Cos’è “naturale” e cosa non lo è?

Alla base di un diffuso criterio di definizione di cibi, cosmetici e molti altri prodotti, oltre che di fatti e processi, c’è una distinzione ambigua e influenzata da fattori culturali

naturale artificiale
(Stephen Chernin/Getty Images)
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Definiamo «naturali» innumerevoli fatti e cose diverse tra loro, dal parto alla morte alla luce delle lampadine, e generalmente ci capiamo sul senso della parola. L’aggettivo «naturale» è a volte utilizzato anche come sinonimo di «ovvio», «certo», volendo intendere che ciò a cui si riferisce è o dovrebbe essere nell’ordine delle cose. Come ovvia e immediata si suppone che sia la distinzione comune tra ciò che è naturale e ciò che non lo è.

Ma l’aggettivo «naturale» non definisce una classe specifica di oggetti e fenomeni accomunati da un elemento stabile e oggettivo. E la denotazione della parola «natura» tende a variare a seconda non soltanto dell’ambito del discorso e delle discussioni, ma anche della prospettiva di volta in volta presa in considerazione. Con il risultato apparentemente contraddittorio di far confluire nella definizione di «natura» significati in parte connessi a un’altra parola, «cultura», a cui è spesso contrapposta nelle scienze sociali e negli studi sul linguaggio.

In un celebre dibattito televisivo a Eindhoven nel 1971, il filosofo francese Michel Foucault e il linguista statunitense Noam Chomsky, due dei più citati e influenti pensatori del Novecento, dialogarono sul tema della «natura umana» provando a individuare tratti distintivi invariabili e non soggetti a mutamenti storici che differenzino gli esseri umani dagli animali non umani.

All’interno di una tradizione di pensiero in cui si inserisce anche la conversazione tra Chomsky e Foucault, «naturale» è ciò che è stabile, non legato a contingenze storiche o esperienze particolari bensì a un dato biologico. Dall’altra parte, «culturale» è tutto ciò che è variabile per definizione, che dipende dalle diverse pratiche politiche, economiche, tecniche e sociali, e dal modo stesso di classificare e differenziare gli oggetti della ricerca scientifica nel corso del tempo.

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Un’antitesi più presente nel linguaggio comune contrappone invece all’aggettivo «naturale» l’aggettivo «artificiale» (o «innaturale», con un’accezione di solito negativa). È una distinzione pratica e molto radicata nell’immaginario collettivo, utilizzata in circostanze molto varie, e in cui l’azione degli esseri umani – a volte la sola presenza – è spesso inquadrata come un’interferenza o una deviazione rispetto a un presunto corso «naturale» degli eventi, appunto.

Su questa stessa distinzione si basa, tra le altre cose, una cospicua parte della comunicazione pubblicitaria nell’industria alimentare e cosmetica, così come le normative sulle etichettature dei prodotti. Ci sono aromi e coloranti naturali o artificiali, per esempio, e ciò che li distingue sono il più delle volte condizioni che riguardano i processi di produzione ma non indicano differenze sostanziali tra una cosa e l’altra.

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Rossetti esposti durante una mostra a Los Angeles, California, il 21 ottobre 2018 (Presley Ann/Getty Images per Sephora)

Scienziati e storici della scienza sostengono da tempo che la distinzione tra cosa sia naturale e cosa no è spesso condizionata da fattori estremamente variabili. Come ha scritto lo storico della medicina Gilberto Corbellini nel libro Perché gli scienziati non sono pericolosi, «è stato detto, dimostrato e ribadito in quasi tutte le salse che non c’è niente di più culturale dell’idea di natura».

Esiste tuttavia una tendenza comune a distinguere – anche a un livello intuitivo – il naturale dal non naturale, e ad attribuire al primo gruppo presunte qualità incompatibili con il secondo. Questa implicazione semantica secondaria, secondo Corbellini, è l’aspetto problematico della distinzione. Ciò che «è considerato “naturale”, in quanto tale viene giudicato più “buono”, più “giusto”, più “sano” e più “sicuro”», mentre ciò che è considerato non naturale è anche considerato pericoloso o dannoso.

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Eppure, osserva Corbellini, l’equivalenza tra naturale e buono è contraddetta dai progressi che la civiltà occidentale ha ottenuto nel corso dei secoli assumendo che fosse vero il contrario: che naturale non implicasse cioè qualcosa di positivo. Per quanto naturale sia un virus, per esempio, ciò non rende sana un’infezione. E se l’aspettativa di vita è significativamente aumentata nel corso dei secoli è perché la medicina e le tecnologie hanno permesso di ridurre «una serie di rischi “naturali” che minacciavano l’esistenza umana».

Non ci sono inoltre prove a sostegno dell’idea che i prodotti che definiamo naturali non arrechino danni. È anzi vero e del tutto normale che «una significativa parte dei cancerogeni che assumiamo vengono dalle piante, che li sintetizzano per la loro difesa». Ma constatazioni di questo tipo sono spesso ignorate, come mostrano diversi sondaggi, e sono alla base di estese sottovalutazioni della tossicità delle sostanze di origine naturale.

