Perché si parla dell’accesso all’aborto nelle Marche

La regione è stata definita un "laboratorio" delle politiche di Fratelli d'Italia in tema di diritti riproduttivi, ma non è l'unica

Manifestazione del movimento femminista Non una di meno a Roma, 26 novembre 2016 (Andrea Ronchini/Pacific Press via ZUMA Wire)
Manifestazione del movimento femminista Non una di meno a Roma, 26 novembre 2016 (Andrea Ronchini/Pacific Press via ZUMA Wire)
Caricamento player

In questi giorni di campagna elettorale in Italia sta circolando un articolo del Guardian scritto da Angela Giuffrida su come i presidenti di Fratelli d’Italia di diverse regioni italiane abbiano reso molto complicato l’accesso all’aborto. Le Marche, in particolare, vengono definite come un “laboratorio” delle politiche di Fratelli d’Italia e l’esempio di ciò che potrebbe accadere ai diritti riproduttivi delle donne se la coalizione delle destre vincesse le elezioni.

Se ne riparla, in questi giorni, a partire dall’articolo del Guardian che è stato ripreso dal post di un giornale online e poi ricondiviso da Chiara Ferragni con i suoi 27 milioni di follower su Instagram. Ma è da molto tempo che i movimenti femministi, diverse giornaliste femministe e altre associazioni lo denunciano, protestano e hanno organizzato diverse manifestazioni.

Lega e Fratelli d’Italia, che governano in diverse regioni italiane, stanno portando avanti in modo concreto un programma per limitare l’accesso all’aborto farmacologico e per sostenere formalmente natalità e maternità attraverso precise proposte di legge con finalità antiabortiste.

– Leggi anche: Breve storia del successo dei movimenti antiabortisti italiani

Nell’agosto del 2020 il ministero della Salute aveva aggiornato le proprie linee di indirizzo, ferme da dieci anni, sulla RU486, cioè sull’aborto farmacologico. Introdotto in Italia solo nel 2009 (in Francia nel 1988 e nel Regno Unito nel 1990), le linee guida che lo regolavano contenevano una serie di ostacoli: un limite di tempo ridotto (sette settimane) rispetto a quello indicato dal farmaco stesso e adottato dagli altri paesi d’Europa (nove settimane) e una procedura “all’italiana” che prevedeva il ricovero ordinario in ospedale di tre giorni.

L’aggiornamento delle linee di indirizzo del 2020 prevedeva l’annullamento dell’obbligo di ricovero in ospedale, l’estensione della prescrizione del farmaco a nove settimane di età gestazionale, e la possibilità di somministrazione in consultorio o in ambulatorio. Il Consiglio Superiore di Sanità aveva espresso il proprio parere favorevole e l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) aveva emanato una determina per modificare le modalità di impiego di quel farmaco.

Le limitazioni esistenti fino a quel momento non avevano avuto l’effetto di ridurre il ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza, IVG, come auspicato da chi le aveva pensate e sostenute, bensì quello di rendere l’esperienza più invasiva, traumatica e, in tempi di pandemia, più pericolosa e difficile.

Diverse regioni, però, non hanno ancora recepito le linee di indirizzo lasciando la situazione immutata. Mentre altre hanno preso una posizione contraria.

All’inizio del 2021, ad esempio, la regione Abruzzo – governata da Marco Marsilio di Fratelli d’Italia – aveva inviato una circolare alle Aziende sanitarie locali affinché l’interruzione farmacologica di gravidanza venisse «effettuata preferibilmente in ambito ospedaliero e non presso i consultori familiari». La circolare era stata firmata dall’assessora alla Sanità Nicoletta Verì (Lega) e dal Direttore generale della Sanità della Regione Abruzzo Claudio D’Amario.

Nelle Marche, sempre all’inizio del 2021, la maggioranza di centrodestra guidata da Francesco Acquaroli, sempre di Fratelli d’Italia, aveva deciso di opporsi all’aborto farmacologico e alle nuove linee di indirizzo ministeriali respingendo una mozione presentata da Manuela Bora, del PD, per la piena applicazione della 194.

