Il sangue donato è un regalo o un bene?

Nei decenni la risposta a questa domanda è dipesa da variabili storiche, economiche e sociali, e cambia ancora da paese a paese

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Una scena del film del 1992 “Dracula di Bram Stoker”
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Donare il sangue è oggi largamente considerato nella maggior parte dei contesti sociali uno dei più comuni ed esemplari gesti di solidarietà umana. Il fatto stesso che possa essere prelevato, conservato e trasfuso secondo determinate pratiche mediche e disposizioni sanitarie è un fenomeno il più delle volte dato per scontato. Ma non è sempre stato così: donare il sangue è un’attività possibile da tempi relativamente recenti, nella storia dell’umanità, e che nel corso del tempo è stata intesa e descritta in termini variabili e spesso diversi da quelli attualmente prevalenti.

Prima di essere considerato nella maggior parte dei casi un bene comunitario, trattato e gestito attraverso attività stabilmente finanziate dalla collettività o da gruppi privati, il sangue donato è stato considerato il risultato di un atto di generosità individuale collegato a necessità puntuali e specifiche come le guerre, per esempio. In generale, la storia delle donazioni del sangue è strettamente correlata ad altri avvenimenti storici, alle tendenze economiche e ai valori collettivi di volta in volta dominanti, e riflette sia straordinarie capacità umane di ingegno, organizzazione sociale e altruismo che ricorrenti difficoltà nel superare pregiudizi, avidità e negligenza.

L’antropologo inglese Ben Belek, ricercatore specializzato in antropologia medica e sociale presso l’Università Ebraica di Gerusalemme, si è chiesto in un lungo articolo sulla rivista online di antropologia Sapiens quali condizioni storiche, sociali ed economiche abbiano reso possibile tra esseri umani lo scambio di una sostanza indispensabile sia per la vita del singolo individuo che per quella del gruppo sociale di cui fa parte.

Il sangue è stato per lungo tempo un importante oggetto di ricerca antropologica sulle relazioni di parentela, e all’inizio del XX secolo molti antropologi ne studiarono l’alto valore simbolico e metaforico che era in grado di assumere nei diversi contesti culturali. Ma da alcuni decenni, scrive Belek, l’antropologia ha cominciato a concentrarsi sul sangue, e sulle attività connesse alle donazioni e alle trasfusioni, come un fenomeno in grado di rivelare valori etici, priorità politiche e altri aspetti profondi delle società.

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Le prime trasfusioni di sangue umano risalgono al XIX secolo, quando in Europa i medici cominciarono a utilizzarle in caso di perdite di sangue nei pazienti e anche in altri casi. All’epoca, a causa delle limitate conoscenze sul sistema circolatorio e delle strumentazioni e condizioni igieniche poco idonee, molte persone finivano per morire, sia tra i donatori che tra i riceventi.

Una serie di scoperte fondamentali contribuì a rendere le tecniche molto più sicure nei primi anni del Novecento, a cominciare da quella del biologo e fisiologo austriaco Karl Landsteiner sui gruppi sanguigni, che ridusse i rischi di incompatibilità tra donatore e ricevente. Le tecniche di sutura dei vasi sanguigni scoperte poi nello stesso periodo dal chirurgo e biologo francese Alexis Carrel permisero inoltre di praticare con maggiore sicurezza le operazioni chirurgiche e le trasfusioni di sangue dirette, che limitavano il problema della coagulazione.

La singola scoperta più utile per la soluzione di questo problema fu, nel 1915, lo studio del medico americano di origini tedesche Richard Lewisohn sulle proprietà anticoagulanti di determinati additivi, che permettevano al sangue di essere conservato senza rischio di coagulazione per un periodo di tempo utile a praticare trasfusioni a distanza di giorni dal prelievo. Scoperta che rese possibile concepire per la prima volta l’idea stessa di una «banca del sangue», le aree ospedaliere in cui sono custoditi il sangue donato e gli altri emocomponenti derivati necessari per le trasfusioni.

A quel punto, scrive Belek, gli ostacoli da superare rimanevano soltanto di tipo logistico e culturale. Serviva progettare sistemi adeguati per la realizzazione e gestione delle banche del sangue, e soprattutto serviva che le persone cominciassero a considerare le donazioni di sangue un «precetto morale» rivolto alla tutela di un bene più grande di quello individuale. E a favorire questo tipo di predisposizione collettiva contribuirono in maniera determinante le guerre.

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La prima iniziativa di trasfusione di sangue su larga scala, non affidata a donazioni occasionali e competenze mediche limitate come nel caso della Prima guerra mondiale, risale alla Guerra civile spagnola, alla fine degli anni Trenta. A fronte dell’uso sistematico dei bombardamenti aerei e dell’aumento dei rischi per la popolazione civile, furono adottate misure per una fornitura estesa e mobile di unità chirurgiche e servizi trasfusionali che richiedevano continue donazioni di sangue. Servizi che furono in seguito ulteriormente perfezionati nel corso della Seconda guerra mondiale e permisero di salvare migliaia di vite.

Ricordando che la Croce Rossa negli Stati Uniti cominciò a raccogliere sangue a livello nazionale per uso militare nel 1941, Belek scrive che le guerre, oltre che migliorare i sistemi logistici, conferirono alle donazioni di sangue una potente «sfumatura morale»: donare sangue «non era più visto come un atto di generosità individuale ma come un modo per essere parte di una organizzazione sociale collettiva».