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Fiori di cicuta maggiore in un campo vicino a Faversham, in Inghilterra, il 30 giugno 2021 (Dan Kitwood/Getty Images)

All’inclinazione comune ad attribuire proprietà benefiche ai prodotti che definiamo naturali corrisponde una parallela e diffusa paura irrazionale delle sostanze sintetiche nota come chemofobia. Riguarda persone che tendono a essere eccessivamente preoccupate per i rischi associati a qualsiasi sostanza ottenuta tramite sintesi e spesso definite, impropriamente, «sostanze chimiche» (tutte le sono, in senso proprio).

Tra queste persone è diffusa l’idea che gran parte delle sostanze di sintesi siano dannose a prescindere dalla concentrazione e dal livello di esposizione, e che soltanto le sostanze «naturali» siano salutari. Di conseguenza, è quindi per loro molto rilevante l’origine delle molecole, sapere se siano un prodotto di laboratorio o no, sebbene questo non sia un indicatore di tossicità.

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Distinguere le molecole tra naturali e non naturali non ha molto senso, da un punto di vista chimico, perché tutti gli atomi di uno stesso elemento sono uguali e indistinguibili. Se fosse possibile per magia strapparli, rimescolarli alla rinfusa e ridistribuirli tra le molecole a cui appartenevano in partenza, ipotizza il chimico e divulgatore scientifico Dario Bressanini nel libro Pane e bugie, nessuno potrebbe accorgersi che è stato effettuato lo scambio.

Ci si riferisce comunemente alle «sostanze naturali», in termini chimici, per indicare «una molecola che in natura viene prodotta da qualche processo o organismo». Significa cioè che esiste già in natura da qualche parte, ma non significa che riprodurla in laboratorio anziché ottenerla tramite il complesso ciclo metabolico di una pianta abbia influenza sulle proprietà della sostanza. «Ed è una fortuna che sia così», aggiunge Bressanini, dal momento che molte sostanze utili presenti in natura sono molto rare, o è troppo difficile estrarle, o troppo costoso separarle dalle altre molecole.

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Verdure fresche in vendita in un supermercato a Auckland, in Nuova Zelanda, il 18 maggio 2010 (Sandra Mu/Getty Images)

Tramite sintesi è possibile inoltre ottenere molecole che non sono mai esistite prima in natura: dalla plastica alle fibre di alcuni abiti che indossiamo. Ma questo non rende «innaturali» quelle molecole né gli atomi che le costituiscono. La distinzione delle molecole in «naturali» e «non naturali», osserva Bressanini, «è basata su criteri culturali, economici, filosofici, anche psicologici se vogliamo, ma non certo chimici».

Qualsiasi interpretazione della distinzione tra naturale e artificiale in termini di opposizione tra «buono» e «cattivo» – opposizione sostenuta e, in una certa misura, incentivata anche dalla pubblicità e dal marketing – deriva da esperienze e valutazioni di vario tipo ma non dalla considerazione delle caratteristiche intrinseche delle molecole. Soltanto da quelle caratteristiche dipende infatti l’eventuale tossicità di una determinata molecola, e non dal procedimento utilizzato per sintetizzarla.

Dai procedimenti utilizzati per ottenere le molecole e dalle percentuali di quelle molecole nei prodotti finali dipende invece, tra le altre cose, il complesso e articolato sistema delle etichettature. Per chiarirne i criteri è spesso utilizzato come esempio utile l’aroma della pianta di vaniglia, che deriva in larga parte – non del tutto – da un’unica molecola: la vanillina. È una sostanza che è possibile sintetizzare in laboratorio, come di fatto avviene per più del 99 per cento della produzione mondiale di aroma di vaniglia.

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Secondo le normative europee vigenti, modificate sulla base di un regolamento (1334/08) introdotto nel 2008 per chiarire una precedente terminologia e ridurre la possibilità di equivoci, la parola «naturale» può essere utilizzata per descrivere un aroma soltanto se le sostanze derivano direttamente da «materiali di origine animale o vegetale».

Nello specifico, nel caso degli aromi utilizzati per i prodotti alimentari – che è l’utilizzo prevalente della vanillina – l’aroma è definito «aroma naturale di vaniglia» quando deriva per almeno il 95 per cento dal baccello di vaniglia. Quando invece è utilizzato meno del 95 per cento ma la vaniglia è comunque la «base» riconoscibile e prevalente, se sono presenti altri aromi naturali il prodotto è definito «aroma naturale di vaniglia con altri aromi naturali». Se invece l’aroma è il risultato di un insieme di aromi naturali ma quello di vaniglia non è prevalente, la dicitura utilizzata è «aroma naturale».

