Le invasioni barbariche non furono proprio invasioni

La teoria secondo cui l'Impero Romano finì per via dell'immigrazione è sostenuta tra gli altri dal nuovo ministro dell'Istruzione, ma è ampiamente screditata

di Luca Misculin

Una scena di guerra fra Romani e Goti in un sarcofago del terzo secolo d.C. conservato a Roma a palazzo Altemps (foto di Wikimedia)
Una scena di guerra fra Romani e Goti in un sarcofago del terzo secolo d.C. conservato a Roma a palazzo Altemps (foto di Wikimedia)
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Il nuovo ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara cerca da tempo di costruirsi una fama da divulgatore storico al di fuori della sua carriera accademica da professore ordinario di diritto romano all’università di Torino. I suoi tentativi sono legati a un approccio molto categorico su un tema complesso e delicato come la caduta dell’Impero Romano. In estrema sintesi, Valditara sostiene che l’Impero Romano sia collassato per via di un fenomeno che in Italia chiamiamo «invasioni barbariche»: cioè lo spostamento nei territori centrali dell’Impero, spesso avvenuto con la violenza, di varie popolazioni che prima ne abitavano ai confini, fra quarto e sesto secolo dopo Cristo.

Nel 2016 Valditara pubblicò un libro dal titolo piuttosto eloquente, L’Impero Romano distrutto dagli immigrati, e tre anni più tardi in un libro collettivo intitolato Immigrazione: la grande farsa umanitaria tracciò paragoni piuttosto arditi fra le invasioni barbariche e il flusso migratorio dal Nord Africa verso i paesi europei, indicando come esempio negativo «le periferie francesi e belghe con la loro carica di devianza, ribellismo, delinquenza, e radicamento dell’estremismo islamista, il simbolo del fallimento del multiculturalismo».

Valditara viene dalla Lega, un partito che dalla sua fondazione ha spesso strumentalizzato vicende storiche per adattarle alle proprie tesi politiche: dalla storia di Alberto da Giussano, il personaggio stilizzato nel simbolo del partito, mai esistito, fino ai manifesti con i nativi americani descritti come vittime dell’immigrazione (in realtà fu una colonizzazione). I libri e articoli di Valditara si inseriscono in questo filone ma non trovano veri riscontri nel dibattito contemporaneo di storici e accademici specializzati nella storia romana sulla fine dell’Impero.

La tesi promossa da Valditara sulle responsabilità di un flusso migratorio è infatti oggi molto meno condivisa di un tempo. Nel suo libro Barbarian Tides Walter Goffart, storico dell’università di Yale specializzato in Alto medioevo europeo, contesta l’idea che i cosiddetti “barbari” siano responsabili della caduta dell’Impero. «Fra di loro non c’era unità, né esercitavano una pressione crescente. Nel quarto secolo l’Impero era in condizioni peggiori rispetto a trecento anni prima, ma i colpevoli non erano i vicini del Nord, che non erano né più numerosi, né meglio organizzati o armati, e nemmeno più ostili di quanto non fossero sempre stati».

Gli storici di lingua inglese preferiscono parlare di Migration Age, cioè di «età delle migrazioni», piuttosto che di invasioni barbariche. Questa scelta nasconde un approccio molto più laico e trasversale alla caduta dell’Impero Romano, considerata una inevitabile conseguenza di molti e diversi fattori.

L’espressione che usiamo in Italia, “invasioni barbariche”, comprende due termini non esattamente neutri. “Invasione” è un termine mutuato dal lessico della guerra, e indica un’aggressione armata. “Barbari” è una parola onomatopeica arrivata a noi dal greco antico che ha una distinta accezione negativa: i greci l’avevano inventata per prendere in giro le persone che non sapevano il greco, le cui lingue apparivano loro come un confuso borbottio, barbarbar. Anche in una lingua parente del greco che si parlava anticamente in India, il sanscrito, barbara significa sia “balbuziente” sia una persona straniera.

