I molti problemi dell’inchiesta contro i sindacati di base a Piacenza

C’entrano un’interpretazione controversa del diritto di svolgere attività sindacali e le pessime condizioni di lavoro nella logistica

di Isaia Invernizzi

Lo striscione che ha aperto il corteo della manifestazione organizzata per chiedere la liberazione dei sindacalisti arrestati (ANSA/PIER PAOLO FERRERI)
Lo striscione che ha aperto il corteo della manifestazione organizzata per chiedere la liberazione dei sindacalisti arrestati (ANSA/PIER PAOLO FERRERI)

Sabato scorso a Piacenza oltre duemila persone hanno manifestato per chiedere la libertà di sei sindacalisti di SI Cobas e Usb, i principali sindacati di base attivi nei magazzini della logistica, arrestati il 19 luglio su richiesta della procura con accuse gravi: associazione a delinquere, violenza privata, resistenza e violenza a pubblico ufficiale, sabotaggio e interruzione di pubblico servizio. Alla manifestazione hanno partecipato operai e operaie, studenti, attivisti arrivati da altre regioni italiane e dall’estero. «Le lotte operaie non si processano», diceva lo striscione che apriva il corteo, una sintesi efficace delle contestazioni rivolte alla procura.

Secondo i sindacati di base e i loro avvocati, infatti, l’obiettivo dell’inchiesta sarebbe di reprimere la legittima attività sindacale.

Sono stati arrestati il coordinatore nazionale del SI Cobas, Aldo Milani, e tre dirigenti piacentini, Mohamed Arafat, Carlo Pallavicini e Bruno Scagnelli, oltre a due dirigenti dell’Usb, Abed Issa Mohamed e Roberto Montanari. Sono tutti agli arresti domiciliari. Altri due sindacalisti hanno ricevuto l’obbligo di firma e il divieto di dimora a Piacenza, revocato martedì dal giudice per le indagini preliminari in seguito ai primi interrogatori. In totale le persone indagate sono circa un centinaio.

Gli arresti si basano sui risultati di una lunga inchiesta iniziata nel 2016. La polizia giudiziaria ha acquisito migliaia di documenti: relazioni della Digos, video delle manifestazioni e delle assemblee trasmesse sulle pagine social dei sindacati, fotografie, approfondimenti sui conti correnti e sulle proprietà immobiliari, comunicati e volantini. La parte più consistente delle accuse si basa su moltissime ore di intercettazioni telefoniche, un’operazione iniziata il 3 dicembre 2018.

Tutto questo materiale è stato riportato in 22mila pagine che presentano la maggior parte delle proteste sindacali avvenute in provincia di Piacenza tra il 2014 e il 2021. I risultati sono stati riassunti nelle 347 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal giudice per le indagini preliminari Sonia Caravelli.

La tesi principale della procura è che la lotta sindacale portata avanti da SI Cobas e Usb sarebbe stata organizzata non per rivendicare e ottenere più diritti per i lavoratori, ma per garantire vantaggi economici personali agli arrestati e ai sindacati attraverso una doppia associazione a delinquere, una per ogni sindacato di base.

Le manifestazioni non autorizzate, secondo la procura, sarebbero servite non per conquistare diritti e accordi, ma per inasprire il conflitto con le aziende e la competizione tra le due sigle sindacali, SI Cobas e Usb, entrambe impegnate a imporsi come organizzazione più rappresentativa e ottenere vantaggi come l’aumento delle iscrizioni, dei proventi delle conciliazioni e anche arricchimento personale.

In molti passaggi dell’ordinanza si parla dei proventi delle conciliazioni, cioè delle trattative svolte dai sindacati per ottenere le buonuscite da dare a ciascun lavoratore che viene licenziato: una percentuale di queste buonuscite viene poi riconosciuta ai sindacati per il lavoro svolto.

È questo però un modo legale per finanziarsi, comune a tutti i sindacati. Per la procura, «tali flussi di denaro vanno ad alimentare l’organizzazione di tali sigle sindacali che vivono appunto del conflitto, che rilanciano continuamente e sistematicamente proprio perché da lì ricavano il loro sostentamento derivante dalle nuove affiliazioni (ottenute a fronte dello strappare migliori condizioni per i propri iscritti) e soprattutto dalle conciliazioni».

