Il ritrovamento dello scarpone del fratello di Messner sul Nanga Parbat

È un’ulteriore conferma della sua versione sulla morte di Günther, di cui fu accusato per anni

Il Nanga Parbat. (AP Photo/Musaf Zaman Kazmi)
Il Nanga Parbat. (AP Photo/Musaf Zaman Kazmi)

Un vecchio scarpone ritrovato da alcune persone del luogo sul ghiacciaio Diamir, sul versante nord-ovest della montagna pakistana del Nanga Parbat, ha dato un’ulteriore conferma alla versione dell’alpinista altoatesino Reinhold Messner su come andò la famosa spedizione del 1970 in cui morì suo fratello Günther. Quello scarpone è infatti di Günther, e secondo Messner il fatto che sia stato ritrovato in quel punto ribadisce che suo fratello morì quasi alla fine della discesa, e non vicino alla cima come sostenne chi per anni lo accusò di averlo abbandonato per portare a termine un’impresa che lo avrebbe reso famoso. Nel 2005 era già stato scoperto poco lontano il corpo di Günther, senza una scarpa, in un ritrovamento che aveva chiarito molti dubbi su una delle più note polemiche della storia dell’alpinismo mondiale.

 

Visualizza questo post su Instagram

 

Un post condiviso da Reinhold Messner (@reinholdmessner_official)

«Mi hanno dato del fratricida, mi hanno accusato della cosa più orribile: aver abbandonato mio fratello per arrivare da solo in cima» ha detto Messner in un’intervista a Repubblica commentando il ritrovamento dello scarpone, che è sicuramente di Günther perché fu realizzato appositamente per la spedizione. «Ma ora non conta più niente. Io ho perso un fratello 52 anni fa: Günther aveva solo 24 anni ed è rimasto vivo e giovane nella mia testa e nel mio cuore, in quello della mia famiglia e di tutta l’Italia che ci vuole bene e che ci è stata accanto in questi 50 anni di sofferenza».

La storia dell’alpinismo del Novecento è segnata da diverse grosse e famose polemiche, che coinvolsero di volta in volta alpinisti, giornalisti, scrittori e storici. Una delle più note è quella che riguardò la spedizione italiana sul K2 del 1954, dopo la quale il giovane Walter Bonatti, che sarebbe poi diventato amico e mentore di Messner, fu accusato dall’alpinismo “istituzionale” di essersi comportato irresponsabilmente per ambizione personale, rischiando di far fallire la scalata. Bonatti impiegò decenni a veder riconosciuta la sua versione: era successo proprio il contrario, e i più famosi e stimati compagni di salita Achille Compagnoni e Lino Lacedelli avevano messo a repentaglio la vita sua e dell’hunza Amir Mahdi per arrivare in cima da soli.

Spesso insomma alpinisti famosi coinvolti in tragedie in montagna sono stati accusati di aver mentito su quanto successo e di aver avuto colpe o responsabilità nelle morti dei loro compagni o nel fallimento delle loro spedizioni. Quella dei Messner sul Nanga Parbat è forse la più famosa e raccontata vicenda di questo tipo.

Nel 1970 Reinhold Messner aveva 26 anni e si era già fatto conoscere per alcune grandi scalate sulle Alpi, distinguendosi per il suo approccio “purista” alla montagna, sostenendo l’arrampicata libera, cioè aiutata solo dall’attrezzatura per assicurarsi alle pareti, in luogo di quella “artificiale”, che cioè ricorreva a scale e arpioni anche per aiutarsi nella progressione. Decise quindi di cimentarsi sugli ottomila dell’Himalaya seguendo la stessa filosofia, che in questo caso prevedeva la rinuncia a gran parte dei portatori e all’utilizzo delle bombole di ossigeno.

Il suo carattere brusco e forte, le sue convinzioni e la rapidità della sua ascesa però contribuirono nel corso della sua carriera a renderlo malvisto in alcuni ambienti dell’alpinismo, e protagonista di intense rivalità e inimicizie specialmente in Germania.

Il Nanga Parbat è alto 8.126 metri e si trova interamente in Pakistan, tecnicamente né nell’Himalaya né nel Karakorum. Era già stato salito due volte, la prima nel 1953 da Hermann Buhl, ma nessuno aveva mai scalato l’enorme parete Rupal, sul versante sud-orientale. Messner fu invitato insieme a suo fratello Günther a unirsi a una spedizione guidata dal tedesco Karl Maria Herrligkoffer, che aveva già gestito la prima ascensione di Buhl. Era una missione imponente e costosa, che prevedeva l’installazione di varie corde fisse per agevolare la scalata di alcuni passaggi.

Il 26 giugno la spedizione arrivò all’ultimo accampamento, ma il tempo stava peggiorando e Messner propose di fare un tentativo in solitaria, in quanto alpinista più forte della spedizione, mentre suo fratello e l’alpinista Gerhard Baur avrebbero attrezzato un canalone con una corda fissa per facilitargli la discesa. Il giorno dopo Messner partì, ma fu raggiunto dopo alcune ore dal fratello che aveva deciso di sua iniziativa di unirsi a lui, mentre Baur era tornato indietro perché non si sentiva bene.

