Il piano del governo uscente contro le discriminazioni delle persone LGBT+

Definisce una serie di strategie in vari ambiti da seguire nei prossimi anni, ma Fratelli d'Italia non sembra dell'idea

(AP Photo/Darko Vojinovic, File)
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La ministra uscente della Famiglia e delle Pari opportunità Elena Bonetti ha comunicato l’adozione da parte del suo dipartimento della “Strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere”, un piano elaborato negli ultimi due anni in modo condiviso da vari ministeri, comuni, regioni e decine di associazioni. Il piano, presentato anche durante il Consiglio dei ministri del 5 ottobre, contiene una serie di azioni concrete da attuare nei prossimi tre anni in diversi ambiti, come lavoro, media e salute. Il piano e la modalità della sua adozione, in scadenza di mandato, sono stati criticati da alcune esponenti di Fratelli d’Italia, il partito che sarà più rappresentato nella prossima maggioranza di governo.

La “Strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere” ha come obiettivo quello di «rafforzare la tutela dei diritti delle persone LGBT+» e di «promuovere la parità di trattamento e la non discriminazione nell’ottica della piena inclusione di tutte le persone». È stato pensato in coerenza con le convenzioni internazionali e le indicazioni dell’Unione Europea contenute, in particolare, nella “Strategia europea per l’uguaglianza LGBTIQ 2020-2025” presentata nel 2020 dalla Commissione europea. Si tratta di un importante documento sulla base del quale gli stati membri sono invitati ad adottare piani di azione strategici su una serie di obiettivi chiave entro il 2025 e sull’attuazione dei quali la Commissione stessa dovrebbe esercitare una supervisione.

Il piano italiano si colloca in questo contesto: «Ci viene chiesto dall’Europa anche ai fini di finanziamenti per progetti specifici per i quali è vincolante» ha detto Bonetti a Repubblica specificando poi che, trattandosi di un piano pluriennale, «sarà responsabilità del prossimo esecutivo rispettarla o meno. Avranno la responsabilità di essere all’altezza».

La senatrice Isabella Rauti, responsabile delle Pari opportunità in Fratelli d’Italia, ha però criticato il metodo dell’adozione del piano: «giudico grave che il governo uscente presenti una strategia nazionale pluriennale alla vigilia della nascita di nuovo esecutivo e di un nuovo Parlamento». Eugenia Roccella, ex sottosegretaria ed ex portavoce del Family Day, appena rieletta sempre con il partito di Giorgia Meloni, ha a sua volta detto che «non si possono prendere impegni per il governo successivo (…) Ricominceremo tutto da capo, con la nostra linea».

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La Strategia nazionale è stata pensata e costruita attraverso un percorso iniziato nel 2020: ha coinvolto una decina di ministeri, la Conferenza delle regioni, l’associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI), e 66 associazioni di settore coordinate dall’UNAR, l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali che dipende dalla presidenza del Consiglio dei ministri e, in particolare, dal dipartimento delle Pari opportunità.

Il lavoro e la discussione si sono sviluppati intorno a sei temi principali: lavoro e
welfare; salute; sicurezza e carceri; educazione, formazione e sport; cultura e
comunicazione; e, infine, dati, monitoraggio e valutazione. Per ciascun ambito individua una serie di azioni sistemiche da adottare che dovrebbero essere finanziate sia con fondi ordinari del dipartimento Pari opportunità, dell’UNAR e di altre amministrazioni centrali, sia con fondi europei.

Per quanto riguarda il lavoro il piano propone, tra le altre cose, la formazione del personale che nelle aziende si occupa di fare le assunzioni, promuove l’accesso alle misure di welfare aziendale per i genitori dello stesso sesso e dunque congedi parentali ordinari e straordinari, disciplina dei casi di malattie dei figli, assistenza ai figli con disabilità. Chiede di favorire l’accesso al lavoro dipendente delle persone transgender anche mediante incentivi, borse lavoro o tirocini professionalizzanti. E propone di inserire nei contratti collettivi nazionali di lavoro delle norme antidiscriminatorie che contengano un espresso riferimento alle persone LGBTQIA+.

Sul tema sicurezza il piano affronta due questioni specifiche: una relativa alle persone LGBTQIA+ rifugiate o richiedenti asilo e l’altra relativa alle persone LGBTQIA+ in condizione di restrizione della libertà. Oltre alla formazione del personale delle forze dell’ordine, di quello delle commissioni territoriali (che hanno il compito di esaminare le richieste di protezione) e delle strutture di accoglienza per migranti e richiedenti asilo, si chiede di creare o implementare i centri a loro destinati. Propone di realizzare anche strutture di accoglienza per le persone LGBTQIA+ in condizioni di
fragilità, cioè persone vittime di omotransfobia e, in particolare, giovani. Per quanto riguarda la condizione delle persone LGBTQIA+ private della libertà la proposta più concreta è, tra le altre, quella di garantire la possibilità di poter somministrare la cura ormonale alle persone in transizione.

