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  • Sabato 1 ottobre 2022

La strage di Las Vegas resta un mistero

Fu compiuta da Stephen Paddock cinque anni fa e fu la più grave nella storia statunitense: ancora oggi non se ne conoscono i motivi

Il prato verso cui fece fuoco Stephen Paddock a Las Vegas (AP Photo/Gregory Bull)
Il prato verso cui fece fuoco Stephen Paddock a Las Vegas (AP Photo/Gregory Bull)
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Alle 22:05 del primo ottobre di cinque anni fa, nel 2017, un uomo di 64 anni, Stephen Paddock, iniziò a sparare dalle finestre dell’hotel Mandalay Bay di Las Vegas sul pubblico che assisteva  a un concerto country sulla “Strip”, la via principale della zona dei casinò della città del Nevada. Negli undici minuti successivi Paddock sparò più di 1000 colpi, uccidendo 58 persone e ferendone oltre 400 (due di queste sono morte per complicazioni nel 2020), mentre altre 400 persone risultarono ferite nella successiva fuga caotica. Poi Paddock si uccise, senza lasciare messaggi o rivendicazioni. È la strage compiuta da una persona sola più grave nella storia degli Stati Uniti.

Cinque anni dopo, a indagini ampiamente concluse, i motivi che hanno spinto Paddock a pianificare e realizzare l’attacco restano un mistero. Le indagini, sia dei media che dell’FBI, non sono riuscite a trovare nella vita dell’uomo indizi su un possibile movente.

Paddock agì da solo, pianificando l’attacco nei dettagli. Era un giocatore abituale, con linee di credito aperte in alcuni casinò di Las Vegas, e nei giorni prima della strage aveva richiesto la suite da cui avrebbe sparato, al 32° piano ma con vista aperta sulla “Strip”. Fra il 1982 e il 2016 aveva acquistato 29 armi da fuoco, prevalentemente pistole e fucili, nell’anno precedente all’attacco ne aveva aggiunte 55, per lo più fucili semi-automatici, definiti anche “armi d’assalto”. Aveva comprato caricatori ad alta capacità e dispositivi (“bump stock”) che rendono quei fucili praticamente automatici, cioè in grado di sparare moltissimi colpi in poco tempo, semplicemente tenendo premuto il grilletto.

La polizia trovò nella suite del Mandalay Bay Hotel 23 fucili e una pistola.

– Leggi anche: Il fucile usato nelle stragi di massa negli Stati Uniti

La sera del primo ottobre 2017 era in corso nel Las Vegas Village, lungo la “Strip” e in corrispondenza dell’hotel Mandalay, il festival di musica country “Route 91 Harvest”, con circa 22mila spettatori. Alle 22:05 Paddock cominciò a sparare: iniziò con alcuni colpi singoli, che i sopravvissuti dissero poi avere confuso con esplosioni di fuochi artificiali. Poi, quando le persone si resero conto di cosa stava succedendo e iniziarono a scappare, Paddock cominciò a usare svariati fucili d’assalto in modalità automatica o semiautomatica, sparando circa 1000 colpi in undici minuti. Poi si suicidò, sparandosi, ben prima che la polizia potesse fare irruzione nella sua stanza.

Il giorno successivo lo Stato Islamico (o ISIS) provò a rivendicare l’attacco, sostenendo che Paddock si fosse convertito sei mesi prima, ma questa pista si rivelò ben presto falsa. L’autore della strage, confermò l’FBI in seguito, non aveva alcuna affiliazione religiosa o politica, né aveva particolari motivi di risentimento nei confronti del festival musicale obiettivo dell’attacco. La ricerca dei moventi apparve da subito un mistero di difficile soluzione.