Il fenomeno avvenuto fra quarto e sesto secolo ai confini a nord est dell’Impero Romano non fu propriamente un’invasione, e “barbarico” è un aggettivo spregiativo che non aiuta a capire esattamente cosa sia successo.

L’Impero Romano del quarto secolo d.C. era incredibilmente disfunzionale. Aveva giganteschi problemi economici e una corruzione endemica. Si estendeva per un territorio probabilmente impossibile da controllare per una sola entità statale, dal Portogallo all’odierna Russia, dalla Scozia alla Libia, a capo della quale si susseguivano imperatori provenienti da ogni parte del mondo, sostenuti spesso da eserciti personali, in cui incidentalmente un po’ ovunque i residenti stavano abbandonando la religione romana per convertirsi al cristianesimo. Oggi sappiamo anche che un mondo estremamente connesso come lo era l’Impero Romano è anche più vulnerabile a sconvolgimenti come pandemie e disastri climatici.

La storia di Roma è una storia di annessioni. Per secoli l’espansione militare della Repubblica prima e dell’Impero poi fu accompagnata da un processo di graduale e pragmatica integrazione dei territori conquistati, ai quali veniva lasciato un certo grado di autonomia e a cui i conquistatori offrivano la possibilità, in un futuro non troppo distante, di diventare cittadini romani, una volta integrati nella società. Successe con i Sanniti così come con gli abitanti di Gerusalemme o Belgrado. Sant’Agostino era nato nell’odierna Algeria ma si definiva orgogliosamente e a pieno titolo un cittadino romano. Finché l’Impero fu in buona salute, tutto filò liscio o quasi. A un certo punto, però, qualcosa si incrinò.

Nel corso degli anni gli storici hanno formulato moltissime teorie per spiegare la caduta dell’Impero Romano, che avvenne formalmente nel 476 d.C. (da quella data sopravvisse solo l’Impero Romano d’Oriente). Alcuni la rintracciano nelle spaventose epidemie e siccità del Terzo secolo, che fecero centinaia di migliaia di morti: secondo stime dell’epoca la cosiddetta Piaga di Cipriano fece più di 300mila vittime soltanto ad Alessandria d’Egitto, una delle città più fiorenti di allora. Altri hanno parlato dell’impossibilità di espandere ulteriormente i confini dell’Impero, e quindi di arricchirsi con nuove tasse e bottini di guerra. Altri ancora nella diffusione del cristianesimo, che spazzò via molte credenze, riti e tradizioni secolari, nella dilatazione della classe sociale dei burocrati, che aumentò la corruzione e rese necessarie tasse più alte per fare funzionare la macchina amministrativa. Tutti questi elementi sono stati dei fattori, anche se è difficile stimarne esattamente il peso specifico.

A tutto questo si è aggiunta una precisa circostanza storica: le scorribande degli Unni, una misteriosa popolazione nomade dell’Asia centrale che ha lasciato una traccia molto netta nella storia e nella cultura popolare, ma di cui sappiamo pochissimo. Non conosciamo né da dove provenivano né la lingua che parlavano, visto che sono rimaste pochissime parole (una di queste, forse connessa alla parola che oggi in turco significa “cucchiaio”, è stata ritrovata nei resoconti amministrativi dell’impero cinese). Sappiamo invece che intorno al 370 d.C. penetrarono in Europa attraversando le steppe a nord del Mar Nero, costringendo varie popolazioni che vivevano nella regione a spostarsi a ovest, all’interno del territorio dell’Impero.