Nelle Marche l’obiezione di coscienza tra i ginecologi è al 70 per cento, più della media nazionale, che è del 64,6 per cento. Fratelli d’Italia per dimostrare che non è vero che il loro partito ha limitato il diritto all’aborto ha citato un dato contenuto nell’ultima Relazione del ministero della Salute sull’attuazione della legge 194: il 92,9 per cento degli ospedali della regione pratica aborti e dunque l’aborto sarebbe garantito. Come ha fatto notare il Corriere della Sera, il dato però si riferisce al 2020, cioè per lo più al periodo in cui le Marche non erano ancora governate da Fratelli d’Italia, e dice poco sul reale e libero accesso alle pratiche di interruzione di gravidanza, dal momento che si riferisce all’intera regione, e quindi non entra nello specifico delle singole strutture.

Fermo, nelle Marche, risulta ad esempio tra le prime città italiane in cui più del 50 per cento delle IVG viene effettuato fuori dai confini provinciali: in cui cioè è molto alto il tasso di mobilità per mancanza di strutture sul territorio di riferimento. Secondo la ricerca “Mai Dati” sulle singole strutture realizzata da Chiara Lalli, docente di Storia della Medicina, e Sonia Montegiove, informatica e giornalista, risulta infine che nelle Marche ci siano due strutture con più del 90 per cento di ginecologi obiettori e una con il 100 per cento di ginecologi obiettori.

Il capogruppo al consiglio regionale di Fratelli d’Italia Carlo Ciccioli, per giustificare le limitazioni all’uso della pillola abortiva, aveva citato l’imminente pericolo di una «sostituzione etnica», sostenendo che in loro assenza sarebbero aumentati i bambini con genitori “stranieri” e diminuiti invece quelli italiani.

Dopodiché Ciccioli aveva presentato una proposta di legge a «sostegno di famiglia, genitorialità e natalità». Gli interventi erano pensati per le cosiddette coppie tradizionali, facevano riferimento a un «welfare generativo», alla tutela della bigenitorialià a tutti i costi, alla prevenzione dell’interruzione di gravidanza e favorivano il lavoro anche all’interno delle strutture pubbliche delle associazioni antiabortiste che si occupano di famiglia e di natalità.

La propaganda e l’intervento dei gruppi antiabortisti nelle strutture pubbliche è, di fatto, consentita proprio dalla legge che in Italia regola l’interruzione di gravidanza, la 194. Si tratta di una legge che innanzitutto tutela la maternità e poi concede l’aborto: a causa di alcuni passaggi specifici, spiega Federica Di Martino, una delle coordinatrici della rete femminista “IVG, ho abortito e sto benissimo” «i gruppi antiabortisti si sono potuti intromettere con grande facilità nei percorsi verso l’aborto: per ostacolarlo. L’ingresso delle associazioni anti-abortiste negli ospedali o nei consultori pubblici è stato dunque di fatto consentito proprio dalla 194». E viene favorito, sostenuto e finanziato con specifiche politiche a livello locale o regionale, come nelle Marche. Per questo c’è chi pensa che sarebbe arrivato il momento di avere una nuova legge.

– Leggi anche: I limiti della legge 194 sull’aborto

Della proposta di Ciccioli si era parlato soprattutto per le sue dichiarazioni sulla cosiddetta famiglia naturale e i ruoli che donne e uomini dovrebbero avere al suo interno: «Non possono esistere alternative al nucleo familiare naturale, composto da un padre, da una madre e dai figli che hanno il diritto ad avere una famiglia così. Ne va del concetto di educazione: al padre sono demandate le regole, alla madre l’accudimento, non ci possono essere alternative». Sulle dichiarazioni aveva preso posizione critica anche l’Ordine degli Psicologi delle Marche, e c’erano state proteste e manifestazioni.