Ci sono poi riferimenti a rimborsi per biglietti aerei e spese dei sindacati. Una delle contestazioni riguarda le spese per il trasporto degli iscritti del SI Cobas a tutte le manifestazioni, circa 300mila euro in diversi bonifici fatti in un anno da conti correnti del sindacato a due diverse compagnie di trasporti. Secondo la procura, 300mila euro sarebbero moltissimi soldi che suggeriscono la gestione di attività illegali e il reato di associazione a delinquere. Secondo i sindacati mostrerebbero solo come negli ultimi anni la mobilitazione dei lavoratori in provincia di Piacenza sia stata notevole.

(ANSA/PIER PAOLO FERRERI)

Una delle accuse più puntuali riguarda l’accordo ottenuto dal SI Cobas con il consorzio Ucsa: la procura sostiene che siano stati concessi tra 25 e 30mila euro di buonuscita a testa a una cinquantina di lavoratori, mentre a Mohamed Arafat, uno degli arrestati, tra le figure principali dei SI Cobas a Piacenza, l’azienda avrebbe dato 100mila euro (quindi l’accusa è che Arafat avrebbe ricevuto dall’azienda più soldi degli altri lavoratori e si sarebbe arricchito personalmente, non è chiaro in cambio di cosa).

Ad Arafat sono stati contestati anche bonifici del sindacato accreditati sui conti personali per l’acquisto di case in Italia e in Egitto.

Molte delle accuse contro Arafat si basano su una denuncia presentata dall’ex cognato. «Si ha motivo di ritenere che Arafat in effetti abbia utilizzato il sindacato per arricchirsi, con la seria possibilità che abbia addirittura drenato risorse illegali dai conti dell’organizzazione di lavoratori», spiega la procura. «Il tutto strumentalizzando il suo ruolo centrale nella creazione del conflitto e nella successiva gestione delle vertenze conciliative attraverso un sistema consolidato di fittizi rimborsi spesa».

Secondo gli avvocati dei sindacalisti, i singoli episodi non bastano a giustificare l’accusa di associazione a delinquere, e più in generale l’osservazione dei fatti e dell’insieme delle contestazioni si basa su presupposti controversi: l’ampia rappresentatività sindacale è considerata dalla procura un elemento “ricattatorio”, gli scioperi e le proteste una forma di richiesta “estorsiva”. Di fatto, nell’ordinanza molti dei metodi e degli obiettivi dei sindacati di base sono considerati illegali, al punto che alcuni mezzi di informazione hanno ribattezzato le accuse come “reato di sindacato”.

Prevenendo questa critica, i magistrati hanno detto fin da subito di essersi concentrati esclusivamente sulle responsabilità personali degli arrestati.

Sia nell’ordinanza di custodia cautelare, sia durante la conferenza stampa di martedì scorso, i magistrati hanno sostenuto di non aver seguito un intento repressivo nei confronti dell’attività sindacale. «Questa ordinanza non contiene nulla che possa essere definito limitativo o solo offensivo della attività sindacale lecitamente svolta, in relazione alla quale questo procuratore e il questore, e le forze dell’ordine, hanno il massimo rispetto», ha detto la procuratrice capo, Grazia Pradella.

Nonostante le rassicurazioni della procura, come si può notare dalle accuse e dal contenuto dell’ordinanza, l’inchiesta coinvolge inevitabilmente i sindacati di base e i loro metodi in un territorio in cui il settore della logistica è cresciuto in maniera incontrollata, spesso a scapito dei diritti dei lavoratori.

Uno dei limiti più significativi delle indagini, secondo i sindacati e gli avvocati della difesa, è proprio la mancanza del contesto e dei problemi segnalati in anni di lotte e denunce. L’evoluzione del settore della logistica in provincia di Piacenza è importante per capire come e perché si siano sviluppate le proteste al centro dell’inchiesta. In sintesi, il fatto che la logistica fosse un settore completamento non regolato e dove erano poco presenti i sindacati confederali ha reso particolarmente difficile per i sindacati di base ottenere diritti anche minimi per i lavoratori. Questo ha fatto sì che i sindacati di base abbiano fatto ricorso a metodi più radicali di lotta politica, a volte controversi e illegali, ma anche ad alcuni sistemi legali di autofinanziamento che la procura sostiene siano una prova del reato di associazione a delinquere.

Piacenza è uno dei territori con la più alta concentrazione di magazzini della logistica, dove oggi lavorano circa 10mila persone. È in una posizione strategica, al centro della pianura padana: da qui si può spostare in breve tempo una grande quantità di merce in molte regioni italiane. Grazie a persone, mezzi, infrastrutture, magazzini e software, centinaia di migliaia di pacchi ordinati online arrivano quotidianamente nelle case, nel giro di pochi giorni e in alcuni casi in poche ore dall’ordine. I servizi sono costruiti a misura di consumatore, con alle spalle una rete di magazzini sempre più estesa e un sistema di consegne efficiente e veloce. Ogni passaggio è controllato per rispettare i tempi stabiliti e garantire la soddisfazione del cliente.

