• Mondo
  • Giovedì 5 maggio 2022

Il primo fallimento della Cina sulla pandemia

Nonostante il disastro di Shanghai, il governo cinese continua a insistere con la strategia "zero COVID", soprattutto per motivi politici

(AP Photo/Andy Wong)
(AP Photo/Andy Wong)
Caricamento player

Negli ultimi due mesi in Cina i casi positivi al coronavirus rilevati dall’inizio della pandemia sono passati da circa 130mila a oltre un milione. Nonostante il notevole aumento di contagi, il governo cinese continua a insistere con la strategia “zero COVID”, che si è mostrata inefficace nel contrastare la diffusione di una variante molto contagiosa come omicron. Centinaia di milioni di persone sono sotto lockdown in varie aree della Cina, spesso con esiti disastrosi come nel caso di Shanghai, i confini sono sostanzialmente bloccati e ci sono enormi difficoltà nei porti dove transita buona parte delle esportazioni del paese.

Le politiche di contenimento hanno portato negli ultimi giorni a una riduzione dei nuovi casi positivi, almeno stando alle rilevazioni ufficiali, ma con un costo enorme non solo in termini economici, ma anche di qualità della vita per milioni di cinesi costretti a rimanere segregati in casa per giorni, spesso con grandi difficoltà nel reperire cibo e altri generi di conforto. Secondo vari osservatori, gli ultimi due mesi di contrasto alla pandemia sono tra i più gravi errori di valutazione compiuti dal Partito comunista cinese negli ultimi decenni, con importanti responsabilità imputabili al presidente Xi Jinping, alla ricerca tra pochi mesi della terza riconferma alla guida del paese.

Negli ultimi anni Xi ha accresciuto il proprio potere, ottenendo la possibilità di superare il limite dei due mandati da presidente previsto dalla Costituzione e riscrivendo l’interpretazione di un secolo di storia della Cina in un modo che gli attribuisce un ruolo centrale. Forte della sostenuta crescita economica cinese prima della pandemia, Xi governa senza rivali ed esercita un forte controllo sui mezzi di informazione e su Internet, limitando ciò che i cinesi possono vedere sui social network. Il dissenso c’è, naturalmente, ma non ha grandi possibilità di emergere e diventare evidente alla maggior parte della popolazione, che riceve notizie e informazioni da giornali soggetti a censura e propaganda.

Il presidente cinese Xi Jinping (AP Photo/Ng Han Guan)

In questo contesto, la percezione interna dell’andamento della pandemia è diversa da quella all’estero. Nei primi mesi del 2020, il governo cinese aveva per esempio imposto un durissimo lockdown a Wuhan, la città in cui si erano rilevati i primi casi di COVID-19, con milioni di persone costrette a rimanere in casa o a essere confinate in centri di isolamento nel caso in cui risultassero positive al coronavirus. In quelle settimane prese forma la versione cinese della strategia “zero COVID”, che come suggerisce il nome mirava a rendere sostanzialmente nulla la circolazione del coronavirus attraverso misure restrittive. È una strategia diversa da quella adottata nella maggior parte degli altri grandi stati del mondo, dove gli sforzi sono progressivamente stati mirati a mantenere i casi sotto una certa soglia accettando una limitata circolazione del virus.

Quella soluzione funzionò meglio che altrove, rendendo possibile un contenimento in poche settimane dell’epidemia a Wuhan, ma ebbe costi economici e sociali enormi. Le limitazioni alle libertà personali per la cittadinanza, impensabili per molti paesi democratici, furono accompagnate da inefficienze di vario tipo, a cominciare dalla difficoltà nel fornire assistenza a così tante persone costrette a rimanere chiuse in casa senza nemmeno la possibilità di uscire per l’acquisto di beni di prima necessità.

Nei circa due anni seguenti, la Cina alternò periodi di forti limitazioni su scala locale nei luoghi dove si verificavano nuovi focolai ad altre su scala più grande, riducendo per esempio le possibilità di entrare o uscire dal paese. Il sistema funzionò, tanto da ricevere apprezzamenti anche da alcuni osservatori all’estero, convinti prima dell’arrivo dei vaccini che l’unica soluzione fosse procedere con rigidi lockdown da imporre rapidamente all’emergere di nuovi casi di contagio.

Pechino, Cina (AP Photo/Ng Han Guan)

Poi all’inizio del 2021 arrivarono i vaccini con la loro capacità di ridurre il rischio di ammalarsi in modo grave di COVID-19 e alla fine dello stesso anno la variante omicron, molto più contagiosa delle versioni precedenti del coronavirus, ma in generale meno aggressiva e rischiosa soprattutto per le persone vaccinate con due dosi più quella di richiamo. Alla luce di questi cambiamenti, a partire dal 2022 per molti paesi era diventato accettabile seguire una strada di convivenza con il coronavirus, con un ritorno alla normalità (seppure diversa da quella prima della pandemia). Ma in Cina le cose andarono diversamente.

Dopo i primi casi riscontrati a Shanghai, la città più dinamica e popolosa della Cina con circa 26 milioni di abitanti, alla fine di marzo le autorità locali avevano imposto test di massa per la popolazione e lockdown in alcuni quartieri, che in breve tempo si trasformarono in un blocco generalizzato dell’intera area urbana. Da allora oltre 50mila funzionari di basso livello del Partito comunista cinese, suddivisi nei comitati di quartiere, si sono occupati di fare applicare le limitazioni imposte dal governo centrale, in modo intransigente o con maggiori flessibilità, portando a ulteriore confusione.

