L’attacco alla sinagoga di Roma, quarant’anni fa

Il 9 ottobre 1982 cinque terroristi lanciarono bombe a mano e spararono coi mitra uccidendo un bambino e ferendo decine di persone

Agenti della polizia locale di Roma soccorrono un bambino, il 9 ottobre 1982, subito dopo l'attentato alla sinagoga (ANSA)
Agenti della polizia locale di Roma soccorrono un bambino, il 9 ottobre 1982, subito dopo l'attentato alla sinagoga (ANSA)
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Il 9 ottobre 1982 cinque terroristi, probabilmente appartenenti all’organizzazione palestinese del Consiglio rivoluzionario di Al Fatah (FMT), attaccarono con bombe a mano e fucili mitragliatori la sinagoga di Roma sul lungotevere dei Cenci. Quel giorno veniva celebrato lo Shabbat, cioè la festa del riposo osservata ogni sabato, ma anche un’altra festività ebraica nota come Sheminì Atzeret. Inoltre quella mattina era in programma il bar mitzvah – cioè il raggiungimento dell’età adulta – di decine di adolescenti.

Dentro e fuori la sinagoga c’era molta gente. I terroristi arrivarono alle 11.55 e l’attacco durò cinque minuti. L’obiettivo degli attentatori era quello di compiere una strage. Morì un bambino di due anni, Stefano Gaj Tachè, colpito dalla scheggia di una bomba a mano, e 37 persone rimasero ferite. Tra questi c’erano anche i genitori del bambino ucciso e il fratello, Gadiel Gaj Taché, di quattro anni, colpito alla testa e all’addome.

Tre terroristi si erano posizionati in modo da chiudere le possibili vie di fuga mentre due si misero di fronte all’ingresso della sinagoga. Quando un addetto alla sicurezza chiese loro di identificarsi, lanciarono tre bombe a mano di fabbricazione sovietica e poi iniziarono a sparare con pistole mitragliatrici Makarov. L’attacco durò cinque minuti, al termine dei quali i terroristi fuggirono a bordo di due auto.

I fiori sul luogo dell’attentato, davanti alla sinagoga (ANSA/CAPODANNO)

Gli abitanti del quartiere ebraico di Roma reagirono duramente. Un giornalista dell’Unità, quotidiano considerato vicino ai movimenti di liberazione palestinese, fu inseguito e riuscì a sfuggire all’aggressione solo grazie all’intervento della polizia. La stessa polizia fu accusata dalla comunità ebraica di non aver presidiato la zona nonostante il periodo fosse di grande tensione e ci fossero attacchi di gruppi palestinesi in varie parti d’Europa. Nel giugno del 1982 era avvenuta l’invasione del Libano da parte dell’esercito israeliano e tra il 16 e il 18 settembre miliziani falangisti libanesi cristiano maroniti avevano compiuto stragi nei campi palestinesi di Sabra e Shatila. Erano potuti entrare nei campi grazie alla complicità dell’esercito israeliano. Secondo alcune fonti i morti furono 3mila ma non fu mai fatto un conteggio ufficiale delle vittime. 

Prima dell’attentato alla sinagoga di Roma il gruppo FMT, guidato da Abu Nidal, poi processato e condannato a morte in contumacia da un tribunale palestinese, aveva compiuto altri attacchi in Europa. Il 9 agosto 1982 un gruppo di terroristi aveva assaltato a Parigi il ristorante kosher Joe Goldenberg in rue de Rosiers, nel quartiere ebraico del Marais. Furono uccise sei persone e 26 furono ferite. Le armi che spararono a Parigi furono probabilmente le stesse usate a Roma il 9 ottobre. Un anno prima, il 29 agosto 1981, c’era stato un attacco alla sinagoga di Vienna: morirono due persone. Il gruppo guidato da Abu Nidal restò attivo fino al 1987. Il 27 dicembre 1985 quattro terroristi dell’organizzazione compirono l’attacco all’aeroporto di Fiumicino uccidendo 13 persone.

Dopo l’attentato del 9 ottobre, l’allora presidente del consiglio Giovanni Spadolini si recò alla sinagoga. Non fu contestato perché era stato l’unico dei politici italiani a non aver incontrato l’allora leader dell’OLP Arafat che, in visita in Italia qualche settimana prima, aveva invece avuto colloqui col presidente della Repubblica Sandro Pertini e con Papa Giovanni Paolo II. 