Dalla metà degli anni Novanta a Piacenza, come nel resto dell’Emilia-Romagna, in Lombardia e in Veneto, la logistica è cresciuta in modo notevole e senza controlli, le condizioni ideali per favorire lo sfruttamento dei lavoratori, prevalentemente stranieri.

L’organizzazione imprenditoriale è basata quasi esclusivamente sul ricorso a cooperative, un sistema poco trasparente di appalti e subappalti in cui la precarietà è strutturale: lo scioglimento dei contratti e gli improvvisi cambi di appalto, resi noti con pochissimo preavviso, ancora oggi sono modi per ricattare i lavoratori ed evadere le tasse.

Spesso gli stipendi vengono pagati in parte con indennità di trasferta, esente da tasse, senza che il lavoratore si sia mai spostato dal magazzino. Oppure si ricorre al metodo del falso part time: su dieci o dodici ore al giorno lavorate, in busta paga ne compaiono quattro o cinque e il resto viene pagato in nero.

Nella catena degli appalti le responsabilità sociali sono diluite e i lavoratori sono più deboli, con poche possibilità di rivendicare i propri diritti. Tutto questo, però, nelle carte della procura non c’è, come non c’è alcun riferimento all’Ispettorato Nazionale del Lavoro nelle indagini.

«Le cooperative hanno avuto almeno 15 anni per fare quello che volevano, fino a quando non sono arrivati i sindacati di base», dice Gianni Boetto, segretario dell’ADL Cobas, sindacato di base tra i primi a entrare nei magazzini della logistica insieme al SI Cobas. «Ogni due anni le cooperative sparivano, cancellavano tutto e mandavano a casa i lavoratori senza che lo stato potesse fare nulla. Le condizioni di lavoro erano assurde: mandavano messaggi per convocare i lavoratori giorno per giorno, c’erano telecamere per controllare ogni movimento, i bagni non esistevano. Era un mondo marcio e siamo orgogliosi di averlo trasformato con le nostre lotte, anche se c’è ancora molto da fare».

– Leggi anche: La logistica in Emilia-Romagna si regge sullo sfruttamento dei lavoratori

Dal 2012, a Piacenza, è iniziata una serie di proteste e rivendicazioni che hanno interessato quasi tutti i magazzini. I sindacati di base hanno raccolto e diffuso l’urgenza di dignità e diritti manifestata da migliaia di lavoratori stanchi di caporalato, salari bassi e pessime condizioni di lavoro. Gli sforzi per cambiare le cose sono stati condotti con azioni molto dure e in alcuni casi considerate illegali. Oltre a scioperi e picchetti, ci sono stati blocchi delle merci, proteste sui tetti, occupazioni, chiusure degli stabilimenti e “scioperi bianchi”, cioè il rallentamento del lavoro pur senza dichiarazione di sciopero.

La tensione è cresciuta con la morte di Abd Elsalam Ahmed Eldanf, sindacalista egiziano dell’Usb, ucciso nella notte tra il 14 e il 15 settembre del 2016, investito da un camion. Eldanf si trovava con altri colleghi all’esterno dei cancelli della GLS, in attesa di avere notizie su una riunione tra i sindacati e l’azienda per discutere della mancata assunzione di 13 operai della Seam srl, un’azienda dell’indotto per il carico e scarico merci del corriere, dopo che era stata promessa da tempo la loro stabilizzazione.

Le azioni dei sindacati di base sono state dure, spesso con modalità più radicali di quelle normalmente impiegate dagli altri sindacati, ma che si sono dimostrate in diversi casi efficaci. Negli ultimi anni in provincia di Piacenza sono stati firmati centinaia di accordi tra aziende e sindacati di base: gli stipendi sono aumentati, c’è una percentuale più alta di contratti a tempo indeterminato e sono stati introdotti nuovi benefit come i ticket mensa o i premi di risultato.

Allo stesso tempo, i sindacati confederali, cioè Cgil, Cisl e Uil, hanno continuato a mantenere un ruolo assai marginale nel settore della logistica, di fatto lasciando tutto lo spazio ai sindacati di base.

