità statunitensi per esportare un determinato prodotto in Cina se al suo interno si trova della tecnologia americana.

Come detto da Paul Triolo, un esperto del settore, «gli Stati Uniti hanno essenzialmente dichiarato guerra alla capacità della Cina di progredire nell’utilizzo [di semiconduttori] ad alte prestazioni». Le società statunitensi sono predominanti in alcune nicchie della catena industriale dei semiconduttori: secondo il Boston Consulting Group ci sono almeno 23 tipi di macchinari di cui i produttori statunitensi controllano più del 65 per cento dell’offerta globale. Anche dal punto di vista dei software utilizzati per la produzione gli Stati Uniti hanno una presenza importante nel mercato, che a questo punto rendono le molte società leader nella fabbricazione (come TSMC, Samsung, SK Hynix e altre) esposte in varia misura ai permessi concessi da Washington per le proprie vendite in Cina.

La competizione per il dominio di questo settore tecnologico-industriale si sovrappone a preesistenti tensioni politiche, generandone a sua volta. Se gli Stati Uniti sembrano ormai decisi a non voler più semplicemente «correre più veloce [della Cina]» ma anche a «ostacolare attivamente le ambizioni di dominio tecnologico» cinesi, come osservato da Matthew Pottinger, ex consigliere del presidente Donald Trump sulle questioni di politica estera, gli alleati asiatici degli Stati Uniti mostrano qualche perplessità in più.

Gli Stati Uniti, per esempio, stanno cercando di convincere il Giappone a restringere ugualmente l’export verso la Cina di macchinari per la fabbricazione di microchip. Il Giappone è uno dei leader mondiali nel campo dei macchinari: la sola Tokyo Electron, una società d’elettronica giapponese, possiede il 90 per cento del mercato mondiale dell’attrezzatura per alcuni passaggi fondamentali per la produzione di microchip, in particolar modo per disegnare i circuiti sui substrati di semiconduttore tramite l’applicazione di speciali sostanze chimiche.

Le pressioni statunitensi hanno attivato un dibattito nel governo giapponese, ma il settore imprenditoriale continua ad avere grossi dubbi. Limitare l’export giapponese di macchinari per produrre semiconduttori sarebbe un danno molto grave: in un decennio il commercio è triplicato e oggi con più di 20 miliardi di euro l’anno di ricavi rappresenta una delle principali voci dell’export giapponese, circa il 4 per cento del totale. La Cina in tutto ciò ha un ruolo centrale visto che assorbe circa un terzo di tutte queste vendite, registrando una crescita del 600% in un decennio. Non a caso i dirigenti di Tokyo Electron si erano detti «molto preoccupati» quando questa estate gli Stati Uniti avevano iniziato a lavorare alle restrizioni sulla vendita di macchinari alla Cina.

Simili preoccupazioni sono state espresse dalla Corea del Sud, dove hanno sede grandi società di fabbricazione come Samsung e SK Hynix. Entrambe hanno importanti stabilimenti in Cina, che per rifornire dei macchinari necessari alla produzione necessitano ora del permesso degli Stati Uniti dopo l’entrata in vigore dei nuovi regolamenti. L’impianto di Xi’an della Samsung Electronics è l’unica linea di fabbricazione al di fuori della Corea del Sud e rappresenta da solo il 40% della produzione dei microchip di tipo NAND (cioè chip di memoria) di tutta la società, pari al 10% di tutte le forniture globali. Nella stessa situazione si trova anche SK Hynix, il cui stabilimento di Wuxi fabbrica circa la metà di tutte le DRAM vendute dalla società sudcoreana che è leader mondiale in questo tipo di microchip. Oltretutto SK Hynix sta per acquistare un altro stabilimento in Cina.

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Grazie anche all’intervento del governo coreano, le due società hanno ottenuto un’esenzione di un anno dalle autorità statunitensi. La situazione però rimane molto preoccupante dal punto di vista della Corea del Sud, che interpreta il periodo di grazia di un anno come una scadenza entro la quale Samsung e SK devono ridisegnare le proprie linee produttive. Kevin Noh, il capo dell’ufficio marketing di SK Hynix, ha ammesso che nel caso estremo in cui le attività diventino difficili da mantenere la società potrebbe vendere l’impianto o riportarlo in Corea del Sud.

Un’altra società che ha ottenuto l’esenzione di un anno è la taiwanese TSMC, leader mondiale nella produzione di microchip avanzati. Negli ultimi anni TSMC ha ridotto la propria esposizione alla Cina, soprattutto da quando Trump ha imposto una restrizione ai trasferimenti di tecnologia all’azienda di telecomunicazioni cinese Huawei: nel 2021 le vendite in Cina rappresentavano il 10% dei ricavi della società, una significativa riduzione rispetto al 17% dell’anno prima.

Ciononostante, secondo gli esperti è probabile che le restrizioni imposte dagli Stati Uniti possano indebolire le vendite di TSMC dal momento che i suoi microchip contengono alcuni elementi di tecnologia statunitense che dopo il periodo di esenzione non saranno più esportabili in Cina. Il governo taiwanese, però, che dipende maggiormente dagli Stati Uniti per la fornitura di armi e la difesa militare, sembra più propenso ad accettare le nuove restrizioni.

Giappone, Corea del Sud e Taiwan hanno validi motivi per essere impensieriti dalla situazione che si sta delineando. Tutti e tre i paesi hanno grossi interessi commerciali in Cina, che devono essere bilanciati con le preoccupazioni strategiche per l’aggressività cinese e con le richieste degli Stati Uniti, che rimangono i garanti della sicurezza nella regione. È però un bilanciamento che sembra sempre più difficile da trovare. Come dice Alberto Guidi, ricercatore dell’ISPI esperto di semiconduttori, i tre paesi dovranno adattare la strategia di business per poter lasciare il mercato cinese nel modo più indolore possibile. «Il provvedimento [di restrizione dell’esportazione di microchip da parte degli Stati Uniti] è senza pari. Va molto più in là di quello che ha fatto Trump», dice Guidi.

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