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  • Domenica 25 settembre 2022

Le critiche ai registri elettorali divisi in base al genere

Creano gravi disagi alle persone trans e non binarie: in molti si sono mobilitati per chiedere di abolirli anche se con scarsi risultati

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In base a una legge del 1967 i registri elettorali – ovvero gli elenchi stilati dal ministero degli Interni che regolano l’accesso degli elettori ai seggi – sono divisi in base al genere: le persone che da carta d’identità risultano essere di genere femminile vengono iscritte in un elenco, quelle che risultano essere di genere maschile in un altro. Nel giorno delle elezioni, poi, il presidente del seggio elettorale può decidere se chiedere ai suoi scrutatori di chiamare gli elettori al seggio in base al genere o meno. Così, oggi come in passato, nella maggior parte dei seggi gli elettori sono stati divisi in due file secondo questo criterio.

Si tratta di una pratica in uso da decenni, ma che da diversi anni viene contestata dagli attivisti per la privacy e da quelli per i diritti della comunità LGBTQ+ perché mette in difficoltà sia le persone che hanno cominciato una transizione di genere ma che non hanno i documenti di identità aggiornati – e quindi sono iscritti al registro elettorale corrispondente al genere assegnato alla nascita – sia quelle che per altri motivi non hanno chiesto il cambio sui documenti, sia quelle con identità di genere non binaria, cioè persone che non si riconoscono né nel genere femminile né in quello maschile (e rifiutano la concezione binaria del genere).

Sono diverse le persone trans e non binarie che hanno condiviso le proprie esperienze in sede elettorale: molte raccontano di essere state riprese per essere “nella fila sbagliata” e di essere state spinte a esplicitare apertamente il loro percorso di transizione all’interno di contesti che non sono necessariamente aperti ad accoglierli, e ottenendo reazioni di imbarazzo e disgusto. Per evitare questo coming out forzato, molte persone evitano di andare a votare, in un momento per altro in cui i diritti LGBTQ+ sono tra i maggiori temi di dibattito all’interno dei principali partiti.

La campagna “Io sono io voto”, organizzata dall’associazione Gruppo Trans di Bologna, punta a cambiare le attuali procedure per evitare che la divisione in base al genere dei registri elettorali continui a generare questo tipo di problema. In alternativa alla divisione di genere, viene proposto di stampare le liste elettorali in ordine alfabetico e smettere di chiamare gli elettori in coda in base al genere, limitandosi a controllare il documento e la sua corrispondenza sul registro.

Nel 2020, la stessa associazione aveva raccolto più di cinquemila firme ad una petizione che chiedeva alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese di modificare la legge, ma non aveva ottenuto risposta.

In occasione delle elezioni del 25 settembre, “Io sono io voto” ha anche chiesto alle persone che vogliono sostenere attivamente la loro causa di chiedere di mettere a verbale, nel momento in cui si trovano al seggio per votare, una dichiarazione in cui si afferma che «la suddivisione in file, liste, registri per genere o per sesso è discriminatoria e lesiva nei confronti delle persone trans, di genere fluido, non binarie, o di tutte le identità che non si riconoscono nella dicotomia uomo-donna e che non vengono pertanto considerate e rispettate nella propria autodeterminazione». Una legge del 1957, infatti, prevede che al momento del voto gli elettori possano far mettere a verbale un proprio reclamo, dichiarazione di astensione dal voto o protesta di altro tipo.

«Tantissime persone, sia transgender e non binarie che alleate cisgender, hanno pubblicato la foto della loro verbalizzazione», ha detto Christian Leonardo Cristalli, tra gli organizzatori della campagna. Tra di loro c’è la politica del Partito Democratico Monica Cirinnà, candidata al Senato nel collegio Lazio 1.

Alcuni, però, hanno incontrato problemi nel tentativo di registrare la propria dichiarazione. L’attivista LGBTQ+ Cathy LaTorre ha detto di aver incontrato uno scrutatore che l’ha accusata di impedire le operazioni di voto perché chiedeva che la sua dichiarazione fosse verbalizzata. Diletta Huyskes, ricercatrice che si occupa di privacy, ha raccontato di aver rinunciato alla sua intenzione di allegare la dichiarazione ispirata da “Io sono io voto” dopo mezz’ora di tentativi. «Ho parlato in tutto con cinque persone: i presidenti di tre seggi e degli scrutatori, che hanno pure fatto telefonate. Nessuno sapeva come potessi fare per depositare questa nota con il mio voto», ha raccontato. «Uno dei presidenti mi ha detto “ma che roba è? Vuoi farci perdere tempo per una cosa così assurda?”. Dopo mezz’ora di polemiche, parecchio incazzata, me ne sono dovuta andare perché non avevano idea di come allegarla.»