Tutti gli imputati che erano stati condannati per il sequestro di Alma Shalabayeva sono stati assolti in appello

Alma Shalabayeva durante una conferenza stampa a Parigi nel 2016 (AP Photo/Thibault Camus)
Alma Shalabayeva durante una conferenza stampa a Parigi nel 2016 (AP Photo/Thibault Camus)

Giovedì la Corte d’appello di Perugia ha assolto, ribaltando la sentenza di primo grado, Renato Cortese e Maurizio Improta, rispettivamente ex capo della Squadra mobile della polizia di Roma ed ex dirigente dell’ufficio immigrazione, che a ottobre del 2020 erano stati condannati a cinque anni di carcere per aver sequestrato nel 2013 Alma Shalabayeva, moglie di un dissidente kazako. Assieme a Cortese e Improta sono state assolte anche le altre cinque persone che erano state condannate con loro (quattro poliziotti e una giudice di pace). Il giudice della Corte d’appello ha ribaltato la dura sentenza di primo grado sostenendo che «il fatto non sussiste».

Il caso risale al 29 maggio 2013: Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, fu prelevata insieme alla figlia dalla polizia, nella sua casa di Casalpalocco, a Roma, e fu imbarcata su un aereo ed espulsa dall’Italia. La polizia in realtà cercava Ablyazov, nei confronti del quale era stato emesso un mandato d’arresto internazionale, ma la moglie e la figlia furono estradate rapidamente con un volo privato con l’accusa di possesso di passaporto falso. I poliziotti che portarono avanti l’operazione furono condannati in primo grado per sequestro di persona e per falso ideologico: il caso, intricato, attirò molta attenzione e l’espulsione, giudicata immotivata, causò le dimissioni del capo di gabinetto del ministero dell’Interno Giuseppe Procaccini e una mozione di sfiducia per il ministro Angelino Alfano, che però venne bocciata.

Il giudice della Corte d’appello di Perugia ha 90 giorni per depositare le motivazioni della sentenza, e dunque per ora non è possibile conoscere con precisione le ragioni dell’assoluzione. Negli scorsi mesi era tuttavia emerso che, al momento della sua espulsione dall’Italia, Shalabayeva era effettivamente in possesso di un documento falso, non aveva i documenti necessari a soggiornare regolarmente in Italia e non risultava beneficiaria di asilo politico, status che le fu riconosciuto solo nel 2014, quando nel frattempo era tornata in Italia. Se le motivazioni della sentenza fossero queste, significherebbe che il tribunale d’appello si è concentrato sugli aspetti procedurali e ha ridimensionato quelli politici, cioè il fatto che quando fu espulsa Shalabayeva era la moglie di un importante dissidente contro un regime autoritario.