La stanza d’hotel dopo l’irruzione della polizia (Las Vegas Metropolitan Police Department via AP)

Paddock era un pensionato, l’ultimo suo impiego era stato nel servizio postale, ma nella vita aveva messo insieme una discreta fortuna con investimenti immobiliari, prima a Los Angeles e poi in Nevada, a Reno e nelle vicinanze di Las Vegas. Era stato sposato due volte, rimanendo in buoni rapporti con le ex mogli, ed era fidanzato con una donna di origini filippine. Era un assiduo giocatore di videopoker: poteva spendere ai terminali lunghe ore consecutive (a volte ripetute notti, dormendo di giorno) e cifre considerevoli, che però non avevano mai creato problemi finanziari o variazioni nel suo stile di vita. Era un solitario, con rapporti minimi con i vicini e pochi amici.

Il punto su cui si soffermarono inizialmente le indagini fu la sua famiglia di origine: il padre di Paddock, Benjamin Hoskins Paddock, era stato un rapinatore di banche, arrestato nel 1960 ed evaso nel 1969, quando era finito anche nella lista dei dieci uomini più ricercati dall’FBI. Una delle teorie per spiegare la strage fu che Stephen Paddock volesse ricalcare la fama criminale del padre, che aveva visto l’ultima volta quando aveva sette anni: ma nessuna prova l’ha mai confermata.

La sua compagna, Marilou Danley, era stata invitata proprio da Paddock a partire per un viaggio nelle Filippine quindici giorni prima della sparatoria, con un biglietto aereo regalato a sorpresa. Durante il viaggio Paddock le aveva trasferito 150.000 dollari: la donna fu indagata dall’FBI e poi ritenuta estranea al tutto. Raccontò agli investigatori che Paddock negli ultimi tempi si era lamentato di un peggioramento dello stato di salute, definito uno «squilibrio chimico incurabile». Un venditore d’auto di Reno informò invece la polizia che l’autore della strage gli aveva confessato mesi prima di attraversare una fase di depressione, ma di aver rifiutato le pillole anti-depressive, preferendo quelle per l’ansia. Vari testimoni hanno poi raccontato che spesso «puzzava d’alcol».

Uno dei suoi fratelli minori, Eric, pur non comprendendo cosa potesse essergli accaduto, lo definì «re delle micro-aggressioni», con tendenze narcisistiche e un’attenzione maniacale ai particolari. Anche nel vizio del gioco sembrava preferire un “approccio scientifico”, studiando a fondo i comportamenti delle macchine del videopoker e rifiutando di affidarsi unicamente alla fortuna.

Il fratello Eric mostra una vecchia foto di sé e di Stephen Paddock, a destra (AP Photo/John Raoux)

Tutte queste indicazioni hanno portato a un ritratto psicologico compatibile con quello di altri autori di stragi di massa, ma non a una spiegazione sui motivi del gesto. Nel rapporto di chiusura delle indagini, l’FBI ammise di non aver trovato un «singolo o chiaro fattore di motivazione». Aaron Rouse, l’agente-capo dell’ufficio investigativo di Las Vegas, concluse: «Sembra che tutto si riducesse a fare il massimo del danno e ottenere per sé un certo livello di infamia. Se avesse voluto lasciare un messaggio, lo avrebbe fatto. La conclusione è che non voleva che la gente sapesse».

In occasione del quinto anniversario della strage, oltre alle annuali celebrazioni a Las Vegas, è stato presentato il documentario “11 Minutes”, realizzato da Ashley Hoff, una dei sopravvissuti alla strage, che prova a spostare l’attenzione dall’autore della strage alle sue vittime.

Nel documentario, che racconta quella notte e gli effetti a lungo termine sui sopravvissuti e sulle famiglie delle vittime, Paddock non viene mai chiamato per nome. Si racconta che l’autore della strage nei giorni precedenti avesse effettuato una ricerca su internet  su “Come diventare una star dei social media”. Paddock non aveva profili social e anche questo particolare è lontano dall’essere una spiegazione, ma Hoff ha voluto evitare che il suo eventuale desiderio di notorietà venisse esaudito.