Perché Tutankhamon esercita così tanto fascino

Una tomba bellissima e una storia adattata a varie sensibilità resero un faraone poco importante uno dei più famosi di tutti

La maschera di Tutankhamon esposta durante una mostra al British Museum di Londra, 28 marzo 1972 (Fox Photos/Hulton Archive/Getty Images)
La maschera di Tutankhamon esposta durante una mostra al British Museum di Londra, 28 marzo 1972 (Fox Photos/Hulton Archive/Getty Images)
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A quasi cento anni dalla scoperta della sua tomba, Tutankhamon è probabilmente il faraone più famoso e citato di tutti, entrato nella cultura di massa attraverso decine di documentari, mostre, libri e serie tv. Intorno alla sua figura, nel corso del Novecento, è nato un mito che non ha mai davvero conosciuto una fase declinante, anzi: in occasione del centenario della scoperta della tomba, che sarà il prossimo 4 novembre, c’è stata una nuova ondata di interesse che ha portato a nuove mostre, articoli e documentari.

Ma come ha scritto di recente Casey Cep sul New Yorker, è strano che un faraone come Tutankhamon eserciti un fascino così trasversale e globale, visto che governò durante un periodo di tempo relativamente breve e ininfluente rispetto ai tremila anni di storia egizia. «Immaginate se nel 4850 il mondo conoscesse gli Stati Uniti principalmente attraverso la presidenza di Millard Fillmore», scrive Cep, riferendosi a un presidente poco conosciuto di metà Ottocento. In termini italiani: è un po’ come se tra tremila anni la Repubblica italiana venisse ricordata attraverso la figura di Giovanni Goria, presidente del Consiglio per otto mesi tra il 1987 e il 1988 e morto prematuramente nel 1994.

Buona parte della fama di Tutankhamon si deve al modo e al periodo in cui la sua tomba fu scoperta, e alla leggenda sulla “maledizione” creata ad arte subito dopo, una sorta di trovata promozionale dell’epoca. Ma c’entrano anche lo stato di conservazione della tomba, la preziosità del sarcofago e la storia stessa di Tutankhamon, diventato faraone a otto anni e morto giovanissimo circa dieci anni dopo: non è un caso che sia stato innumerevoli volte protagonista di libri per bambini e per ragazzi.

La tomba di Tutankhamon fu scoperta grazie al lavoro di Howard Carter, un artista che si reinventò archeologo, e del suo finanziatore, George Herbert, quinto conte di Carnarvon. Carter in gioventù era stato assistente di un egittologo e poi, dal 1899 al 1905, ispettore capo al ministero della Cultura egiziano. Quando conobbe Carnarvon, questi decise di affidargli nuovi scavi archeologici che avrebbe finanziato lui stesso.

Carter concentrò i propri lavori nella valle dei Re, l’area che si trova vicino a Luxor (Tebe, in antichità) e che per quasi cinque secoli fu utilizzata dagli egizi per le sepolture dei loro sovrani. L’obiettivo era proprio quello di trovare la tomba di un faraone, ma i primi anni furono poco fruttuosi e le ricerche si interruppero a causa della Prima guerra mondiale, per poi riprendere con maggiore continuità nel 1917. Durante gli scavi, Carnarvon e Carter sfruttarono notevolmente la manodopera locale, assumendo per gli scavi anche bambini.

Carnarvon spese molto denaro, ma gli anni passavano e i risultati di Carter non erano soddisfacenti: aveva trovato sessantuno tombe spoglie e dal contenuto poco entusiasmante. Così, nel 1922, Carnarvon decise di finanziare un’ultima sessione di scavi.

Carter intensificò le proprie ricerche e il 4 novembre del 1922 trovò, insieme ai suoi collaboratori, i gradini che portavano alla tomba di Tutankhamon. Ventidue giorni dopo, Carter aprì una piccola breccia in presenza di Lord Carnarvon nella via di accesso alla tomba, scoprendo che non era stata depredata e che il corredo funebre del faraone era sostanzialmente intatto. Secondo il racconto che Carter fece in un libro di memorie pubblicato successivamente, mentre apriva la breccia Carnarvon gli chiese: «Riesci a vedere qualcosa?», e lui rispose: «Sì, cose meravigliose!». Ma sembra che questo dialogo efficacissimo a livello narrativo sia frutto dell’immaginazione di un suo amico che glielo suggerì, e infatti sui suoi diari originali aveva riportato una versione un po’ diversa.