In tutti gli altri casi l’etichetta riporta soltanto la parola «aromi», non la parola «naturale». Questa categoria generica comprende gli aromi che una precedente terminologia indicava o come «aromi naturali identici», quelli ottenuti tramite sintesi e chimicamente identici alla sostanza naturale, o come «aromi artificiali», quelli ottenuti tramite sintesi ma utilizzando anche molecole diverse da quelle della sostanza presente in natura.

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Gelati serviti in un parco a New York, il 14 ottobre 2017 (Monica Schipper/Getty Images for NYCWFF)

La parola «naturale» riferita agli alimenti – il «vino naturale», per esempio, il cui mercato è molto cresciuto negli ultimi anni ma la cui denominazione non è regolata da nessuna normativa e di fatto indica più una filosofia che un protocollo produttivo – è da tempo oggetto di discussione anche in materia di protocolli e «disciplinari», l’insieme di norme da rispettare nei processi di produzione per ottenere specifiche denominazioni. L’interesse dei produttori in generale, come nel caso noto di alcuni formaggi, è formalizzare particolari procedure che riguardano non soltanto la provenienza delle materie prime ma anche le temperature di lavorazione e i tempi di stagionatura, per esempio, e che incidono evidentemente sulla qualità finale del prodotto.

Ma le discussioni intorno al «naturale» tendono a essere generalmente più complicate e animate anche a causa della sostanziale ambiguità di questo aggettivo e delle frequenti associazioni con il concetto di salute e di benessere nella cultura popolare. Nel 2020, rispondendo a una lettera dell’organizzazione che rappresenta le aziende vinicole nell’Unione Europea (Comité Européen des Entreprises Vins, CEEV), la Direzione generale per l’agricoltura e lo sviluppo rurale della Commissione europea definì «potenzialmente fuorviante» l’uso dell’indicazione «naturale» in combinazione con la parola «vino».

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All’idea di «naturale» è poi comunemente associata un’idea di immutabilità che viene di solito ereditata da qualsiasi oggetto della discussione descritto in questi termini. Ma le mutazioni spontanee o i processi di fusione di genomi di specie diverse, fa notare Bressanini, mostrano come sia l’evoluzione stessa a contraddire la presunta immutabilità attribuita a ciò che è naturale. «Nel corso di milioni di anni questi meccanismi hanno agito e hanno trasformato i primi organismi monocellulari, composti da una sola cellula, in pomodori, uomini, peperoni, rinoceronti e volpi», sintetizza Bressanini.

Per quanto curiose possano essere le nostre definizioni di «naturale», secondo Corbellini, di sicuro non è possibile sostenere dell’agricoltura che sia qualcosa di naturale. Fu piuttosto una «straordinaria innovazione tecnologico-culturale», ma a noi «estranea dal punto di vista della nostra storia evolutiva».

Come dimostra la storia della coltivazione di quasi tutte le specie (con pochissime eccezioni, come alcuni frutti di bosco), fin dalle origini dell’agricoltura gli esseri umani hanno trasformato le piante selvatiche in varietà così differenti da non avere più alcuna somiglianza con la pianta antenata. Né oggi una specie coltivata riuscirebbe a sopravvivere se venisse riportata in un ambiente selvatico, «inadatta com’è ormai a vivere “in natura”», osserva Bressanini nel libro Contro natura, scritto insieme alla biotecnologa e divulgatrice scientifica Beatrice Mautino.

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Si ritiene, per esempio, che le prime carote furono addomesticate e coltivate nella regione dell’Afghanistan 5 mila anni fa, e che fossero viola o gialle. Lo erano ancora quando attraverso il Mediterraneo furono introdotte in Europa nel XII secolo, e non è chiaro se la transizione all’arancione delle carote moderne sia avvenuta per selezione o con mutazione.

Studi compiuti negli anni Sessanta dal ricercatore olandese Otto Banga permettono però di ipotizzare che la transizione sia avvenuta intorno al XVII secolo. Ed è stato possibile scoprirlo, prosegue Bressanini, perché le carote raffigurate nei dipinti di nature morte o di scene di mercato risalenti a prima di quel secolo in Europa sono soltanto viola o gialle. Dal XVII secolo in poi cominciano a essere presenti insieme a quelle viola (all’epoca preferite alle gialle) anche quelle arancioni, la cui coltivazione da un certo punto in poi sostituì le altre per ragioni probabilmente estetiche (il sapore tra quelle viola e quelle arancioni non era troppo diverso).

L’esempio della carota, così come quello di molte altre coltivazioni, dimostra che «tutto quello che mangiamo ha subito modificazioni genetiche» e che non ci sia niente di più naturale, scrive Bressanini. Soprattutto permette di chiarire che la probabile ragione per cui tendiamo a intendere il «naturale» come qualcosa di «originario» e immutabile risiede nella mancanza di una memoria necessaria a mettere in prospettiva i cambiamenti evolutivi presenti anche in ciò che definiamo naturale.