Due giorni dopo l’attentato il consigliere comunale romano Bruno Zevi pronunciò un famoso discorso in Campidoglio a nome della comunità ebraica, davanti al sindaco Ugo Vetere. Zevi parlò dell’antisemitismo diffuso e di un’Italia «che manda i suoi bersaglieri in Libano per proteggere i palestinesi, ma non protegge i cittadini ebrei italiani», criticò il Vaticano «per il modo pomposo in cui ha ricevuto Arafat», i politici e i media «che salvo rare eccezioni hanno distorto fatti e opinioni».

Gadiel Gaj Taché, fratello del bambino ucciso nell’attentato alla sinagoga, ha da poco pubblicato un libro, Il silenzio che urla. L’autore, che aveva quel giorno quattro anni, ricorda che fu Emanuele Pacifici, storico esponente della comunità, a urlare: «Ci tirano sassi». In realtà non erano sassi ma bombe a mano. Poi, scrive Gadiel Gaj Taché:

Restiamo a terra feriti, mamma colpita alle gambe dalle schegge di altre bombe esplose cade a terra su Stefano, cercando di proteggerlo, ma Stefano è stato già colpito mortalmente alla testa. Papà mi tiene per mano, sono davanti a lui quando una bomba esplode proprio vicino a noi, investendolo.

Le indagini riuscirono a individuare il nome di un solo attentatore: Osama Abdel al Zomar. Venne arrestato nel novembre del 1982 mentre stava trasportando un carico di esplosivo dalla Turchia alla Grecia. Contro di lui ci fu la testimonianza di una ragazza italiana a cui si era legato, secondo cui il 9 ottobre al Zomar si trovava a Roma. L’uomo fu condannato in Grecia per traffico di armi, l’Italia chiese la sua estradizione ma non venne mai concessa. Dopo la liberazione andò a vivere in Libia. Un tribunale italiano l’ha condannato in contumacia all’ergastolo nel 1991 per l’attentato alla sinagoga di Roma. Non si sa se al Zomar sia ancora vivo e, nel caso, dove si trovi.

Nel dicembre del 2021 il giornale Riformista pubblicò il contenuto di alcuni documenti che confermerebbero un’accusa formulata nel 2008 dall’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Intervistato dal giornale israeliano Yediot Aharonot, Cossiga disse che l’Italia tra anni Settanta e anni Ottanta permise al terrorismo palestinese di usare il paese come base per armi e guerrieri in cambio dell’assicurazione che obiettivi e interessi italiani anche fuori dal paese non sarebbero mai stati oggetto di attentati.

Cossiga disse che questo accordo, una sorta di patto di non belligeranza, era il cosiddetto lodo Moro: sarebbe stato fatto nei primi anni Settanta dall’ex presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, rapito e ucciso dalle Brigate Rosse nel 1978, quando era ministro degli Esteri.

Di questo accordo non c’è mai stata nessuna conferma. Il Riformista, nell’articolo pubblicato nel dicembre del 2021, sostenne però che da alcuni documenti a cui era stato tolto il segreto di Stato risultava come già a partire dal giugno del 1982 il servizio segreto Sisde, Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica, aveva segnalato la possibilità di attentati contro obiettivi ebraici in Europa. Il 18 giugno di quell’anno il direttore del Sisde, Emanuele De Francesco, inviò a Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza un telex in cui era scritto: «Fonte solitamente attendibile ha riferito che i palestinesi residenti in Europa avrebbero ricevuto l’ordine di prepararsi a compiere una serie di attentati contro obiettivi israeliani o ebraici europei».

Il 27 giugno il Sisde, sempre secondo il Riformista, inviò un “appunto riservato” secondo cui studenti palestinesi “avrebbero in animo” attacchi contro obiettivi ebraici a Roma. Il 27 agosto un nuovo appunto ribadiva il pericolo, dicendo però che «l’atteggiamento dei fedayn verso l’Italia potrebbe non rivelarsi ostile nel caso di un sollecito riconoscimento dell’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, e della causa del popolo palestinese». 