Molti di questi risultati non sono previsti dal contratto nazionale, ma dalla cosiddetta contrattazione di secondo livello che consente di trovare accordi singoli tra le aziende e i sindacati. «A Piacenza siamo presenti in 53 magazzini, abbiamo 3.500 iscritti e in ogni azienda abbiamo solo cercato di fare accordi per migliorare le condizioni di lavoro», dice Ruben Mongiovì, esponente del SI Cobas di Piacenza. «Il nostro sindacato di base è cresciuto molto negli ultimi anni, non solo a Piacenza: è per questo che stiamo subendo attacchi repressivi».

Una delle conquiste più significative è stata raggiunta nel 2015 e consiste nella firma dell’accordo tra i sindacati di base SI Cobas, ADL Cobas e alcune delle più grandi aziende della logistica per migliorare il vecchio accordo dei sindacati confederali: il punto più importante prevede, in caso di un cambio di appalto, l’obbligo di assumere lavoratori già occupati a parità di condizioni e il passaggio automatico di livello in base all’anzianità.

In questo modo è stata limitata la precarietà e il potere discrezionale dei responsabili delle cooperative.

(ANSA / Pier Paolo Ferreri)

Molte delle azioni di protesta avvenute a Piacenza negli ultimi anni sono state descritte nel dettaglio in decine di pagine dell’ordinanza con cui la procura ha chiesto l’arresto dei sindacalisti. In particolare, vengono citate le proteste organizzate in aziende come GLS, Traconf, Nippon Express, Leroy Merlin, Xpo Logistics e Amazon. Tuttavia, non vengono mai citati i motivi delle proteste, spesso definiti «inesistenti», e in generale le condizioni pessime in cui erano costretti a lavorare facchini e operatori delle cooperative a cui venivano affidati gli appalti.

La maggior parte delle vertenze aperte negli ultimi anni a Piacenza, infatti, si è chiusa a favore dei sindacati di base.

Uno dei casi che trovano più spazio nell’ordinanza è la protesta organizzata alla GLS nel 2019, quando per 15 giorni alcuni sindacalisti dell’Usb occuparono il tetto del magazzino per protestare contro il licenziamento di 33 lavoratori deciso come ritorsione nei confronti degli scioperi organizzati per chiedere migliori condizioni di sicurezza. Nelle carte della procura vengono citati molti dialoghi tra i sindacalisti che avevano organizzato la protesta per dimostrare la presunta inconsistenza delle rivendicazioni. Tuttavia, nell’ordinanza non compare la sentenza della Corte di Appello di Bologna che tra il 2020 e il 2021 ha reintegrato tutti i lavori licenziati, esattamente come richiesto dall’Usb con l’occupazione del tetto.

Una parte significativa delle premesse dell’indagine è dedicata inoltre alle denunce presentate da aziende e cooperative attraverso i loro amministratori o direttori del personale.

In una denuncia, il direttore generale di un’azienda afferma che Scagnelli, uno degli arrestati, e altri rappresentanti di SI Cobas e Usb «hanno estorto con la pressione e la minaccia di blocchi, agitazioni e rivendicazioni, il più delle volte inesistenti, l’accoglimento delle vertenze che riguardavano il nostro fornitore Seam, inducendo la parte datoriale a doversi sedere a tavoli di confronto». In questo caso, come in molte altre denunce contenute nell’ordinanza, le aziende accusano il sindacato di minacciare scioperi per avviare delle trattative, che è esattamente uno dei metodi di qualsiasi sindacato per ottenere migliori condizioni di lavoro.

Tra le dichiarazioni ci sono anche le parole di Giancarlo Bolondi, presidente del consiglio di amministrazione della società Premium Net. La procura riporta la sua testimonianza senza però specificare che Bolondi è stato arrestato nel luglio del 2018 dalla Guardia di Finanza di Pavia nell’ambito dell’operazione chiamata “Negotium” con l’accusa di caporalato, dalla quale è stato assolto in primo grado (assoluzione contro cui la procura ha presentato ricorso), e di frode fiscale per 15 milioni di euro, per cui è stato condannato in primo grado.

Secondo l’accusa, Bolondi è stato a capo, tra il 2012 e il 2018, di una rete di consorzi e cooperative attraverso la quale avrebbe reclutato manodopera in condizioni di sfruttamento, lavoratori tenuti costantemente sotto la minaccia di perdere il lavoro per costringerli ad accettare condizioni diverse rispetto ai contratti nazionali su turni, ferie e riposi.

L’ordinanza non tiene conto nemmeno delle tante inchieste che hanno rivelato infiltrazioni della criminalità organizzata nel settore della logistica. Anche qui, come in altre regioni, mafia, camorra e ’ndrangheta sfruttano i sistemi poco trasparenti delle cooperative per riciclare i proventi delle loro attività illegali. Negli ultimi anni ci sono state alcune aggressioni ai sindacalisti da parte di picchiatori assoldati dai clan per impedire gli scioperi e sono state emanate molte interdittive antimafia a diverse aziende per «rischi di condizionamento da parte della camorra».

