(Coca-Cola Italia)

Ci saranno sempre più bottiglie coi tappi attaccati

In Europa diventeranno obbligatori per motivi ambientali e aziende come Coca-Cola li stanno già introducendo, ma risolvono poco

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Nel Regno Unito tutte le bottiglie di plastica di Coca-Cola avranno presto il tappo che rimane attaccato per un lembo, quello che in inglese viene chiamato tethered cap. In Italia Coca-Cola lo usa solo per una bevanda, ma i tappi attaccati si trovano già in alcune bottigliette d’acqua come quelle di San Benedetto, che li ha introdotti nel 2020. Anche Tetra Pak, l’azienda che tra le altre cose produce confezioni di cartone per bevande, ha fatto sapere di star lavorando alla stessa cosa, introducendo in alcuni paesi europei nuovi tipi di tappi che non si disperdano nell’ambiente.

Quella del tappo che non si stacca è una piccola innovazione su cui molte aziende del settore hanno interesse a investire. Innanzitutto perché dal 2024 i tappi fatti in questo modo saranno obbligatori in tutti i paesi dell’Unione Europea, e poi perché introdurre novità per ridurre il proprio impatto ambientale è un messaggio che a livello di marketing funziona quasi sempre molto bene. Meno semplice sarà probabilmente convincere i consumatori, e ancora meno le organizzazioni ambientaliste, che sostengono che per ridurre i rifiuti di plastica si debba fare molto di più.

La direttiva dell’Unione Europea del 2019 sulla riduzione dell’incidenza della plastica nell’ambiente impone che, entro il 2024, tutte le bottiglie di plastica abbiano il tappo che rimane attaccato per poter essere commercializzate. In questo modo sarà più facile che tappo e bottiglia vengano buttati nello stesso momento, auspicabilmente nel bidone della raccolta differenziata. Quello che succede ora – e che si vuole evitare – è che i tappi di plastica finiscano dispersi nell’ambiente: tappi e coperchi sono infatti tra gli oggetti di plastica monouso che inquinano di più le spiagge europee, e sono sempre più un problema per via dei loro lunghi tempi di decomposizione.

Gli esperti di marketing da tempo segnalano anche che i tappi dispersi nell’ambiente possono fare cattiva pubblicità alle aziende, se ne contengono il logo o sono comunque riconoscibili. È uno dei motivi per cui molte si stanno muovendo in anticipo per andare incontro alla nuova normativa.

Nel Regno Unito, Coca-Cola ha già annunciato che introdurrà questi tappi per tutte le bibite, dalla Coca Zero alla Fanta e alla Sprite. In Italia invece i primi esperimenti riguardano solo FuzeTea, una bevanda al gusto di tè prodotta sempre da Coca-Cola. Secondo Cristina Camilli, responsabile della comunicazione e delle relazioni istituzionali per Coca-Cola Italia, ci vorrà un anno e mezzo circa perché i nuovi tappi siano usati in tutte le altre bevande.

Oltre all’investimento in ricerca e sviluppo necessario per portare i tethered cap in tutta Europa, uno degli ostacoli principali per Coca-Cola sarà quello di convincere i consumatori a cambiare le proprie abitudini, superando un’inevitabile quota di scomodità in più, che comprende tra le altre cose possibili graffi alle labbra e il rischio di sbrodolamenti. D’altro canto, i tappi attaccati saranno probabilmente una soluzione molto apprezzata dai genitori di bambini piccoli.

«Per fare innovazione ci vuole tanto lavoro, soprattutto per evitare che i cambiamenti siano di disturbo ai consumatori: vogliamo un’apertura sicura e che eviti sprechi, ma anche che offra un’esperienza di consumo sempre ottimale», racconta Camilli. «In generale tutte le innovazioni nel campo della sostenibilità devono essere fatte guardando anche al consumatore: per questo siamo partiti da FuzeTea, che è una bevanda su cui puntiamo molto e che ha un tappo più grande di Coca-Cola, ma stiamo facendo studi anche sulle altre bottiglie».

Coca-Cola, assieme alla concorrente Pepsi, è tra le multinazionali con le maggiori responsabilità a livello globale per quanto riguarda l’inquinamento da plastica: ne produce 3 milioni di tonnellate all’anno per il packaging delle sue bibite, pari a 200mila bottiglie al minuto. Per questo, alcuni hanno fatto notare come concentrarsi su un’innovazione così piccola possa essere facilmente considerata un’operazione di greenwashing, cioè una di quelle iniziative su cui le aziende insistono molto a livello di comunicazione per via del loro impatto ambientale positivo, ma che servono solo a distogliere l’attenzione da danni ben più grossi.

Come ha fatto notare Graham Forbes, responsabile del progetto di Greenpeace dedicato alla plastica, «che i loro tappi di plastica siano attaccati o no, l’azienda [Coca-Cola] produce comunque miliardi di rifiuti di plastica ogni anno, danneggiando il nostro ambiente, le nostre comunità, il nostro clima e la nostra salute».

– Leggi anche: Riciclare la plastica ha davvero senso?

Nell’ultimo periodo Coca-Cola ha investito in diverse soluzioni per rendere la propria produzione più sostenibile a livello ambientale, ma non sembra avere alcuna intenzione di eliminare la plastica. Camilli dice che il motivo è che «nessun materiale va demonizzato in assoluto, ogni packaging ha i suoi pro e contro. Anche il vetro se viene abbandonato impiega tantissimo tempo per essere recuperato. La plastica è sicura, è comoda e si può riciclare. In Italia tutte le confezioni che abbiamo sul mercato sono riciclabili: la sfida per noi è questa, che vengano buttate nel posto giusto e riciclate».

Il problema, però, è che notoriamente solo una piccola parte della plastica che viene buttata nei bidoni della differenziata viene riciclata: in Europa si arriva più o meno al 20 per cento. Il resto finisce nelle discariche o viene bruciata, perché non è conveniente riciclarla o perché non ci sono sufficienti strutture per farlo. Questo problema si era aggravato da quando, a partire dal 2018, la Cina e poi gli altri paesi asiatici avevano ridotto drasticamente la quantità di rifiuti di plastica che fino a quel momento importavano dall’Europa o dal Nord America, per riciclarla o nella maggior parte dei casi per smaltirla in altro modo. Senza poter vendere i propri rifiuti plastici altrove, è diventata ancora più condivisa l’idea che i maggiori sforzi dovrebbero essere orientati a ridurre produzione e consumi.

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