(una mappa dell’Enciclopedia Britannica sulle principali rotte seguite dai cosiddetti “barbari”)

I nomi di questi popoli ci suonano estremamente familiari, perché nei secoli successivi contribuirono a dare il nome alle regioni in cui si stabilirono. C’erano i Franchi, gli Angli, i Sassoni, i Longobardi, gli Alemanni, ma anche i Visigoti, rimasti alla storia soprattutto per il saccheggio di Roma del 410, e gli Eruli, che invece deposero l’ultimo capo dell’Impero Romano d’Occidente, Romolo Augustolo. Alcuni di questi popoli condividevano dei tratti comuni, come la lingua di origine germanica e una certa idea di società, che ruotava intorno alla classe guerriera. Si definivano genericamente “Goti”, una parola piuttosto enigmatica che sembra discendere da un verbo proto-indoeuropeo che significa “versare”.

Da molti secoli i Romani gestivano il lunghissimo confine a nord est del proprio impero con un doppio approccio: respingevano le popolazioni “barbare” più aggressive e integravano quelle più mansuete e disponibili a trovare un posto nella ricca società romana. Per molto tempo questo sistema funzionò.

Di recente lo storico Guy Halsall, che insegna all’università di York, nel suo articolo A ‘Counter-Intuitive’ View of the Roman Empire and ‘Germanic’ Migration ha fatto notare che «la condizione normale per il rapporto fra Romani e “barbari” nella frontiera che correva lungo il Reno e il Danubio era molto probabilmente la coesistenza pacifica. La frontiera non fu quasi mai in tumulto tutta insieme, e la maggioranza delle presunte scorribande barbare erano probabilmente degli scricchiolii, dei furti che necessitavano di interventi da polizia più che di campagne militari».

Certo, esistevano delle eccezioni. Nel primo secolo d.C. il capo “barbaro” che riuscì a infliggere una sconfitta storica all’esercito romano, Arminio della popolazione dei Cherusci, era in realtà un cittadino romano che aveva servito per anni nell’esercito dell’Impero, e si era poi ribellato.

Nel terzo secolo, anche per via della crisi demografica e delle crescenti esigenze di un Impero diventato ingestibile, gran parte dell’esercito era composta da popolazioni “barbare” che erano state romanizzate per sorvegliare efficacemente i confini. Una cosa simile stava succedendo anche nel 376, pochi anni dopo l’arrivo degli Unni in Europa. Diverse popolazioni scacciate dagli Unni chiesero all’allora imperatore Valente di potersi stabilire sulla riva meridionale del Danubio. L’imperatore glielo permise, e intere famiglie di Goti entrarono in territorio romano con i propri animali e i propri averi. Poi però per difficoltà amministrative e burocratiche l’Impero non riuscì ad integrare davvero questi popoli, negandogli la possibilità di trovare cibo e lavoro.

Lo storico Ammiano Marcellino racconta per esempio che l’accoglienza dei Goti fu affidata da Valente a due funzionari, Lupicino e Massimo, noti per la loro incompetenza e disonestà, che fecero di tutto per rendere la vita impossibile ai nuovi arrivati. A un certo punto per esempio Ammiano Marcellino racconta che «poiché i barbari, che erano stati trasferiti, soffrivano per la scarsità di cibo, quei comandanti odiosissimi escogitarono un turpe commercio e, raccolti quanti cani poté mettere assieme d’ogni parte l’insaziabilità, li diedero in cambio di altrettanti schiavi, fra i quali si annoveravano anche i figli dei capi».

Il fatto che l’accoglienza e integrazione di migliaia di persone fu gestita in maniera così miope, e che alla fine non si trovò altra soluzione che un intervento militare, era il sintomo di tutto quello che non andava nell’Impero Romano ancora prima delle cosiddette “invasioni barbariche”.

Scontri e tensioni andarono avanti per due anni, al termine dei quali un gruppo di Goti distrusse gran parte dell’esercito dell’Impero nella battaglia di Adrianopoli, in una zona che oggi si trova in Turchia al confine con Grecia e Bulgaria. L’esercito romano e il suo Impero non si ripresero mai più. Le popolazioni che abitavano sulla frontiera nordorientale si spinsero sempre più nel cuore dell’Impero, ormai in dissoluzione: dopo qualche decennio si formarono i regni romano-barbarici.