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Nell’ambito salute, oltre alla formazione, si chiede di facilitare l’accesso alla terapia ormonale in tutte le regioni in modo omogeneo e di istituire sportelli di assistenza e orientamento facilmente accessibili. Per quanto riguarda il settore educazione si dice di voler favorire nelle università il diritto allo studio delle persone transgender anche mediante la diffusione uniforme sul territorio nazionale della carriera alias e del “doppio libretto”.

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Nella sezione cultura comunicazione e media la proposta forse più innovativa a livello nazionale è quella di valorizzare i centri di documentazione e i materiali storici LGBTQIA+ attraverso un processo di digitalizzazione. Si parla poi della necessità di attivare dei corsi di formazione per chi lavora in tutti i settori della comunicazione dei media, della TV e della carta stampata per il corretto uso del linguaggio non discriminatorio e di avviare un monitoraggio e un’analisi del linguaggio dell’informazione, mediante un osservatorio specifico.

In Italia, dice il piano, c’è una carenza di dati sui diversi aspetti relativi alle discriminazioni nei confronti delle persone LGBTQIA+ ed è dunque necessario prevedere indagini strutturali e sistematiche che possano essere utilizzate a supporto delle politiche pubbliche.

Nella presentazione del piano sono comunque presenti diversi dati interessanti, che mostrano qual è la situazione italiana rispetto al resto d’Europa.

L’indagine speciale Eurobarometro 2019 “Discriminazione nella UE” ha ad esempio analizzato il grado di accettazione sociale delle persone LGBTQIA+ negli stati membri e la percezione delle discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale e l’identità di genere. I dati relativi all’Italia si collocano sotto la media europea per quanto riguarda ad esempio la percentuale di persone che ritengono che le persone LGBTQIA+ debbano avere gli stessi diritti delle persone eterosessuali (68 per cento a fronte di una media UE del 76). Il 43 per cento concorda sul fatto che le persone transgender dovrebbero poter
modificare i propri documenti civili in modo che corrispondano alla propria identità di genere a fronte di una media UE del 59 per cento, e solo il 37 per cento è d’accordo con l’indicazione di un “terzo genere” sui documenti pubblici a fronte della media UE del 46 per cento.

Nel Rainbow Report (Rapporto annuale sullo stato dei diritti in 49 paesi del continente europeo e dell’Asia centrale, elaborato da Ilga Europe, una delle maggiori associazioni internazionali che curano e monitorano i diritti delle persone LGBTQIA+ in Europa) l’Italia è al 35esimo posto, con un indice pari al 23 per cento rimasto di fatto stabile negli ultimi anni.

Una delle ricerche citate è poi quella dell’Agenzia dell’Unione Europea per i diritti fondamentali. È stata realizzata nel 2019 e vi ha partecipato un campione di circa 140 mila persone LGBTIQIA+ provenienti da 30 diversi paesi, in un’indagine basata sull’autopercezione e sull’autodefinizione del proprio vissuto.

Secondo la ricerca in Italia il 62 per cento delle persone LGBTI dice di non dichiarare apertamente mai o quasi mai il proprio orientamento sessuale. Circa il 92 per cento invece ritiene che l’Italia non si impegni per nulla o quasi per nulla «in una lotta efficace ed effettiva contro l’intolleranza e il pregiudizio» nei confronti delle persone LGBTI. Solo l’8 per cento circa (a fronte di una media europea pari al 33 per cento) ritiene che il governo combatta efficacemente pregiudizi e intolleranza.

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Un’ultima indagine citata è quella svolta dall’ISTAT, in collaborazione con UNAR, relativa all’accesso al lavoro, alle condizioni lavorative e alle discriminazioni sul lavoro delle persone LGBTQIA+ che si sono unite civilmente. I risultati sono stati pubblicati lo scorso marzo: risulta che tra quanti dichiarano un orientamento omosessuale o bisessuale e sono occupati o ex-occupati, il 26 per cento dice che il proprio orientamento ha rappresentato uno svantaggio nel corso della propria vita lavorativa. Il 40,3 per cento riferisce, in relazione all’attuale o ultimo lavoro svolto, di aver evitato di parlare della vita privata per tenere nascosto il proprio orientamento sessuale e una persona su cinque afferma di aver evitato di frequentare persone dell’ambiente lavorativo nel tempo libero per non rischiare di rivelare il proprio orientamento sessuale.