Howard Carter esamina il sarcofago di Tutankhamon (AP Photo/File)

Ad ogni modo, la sepoltura e il sarcofago di Tutankhamon colpirono questi primi visitatori dopo secoli: vennero trovati bracciali di lapislazzuli, anelli di giada, decorazioni in pasta di vetro, in oro massiccio e in argento, per non parlare dell’arredamento e delle suppellettili, tra cui un ventaglio di piume di struzzo, strumenti musicali, otri di vino e birra, armature di cuoio. Il “tesoro di Tutankhamon”, come venne poi chiamato, non ha rivali perché la sua tomba fu una delle pochissime a essere stata ritrovata sigillata, intatta, in un periodo peraltro in cui l’attenzione dei paesi europei nei confronti delle aree archeologiche greche e mediorientali era particolarmente alta.

Il mito intorno a queste ricchezze e di conseguenza intorno allo stesso Tutankhamon nacque dopo poco, anche grazie alle fotografie di Harry Burton, archeologo inglese che durante gli scavi si trovava lì per conto del Metropolitan Museum of Art di New York. Le immagini in bianco e nero di Burton fecero il giro del mondo e ispirarono il design di gioielli e accessori, canzoni e film.

Quando a metà degli anni Venti un’autopsia arrivò alla conclusione che il faraone trovato nella tomba era morto da adolescente, il mito di Tutankhamon si trasformò assumendo contorni malinconici, adattandosi allo spirito di una generazione europea che aveva visto morire milioni di giovani soldati nella Prima guerra mondiale. «Le ricchezze una volta trionfanti del ragazzo re ora apparivano tragiche, la sua maschera un memento mori non solo per gli individui ma per intere civiltà, che a prescindere dalla loro potenza sembravano destinate a cadere», ha scritto Casey Cep sul New Yorker.

Tuttavia, in altri contesti, il mito di Tutankhamon venne declinato in modi molto diversi. In Egitto, per esempio, diventò il simbolo della rinascita e dell’autodeterminazione rispetto ai paesi europei colonizzatori; negli Stati Uniti, gli artisti afroamericani degli anni Venti e Trenta lo citavano come parte del loro patrimonio culturale in quanto parte della storia africana, e la National Association for the Advancement of Colored People mise Tutankhamon in copertina della sua rivista mensile.

Secondo Casey Cep, «ogni generazione ha trovato la propria ragione per raccontare la storia di Tutankhamon», che in anni recenti è stata trasformata persino in una specie di true-crime, perché le cause della morte non furono mai chiarite (si sono fatte varie ipotesi che vanno dalla malaria alla sindrome di Marfan). Tuttavia, questo interesse di lunga durata intorno a Tutankhamon non ha aumentato molto la conoscenza collettiva in ambito egittologico.

«Ammiriamo la bellezza della maschera di Tutankhamon senza saperne nulla del modo in cui è stato violato il suo corpo» scrive Cep. «Esponendo il cadavere avvizzito del faraone al sole per scioglierlo e poi spezzando gli arti per rimuovere i gioielli. I visitatori possono andare alla sua tomba e vedere ciò che ne rimane, fissando una specie di bella addormentata in una bara di vetro, ma la maggior parte di loro non sa nulla della città contemporanea di Luxor. Fino a poco tempo fa, molti egittologi lavoravano senza neanche sapere un po’ di arabo».

Alcuni vuoti nello studio della storia sono inevitabili, aggiunge Cep, ed è vero che la popolarità di Tutankhamon, specie tra i bambini, è alimentata da una «prolifica macchina culturale». Ma «non è sorprendente che la loro attenzione sia catturata da un ragazzo morto avvolto in bende di lino, seppellito con tesori senza limiti, scoperto secoli dopo», e non è neanche un problema: piuttosto che dare meno attenzioni a Tutankhamon, scrive Cep, dovremmo rendere la sua storia «e l’intero campo dell’egittologia più degni dell’attenzione che già stiamo dando loro».

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