Il ritardo tra comparsa dei sintomi e test positivo

In questa fase della pandemia molti segnalano di essersi ammalati di Covid, ma di avere avuto per giorni test negativi

(AP Photo/Mahmoud Illean)
(AP Photo/Mahmoud Illean)
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Come hanno potuto sperimentare milioni di persone contagiate negli ultimi mesi dal coronavirus, la diffusione delle sottovarianti di omicron è corrisposta a un sensibile cambiamento della pandemia in molte aree del mondo. I casi di COVID-19 portano più difficilmente a sintomi gravi tra le persone vaccinate, e il decorso verso la guarigione avviene con maggiore velocità, specialmente nelle persone meno a rischio. In molti si sono però accorti di una stranezza rispetto ai primi periodi della pandemia: in alcuni casi si iniziano ad avere sintomi prima di risultare positivi ai test, e in particolare a quelli antigenici.

Le segnalazioni di persone che avevano sviluppato sintomi, risultando però negative agli antigenici, sono aumentate nelle ultime settimane, con medici ed esperti che stanno provando a capire quali possano essere le cause. La dimensione del fenomeno è difficile da stimare, soprattutto perché in molti paesi (Italia compresa) sono sempre meno le persone che si sottopongono ai test ufficiali che vengono poi tracciati dalle autorità sanitarie, ormai sostituiti dagli antigenici fai-da-te ritenuti più pratici. Senza contare chi decide di non sottoporsi ad alcun tipo di test o magari non si accorge nemmeno di essere stato contagiato, perché asintomatico.

Diventare positivi ai test in ritardo, rispetto alla comparsa dei sintomi, potrebbe però avere qualche ripercussione nel contenimento dei contagi, anche in vista della prossima stagione invernale, quando torneremo a trascorrere molto più tempo al chiuso dove il rischio di contagio è più alto. Per questo i gruppi di ricerca vorrebbero comprendere meglio il fenomeno, in modo da poterlo gestire nel caso in cui diventasse la norma in vari paesi.

Come hanno spiegato vari esperti, medici e ricercatori all’Atlantic, le cause potrebbero essere varie e probabilmente sono una combinazione del modo in cui si è formata l’immunità al coronavirus tra la popolazione, dei modi in cui il virus è mutato e del comportamento dei singoli, specialmente ora che quasi tutti i governi hanno deciso di togliere quasi tutte le limitazioni, soprattutto in Occidente.

Un’ipotesi molto discussa è che i sintomi precedano il risultato positivo ai test non tanto perché il coronavirus sia diventato “a scoppio ritardato”, ma semplicemente perché la malattia inizia prima o, per dirla meglio, il sistema immunitario si attiva molto più velocemente contro il virus. Con molte malattie respiratorie, la comparsa dei primi sintomi – come naso che cola, dolori muscolari, spossatezza e un po’ di febbre – deriva dall’attivazione del sistema immunitario, la cui risposta iniziale e meno mirata consiste di solito nel causare un’infiammazione, in modo da rendere il nostro organismo meno ospitale a una minaccia da poco rilevata, come appunto un virus.

All’inizio della pandemia, i contagi avvenivano esclusivamente tra persone che non avevano mai subìto un’infezione da SARS-CoV-2 e che non erano vaccinate (semplicemente perché i vaccini contro quel tipo di coronavirus ancora non esistevano): in molti casi, il virus poteva agire indisturbato per diversi giorni nell’organismo, prima che l’infezione fosse tale da essere rilevata dal sistema immunitario, che aveva poi poche conoscenze per affrontarla. A due anni di distanza, la maggior parte della popolazione è vaccinata o è stata comunque esposta direttamente al coronavirus, di conseguenza la reazione immunitaria avviene più rapidamente e può portare a casi in cui si hanno sintomi, ma non si risulta positivi a un test antigenico, magari perché la carica virale non è ancora sufficiente rispetto alla sensibilità del test (con i test molecolari il problema si presenta meno di frequente perché sono più sensibili).

Non tutti sono però convinti da questa spiegazione, perché sono comunque stati segnalati casi di persone non immunizzate (da vaccino o precedente infezione) che hanno sviluppato i sintomi prima di risultare positive. Un’altra ipotesi è che le sottovarianti di omicron sfuggano più facilmente ai test antigenici nelle fasi iniziali della malattia. Alcuni studi hanno rilevato un minore accumulo delle particelle virali nelle cellule del naso, rispetto ad altre varianti come delta, e questo potrebbe rendere più probabili i falsi negativi perché durante il prelievo con tampone non si raccoglie una quantità sufficiente per risultare positivi al test.

Un’ulteriore difficoltà è data dalla tipologia dei sintomi, meno specifica rispetto a quanto rilevato con le infezioni causate dalle precedenti varianti. Ormai è raro che le persone positive manifestino sintomi come l’incapacità di riconoscere odori e sapori, così come problemi respiratori più gravi. In alcuni casi la malattia viene quindi confusa con altro, come un comune raffreddore o un’allergia, e non si può inoltre escludere che in alcuni casi i sintomi siano dovuti effettivamente ad altro, con solo una successiva infezione da coronavirus che viene poi rilevata con la ripetizione dei test.

È stata inoltre rilevata una riduzione nel periodo di incubazione, con la comparsa dei sintomi anche solo dopo tre giorni dall’esposizione a omicron, un tempo inferiore rispetto ai cinque-sei giorni delle varianti in circolazione all’inizio della pandemia. Non è però ancora chiaro se questa accelerazione derivi solamente dalle diverse caratteristiche di omicron o da diverse modalità di reazione del sistema immunitario.

Ci sono poi altri aspetti da tenere in considerazione, legati al comportamento dei singoli. Il maggior ricorso ai test fai-da-te rispetto a quelli in farmacia può incidere sulla qualità dei risultati: non tutti introducono i tamponi nelle narici a una profondità sufficiente, o seguono le indicazioni sui tempi di prelievo da ogni narice. Inoltre, specialmente nel caso di sintomi lievi, molte persone potrebbero non ricordare esattamente il momento della loro comparsa, facendo confusione su quando siano diventate sintomatiche e il momento in cui hanno effettuato un test antigenico.

È da questa grande varietà che deriva la difficoltà nel valutare l’effettiva estensione del fenomeno. La raccolta di una maggiore quantità di dati, sia tra la popolazione sia in laboratorio, potrebbe aiutare a stimare meglio la frequenza dei casi positivi a scoppio ritardato.

Maggiori informazioni potrebbero portare a un cambiamento delle indicazioni sull’isolamento e le cautele da assumere, magari in vista della prossima stagione fredda. La comparsa di sintomi compatibili con la COVID-19 per come la conosciamo ora dovrebbe essere giudicata sufficiente per assumere maggiori cautele, verso se stessi e gli altri, anche in caso di un primo tampone negativo e in attesa di effettuarne un altro ad almeno 24 ore di distanza.

Secondo l’ultimo rapporto dell’Istituto superiore di sanità (ISS), tra il 3 e il 9 giugno l’incidenza settimanale è stata di 222 casi positivi ogni 100mila abitanti, in lieve aumento rispetto ai 207 casi della settimana precedente. Il tasso di occupazione delle terapie intensive dei malati di COVID-19 è intorno al 2 per cento, ben al di sotto della soglia di attenzione del 10 per cento stabilita dal ministero della Salute. Sulla rilevazione dei casi positivi incide comunque la notevole riduzione dei tamponi effettuati, sia antigenici sia molecolari.