«È importante che ci sia un controllo capillare su questi datori di lavoro, perché qui stanno arrivando la mafia e la camorra attraverso le cooperative che prendono gli appalti», ha detto a Micromega Paolo Campioni, delegato provinciale dell’Usb di Piacenza. «Sembra assurdo: la procura attaccando noi sta facilitando il lavoro all’illegalità».

In una delle intercettazioni citate nell’ordinanza si parla di un contributo di solidarietà di 150 euro, la “cassa di resistenza”, chiesto ai lavoratori per sostenere le spese per la difesa di Aldo Milani, il coordinatore del SI Cobas, tra gli arrestati, in un procedimento giudiziario per estorsione in cui era stato coinvolto a Modena.

In questo caso la procura spiega che «la vicenda a cui si fa riferimento è quella che ha visto Aldo Milani a processo per estorsione ai danni di un’impresa alla quale costui aveva chiesto l’erogazione di decine di migliaia di euro per alimentare una “imprecisata cassa di resistenza” dietro la minaccia di alimentare il conflitto sindacale». La “cassa di resistenza”, un modello di autosostentamento molto diffuso tra i sindacati di base, viene citata più volte nell’ordinanza come prova di un vantaggio economico personale per Milani.

Nei documenti si cita l’inchiesta per estorsione in cui Milani è stato coinvolto, senza però rendere conto dell’esito. Milani fu arrestato nel 2017 dalla procura di Modena, accusato di aver ricevuto soldi per sospendere le proteste dei lavoratori nella fabbrica Alcar Uno di proprietà della famiglia Levoni.

Durante il processo emerse che in realtà Milani non aveva ricevuto nessuna mazzetta: nel maggio del 2019 era stato assolto per non aver commesso il fatto. La procura aveva presentato ricorso. Nel 2020 la Guardia di Finanza aveva poi sequestrato 90 milioni di euro all’azienda Alcar Uno per evasione fiscale e mancato pagamento dei contributi. «Grazie alle lotte e alle denunce dei sindacati di base, lo stato ha recuperato milioni di euro di tasse e contributi che non venivano pagati», dice Boetto, segretario dell’ADL. «Ci accusano di essere delinquenti e considerano l’attività sindacale come qualcosa di illegale, ma grazie al nostro lavoro abbiamo consentito di scoprire illegalità e soprattutto conquistare condizioni di lavoro dignitose».

Secondo Alessandro Delfanti, sociologo, piacentino, professore all’università di Toronto e autore del libro The Warehouse: Workers and Robots at Amazon (Il Magazzino. Lavoro e robot ad Amazon), in Italia e in particolare in Emilia-Romagna c’è molta più attenzione delle procure e delle forze dell’ordine sull’attività dei sindacati di base rispetto ad altri paesi, nonostante le azioni e le proteste siano molto simili.

Come rilevato dal giornalista Lorenzo D’Agostino, nella sola provincia di Modena tra il 2018 e il 2020 sono stati avviati 480 procedimenti penali contro lavoratori di SI Cobas e Usb che hanno partecipato a proteste davanti alle aziende. Moltissime sono anche le denunce e i procedimenti penali avviati dalla procura di Piacenza, come dimostra l’inchiesta.

«Il caso Piacenza è peculiare perché ha un’anomalia all’interno di un ciclo globale della logistica», ha detto Delfanti in un’intervista alla Libertà. «Gli scioperi, i blocchi, i picchetti sono diventati pane quotidiano nei porti di Rotterdam, Los Angeles, Hong Kong. Insomma, questi metodi di lotta sono diffusi. La caratteristica piacentina sembra essere invece il carico anomalo di denunce, arresti, repressioni che tali lotte si portano poi dietro. Fare pressioni sul datore di lavoro per ottenere condizioni migliori sul contratto di lavoro o “gareggiare” con altri sindacati per avere più tessere è né più né meno il mestiere del sindacato».

All’inizio di agosto, probabilmente il 3, il tribunale del riesame di Bologna sarà chiamato a discutere il ricorso contro le misure cautelari presentato dagli avvocati dei sindacalisti accusati. Negli interrogatori di garanzia i sindacalisti hanno rilasciato spontanee dichiarazioni ricostruendo tutte le principali vertenze e il contesto di sfruttamento e precarietà da cui sono nate.