Non era una bella situazione: i due fratelli non avevano ossigeno supplementare, cibo né tenda, e arrivarono in cima al Nanga Parbat solo nel pomeriggio, quando era troppo tardi per tornare al campo. Scesero quindi un tratto allestendo un bivacco d’emergenza, senza il materiale, mentre Günther iniziava a non stare bene. La mattina dopo i Messner videro che una seconda cordata della spedizione stava salendo verso la cima, ma ebbero problemi a comunicare e valutarono che non fosse possibile raggiungerli per essere soccorsi. Decisero perciò di scendere dal versante opposto, dal ghiacciaio Diamir. Era meno ripido, ma pericolosissimo per le valanghe: si trattava insomma di un’impresa azzardata e molto rischiosa, che peraltro avrebbe rappresentato un altro risultato storico, il primo attraversamento di un ottomila da un versante all’altro.

La sera i due fratelli bivaccarono di nuovo, ma il giorno seguente, dopo essersi rimessi in cammino verso valle, Reinhold perse di vista Günther, quasi sicuramente travolto da una valanga.

Messner raccontò poi di aver cercato il fratello per ore, senza trovarlo. Ripresa la discesa, fu soccorso da alcuni abitanti locali che lo portarono giù: ritrovò il resto del gruppo giorni dopo, quando ormai stava per tornare a casa avendoli dati entrambi per morti. Il fatto che Messner fosse sopravvissuto era stupefacente: delirante dopo tre notti passate all’addiaccio sulla montagna, aveva gran parte delle dita congelate, e dovette subire l’amputazione parziale di alcune di quelle dei piedi. Questo peraltro concluse la sua brillante carriera da arrampicatore su roccia.

Ma gli strascichi peggiori della spedizione in cui aveva perso il fratello non furono quelli fisici.

Herrligkoffer fu criticato per non aver cercato i Messner sul ghiacciaio Diamir, e lui si difese accusando Reinhold di aver abbandonato il fratello Günther durante la salita, per l’ostinazione e l’ambizione di raggiungere la vetta del Nanga Parbat. Le accuse ebbero ampia risonanza sui giornali, che all’epoca raccontavano con trasporto ed enfasi le imprese degli alpinisti europei sulle Alpi e sull’Himalaya.

Per decenni Messner pagò gli abitanti del luogo per cercare il corpo di suo fratello, e più volte ci andò di persona, convinto che sarebbe stato ritrovato in un luogo che avrebbe confermato la sua versione: aveva accompagnato il fratello fino quasi al fondo del ghiacciaio, ma in un momento in cui era avanzato da solo per verificare la via da seguire era scomparso travolto da una valanga di cui vide anche i segni. Lo cercò per un giorno e una notte, senza ritrovarlo.

Fu soprattutto all’inizio degli anni Duemila, in occasione della pubblicazione di alcuni libri e delle relative interviste e presentazioni pubbliche, che si riaccesero le polemiche e che si fecero particolarmente infamanti le accuse tra Messner e i compagni di quella spedizione.

Gli alpinisti Hans Saler e Max von Kienlin scrissero dei libri in cui di fatto lo accusarono di aver abbandonato il fratello prima di raggiungere la vetta del Nanga Parbat o, in alternativa, appena cominciata la discesa, per completare da solo la traversata e ottenere la gloria personale. Saltarono fuori i vecchi diari personali di von Kienlin, che Messner sostenne fossero contraffatti, che attribuivano a Messner una grande determinazione a compiere la traversata, espressa secondo i suoi compagni di spedizione già giorni prima dell’incidente. Alle loro accuse si unì Baur, e si accavallarono le ricostruzioni di cosa successe in quelle ore confuse e concitate. Messner smentì sempre queste ricostruzioni, ricordando che non aveva con sé nemmeno una mappa e che prima di scendere dall’altra parte urlò per ore agli altri due compagni che stavano salendo dopo di lui, provando ad attirare la loro attenzione.

L’intero intreccio di accuse era reso peraltro più opaco e controverso dalle vicende personali tra le persone coinvolte: dopo la spedizione, Messner si fidanzò infatti con l’allora moglie di von Kienlin, Uschi Demeter, che sposò alcuni anni dopo. Le rivalità e gli asti interni all’alpinismo tedesco contribuirono a rendere più incancrenita la polemica.

Messner è stato sostanzialmente l’alpinista più famoso della storia e fu sempre visto da molti come arrogante e superbo: secondo varie opinioni in tanti desideravano rovinare la sua immagine pubblica. Messner fece causa contro Saler e von Kienlin, ritenendo di essere stato diffamato dai loro libri, e vinse ottenendo che fossero ritirati o emendati.

Nel 2005 infine fu ritrovato a 4.300 metri d’altitudine il corpo di Günther, alla base della parete e senza un piede, cosa che suggeriva che fosse stato travolto dalla valanga davvero quando ormai i due avevano quasi completato la discesa, come sempre sostenuto da Messner. Baur sostenne comunque che il corpo poteva anche essere stato trascinato per migliaia di metri verso il basso dal ghiacciaio, e le polemiche e accuse tra i membri della spedizione proseguirono, ma da quel momento la versione di Messner fu estesamente accreditata dalla maggior parte degli esperti e del mondo alpinistico.

«Adesso lo aspetto qui a Bolzano e lo metteremo al Messner Mountain Museum. Spero che tutti, a cominciare da chi ha provato a conquistare fama e soldi con queste bugie, si mettano l’anima in pace», ha detto Messner a Repubblica riferendosi allo scarpone ritrovato.