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Nei decenni successivi diversi paesi tra cui Regno Unito, Francia e Italia mantennero anche dopo le guerre un sistema centralizzato e basato sull’altruismo dei donatori. In altri paesi, tra cui soprattutto gli Stati Uniti, emerse invece un sostanziale decentramento dell’economia del sangue e una progressiva ridefinizione del sangue da risorsa pubblica a merce comprata e venduta da soggetti privati. A favorire in particolare negli anni Sessanta la nascente industria del plasma – la parte liquida del sangue – fu la scoperta di nuove tecniche come la plasmaferesi e nuovi farmaci a base di concentrati liofilizzati di plasma per l’emofilia, una malattia che causa un difetto nella coagulazione del sangue.

Negli Stati Uniti – a differenza di altri paesi come l’Italia – è permesso alle aziende remunerare le persone per i prelievi di sangue, finalizzati in particolare alla raccolta di plasma. Dal 2005 al 2019, il numero di centri di raccolta del plasma è più che raddoppiato, e le vendite globali sono quasi quadruplicate dal 2000 al 2017, superando un volume complessivo annuo di 21 miliardi di dollari. In alcune aree povere, in particolare lungo il confine con il Messico, la remunerazione media per circa mezzo litro di plasma è di 10 dollari ma sono previsti vari incentivi, tra cui uno per chi invita amici o familiari a vendere il proprio plasma alla stessa azienda.

Lo sviluppo di una fiorente industria del sangue fu anche storicamente responsabile di un abbassamento degli standard igienici e di sicurezza sanitaria, ricorda Belek, come attestato da casi clamorosi come quello della raccolta di plasma in alcune carceri statunitensi negli anni Sessanta. In una prigione nella contea di Lincoln in Arkansas, nel 1963, un controverso programma di raccolta del sangue cominciò a offrire a detenuti privi di altre fonti di reddito una remunerazione di 7 dollari per circa mezzo litro di sangue. Sangue che poi il carcere rivendeva per oltre 200 dollari al litro.

A causa di controlli poco rigorosi e gestioni disattente della raccolta del plasma, un’epidemia di epatite si diffuse in tutte le carceri che avevano aderito al programma. E successivamente si estese ad altre aree rifornite dalle aziende coinvolte nel programma, che per ridurre le spese avevano riunito il plasma raccolto da migliaia di donatori. Qualcosa di simile avvenne anche negli anni Ottanta, quando l’HIV (il virus collegato all’AIDS) infettò molte scorte di sangue e di plasma poi utilizzato per produrre farmaci per soggetti emofiliaci, provocando un’estesa epidemia di AIDS in quella popolazione.

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Lo studioso britannico Richard Titmuss, considerato il fondatore dell’amministrazione sociale come disciplina accademica e primo docente in materia presso la London School of Economics, condusse negli anni Sessanta una famosa serie di studi comparativi sui diversi sistemi di donazione del sangue, i cui risultati confluirono poi nel suo libro più importante, The Gift Relationship: From Human Blood to Social Policy.

Titmuss definì i sistemi in cui il sangue era considerato e gestito come un bene pubblico, donato gratuitamente e distribuito dallo stato sociale, più sicuri, efficienti ed economicamente sostenibili dei sistemi in cui, come negli Stati Uniti, la raccolta era in larga parte affidata al settore privato. Il libro ottenne molto successo e avviò una serie di discussioni pubbliche e successive regolamentazioni più rigide del mercato del sangue negli Stati Uniti. Regolamentazioni da cui rimase tuttavia esclusa la maggior parte delle attività legate alla raccolta di plasma, ricorda Belek.

L’industria mondiale del plasma vale oggi circa 24 miliardi di dollari, e la domanda continua a superare l’offerta. In Italia, secondo dati recentemente diffusi dal Centro Nazionale Sangue, i donatori di sangue e di plasma nel 2021 sono stati 1.653.268, un dato superiore rispetto a quello dell’anno precedente ma inferiore rispetto a prima della pandemia (-1,8% rispetto al 2019). Secondo l’allora direttore generale di Avis Milano Sergio Casartelli, nel 2018 le persone potenzialmente idonee a donare il sangue per età e salute in Italia erano 28-29 milioni.

Da un punto di vista antropologico, afferma Belek, quale che sia il modo di considerare le donazioni di sangue – una forma di beneficenza, uno scambio commerciale, un dovere civico, un atto di solidarietà – quel modo varia a seconda dei contesti nazionali e culturali. E il valore che viene attribuito al sangue è lo stesso che guida le azioni politiche nelle decisioni in materia, che riflette o rafforza i pregiudizi esistenti e che, in definitiva, «determina le norme che regolano chi può donare il sangue, chi sarà curato con esso e in quali circostanze».

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Se la regolamentazione dell’industria del sangue ha comportato in molti paesi un miglioramento della qualità e della sicurezza dei servizi trasfusionali, conclude Belek, in alcuni casi ha anche comportato forme di discriminazione e pregiudizi. Ad alcune persone, per esempio, è stato vietato o è vietato ancora oggi donare il sangue sulla base dei loro orientamenti sessuali: divieto rimosso in Italia nel 2001 e soltanto di recente in paesi come Francia e Canada, e che secondo diverse autorità ed esperti non ha più senso perché le procedure di screening del sangue donato sono oggi molto più affidabili di un tempo.