In tutto, secondo il Riformista, furono inviate dai servizi segreti 16 segnalazioni, l’ultima delle quali proprio pochi giorni prima dell’attentato del 9 ottobre 1982. Il 25 settembre De Francesco scrisse: «Fonte abitualmente attendibile ha riferito che organizzazione di Abu Nidal intenderebbe compiere simultaneamente attentati contro obiettivi sionisti in Belgio, Francia e Italia, prima durante o subito dopo lo Yom Kippur (festività ebraica che quell’anno cadde il 26 e 27 settembre, ndr indicando tra i probabili obiettivi proprio la sinagoga di Roma.

Gli avvocati Cesare Del Monte e Joseph Di Porto hanno studiato per conto della Comunità ebraica di Roma i documenti sull’attentato alla sinagoga per verificare se fosse ancora valido il mandato di estradizione di Osama Abdel al Zomar, ma anche per cercare di comprendere perché le segnalazioni dei servizi segreti furono ignorate. Intervistati dal sito Shalom, i due avvocati hanno detto:

Si è sostenuto, sia in sede parlamentare, a pochi giorni dall’attentato, sia nelle relazioni di servizio degli investigatori inviate al giudice istruttore, che l’Unione delle Comunità Israelitiche non aveva richiesto per la data del 9 ottobre alcuna cautela ulteriore. Questo, però, contrasta con quanto si legge nella comunicazione ufficiale inviata dall’UCII (Unione comunità israelitiche italiane, ndr) nell’agosto del 1982 ove era indicata specificamente anche quella data. A fronte di questo, risulta molto difficile spiegare le ragioni dell’assenza dell’auto delle Forze dell’Ordine quel giorno innanzi al Tempio. E ancora più difficile risulta comprendere perché, anche dopo l’attentato si è continuato ad affermare che non vi era stata la segnalazione.

Riguardo alle indagini per cercare di scoprire quali fossero gli altri membri del gruppo terroristico, i due avvocati hanno detto:

Nelle indagini che hanno preceduto l’unico processo sin qui celebrato, sono comparsi numerosi soggetti che avrebbero meritato una maggiore attenzione ma che non sono stati indagati in maniera approfondita. Alcuni di questi risultavano essere legati al FPLP (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, ndr), altri al GUPS (General Union of palestinians students, ndr), altri ancora avevano radicati legami con il gruppo di Abu Nidal, e uno di questi, Al Awad Yousif con il quale Al Zomar partì da Bari il 20 ottobre 1982, si rese responsabile in Portogallo – ad aprile del 1983 – dell’omicidio di un dirigente palestinese ritenuto troppo moderato. Forse, all’epoca, tutti questi soggetti, così come la presenza di almeno un soggetto dai tratti somatici occidentali tra gli esecutori dell’attentato, avrebbero meritato maggiore approfondimento investigativo.

Nel 2020 il procuratore della repubblica di Roma, Michele Prestipino, dispose la riapertura di alcuni fascicoli di indagine, tra cui quelli relativi all’attentato alla Sinagoga, per tentare di identificare i complici di al Zomar. 

Un bambino soccorso dopo l’attentato (Ansa)

Nel gennaio di quest’anno il quotidiano Repubblica ha intervistato la donna italiana che allora aveva un rapporto con Osama Abdel al Zomar. La donna ha raccontato al quotidiano che conobbe il giovane palestinese all’università di Bari e che lui nel settembre del 1982 compì un viaggio all’estero da cui tornò «con una cifra importante di denaro: comprò una macchina, una Mercedes, in contanti. A fine mese partì per Roma e rimase via per qualche giorno. Ma niente che mi potesse far pensare a qualcosa di strano».

La sera del 9 ottobre 1982, ha raccontato ancora la donna a Repubblica, «discutemmo, perché lui provava a giustificarli (gli attentatori, ndr). Qualche giorno dopo mi disse che aveva avuto un ruolo, come basista. E poi scappò… Io mi sento di dire una cosa molto semplice, dopo 39 anni: ma davvero possiamo pensare che al Zomar abbia fatto tutto da solo? Davvero possiamo immaginare che sia stato lui, da solo, a pensare e coinvolgere tutte quelle persone? È chiaro che c’era qualcuno dietro, che li guidava».