Il risultato è stato un lockdown caotico, con centri di isolamento per i positivi stracolmi di persone, spesso costrette a vivere per giorni in condizioni igieniche precarie, una enorme difficoltà nell’ottenere cibo per le persone isolate a casa e vessazioni di vario tipo da parte delle autorità. È cresciuto il malcontento e ci sono state proteste, con video circolati per alcune ore sui social network cinesi e rimossi poi velocemente dalla censura governativa.

Nella fase più acuta della crisi a Shanghai, il governo cinese è parso più interessato a nascondere gli errori che a risolvere la situazione, per esempio ripensando in modo più marcato la strategia “zero COVID”, come sembrava avesse deciso di fare all’inizio dell’anno. Le colpe sul lockdown disastroso di Shanghai sono state attribuite dal governo centrale ai funzionari locali, ricordando che da sempre la città gode di numerose autonomie, anche se nella realtà dei fatti è sottoposta comunque a un rigido controllo da parte del governo cinese.

Pechino, Cina (AP Photo/Ng Han Guan)

A Pechino, la capitale della Cina, dove nelle ultime settimane sono state rilevate alcune decine di casi, le autorità hanno deciso di applicare da subito la strategia “zero COVID”, avviando test di massa in vari quartieri e decidendo l’isolamento delle zone residenziali interessate dai contagi. A differenza di Shanghai, il governo cinese non può sostenere che Pechino sia meno sotto il proprio controllo: problemi simili a quelli di Shanghai verrebbero attribuiti direttamente al Partito comunista cinese e a Xi. Proprio per questo il livello di attenzione è molto alto e si procede con attività di prevenzione, se necessario con soluzioni drastiche come all’inizio della pandemia.

In una telefonata registrata e condivisa sui social network cinesi, poi rimossa dalla censura, una funzionaria di Shanghai aveva di recente risposto alle lamentele di un cittadino sul lockdown dicendogli: «La malattia è stata politicizzata». La funzionaria aveva poi aggiunto che ciò che stava accadendo in città era una follia e che gli stessi responsabili dei comitati locali, incaricati di eseguire le indicazioni del governo centrale, erano spesso in difficoltà sul da farsi. In un post pubblicato online e rapidamente eliminato dalla censura, un esperto di diritto spesso critico nei confronti del governo aveva scritto che le autorità: «Non stanno contrastando la pandemia. Stanno creando disastri».

Osservatori e analisti si sono chiesti da cosa derivi questa apparente ostinazione del governo cinese nel seguire una strategia di contenimento del virus che, nei fatti, si sta mostrando inadeguata per contrastare la diffusione della variante omicron. L’impressione è che l’ostinazione a proseguire con la “zero COVID” derivi da una scelta politica precisa: dimostrare che un governo centrale forte sia il modo migliore per contrastare la pandemia e che la via cinese sia migliore di quella occidentale di convivenza con il virus. Modificare ora alcuni approcci implicherebbe dover riconoscere errori e soprattutto mettere in discussione alcune decisioni di Xi, a pochi mesi dalla sua prossima rielezione.

A fine marzo il governo cinese aveva annunciato alcune lievi modifiche alla strategia “zero COVID”, per esempio con l’adozione di un sistema più flessibile di test e lockdown a livello locale. Xi aveva detto di non volerne abbandonare i fondamentali, ma aveva aggiunto che la Cina si sarebbe «sforzata per ottenere il massimo della prevenzione e del controllo al minor costo e minimizzando l’impatto dell’epidemia sullo sviluppo sociale ed economico». Era però già chiaro all’epoca che la priorità sarebbe rimasta ridurre al minimo i casi, spesso a qualunque costo.

Pechino, Cina (AP Photo/Ng Han Guan)

Già a metà aprile quasi 400 milioni di cinesi erano sottoposti a qualche tipo di limitazione o lockdown, con gravi conseguenze sia per il sistema produttivo sia dei trasporti. I blocchi tra province impedivano, e in certa misura impediscono ancora, ai camion di trasportare le materie prime e i prodotti finiti, ingolfando i porti della Cina con centinaia di navi mercantili che attendono giorni prima di poter scaricare o caricare container. I rallentamenti nei porti e del sistema produttivo stanno già avendo conseguenze sui commerci internazionali, accrescendo problemi che erano già emersi proprio a causa degli ultimi due anni di pandemia.

Il governo cinese continua a chiedere alle amministrazioni locali di trovare il giusto equilibrio tra limitazioni e mantenimento delle attività industriali e commerciali, ma nei fatti la richiesta di mantenere praticamente a zero i nuovi contagi impedisce di adottare politiche meno rigide e simili a quelle adottate in Occidente. Le richieste riguardano inoltre l’avvio di campagne e incentivi per spingere chi non si è ancora vaccinato a farlo, soprattutto tra i 50 milioni (su 264 milioni) di over 60 non ancora completamente vaccinati.

Gli errori di valutazione e l’ostinazione con cui viene mantenuta la strategia “zero COVID” non hanno molti precedenti nella storia recente della Cina, piena di successi soprattutto in campo economico, seppure con grandi storture e forti limitazioni alle libertà personali. Il New York Times ha di recente ricordato come un’altra politica “zero” fu in passato fonte di gravi problemi per il governo cinese, dimostrando come alcune scelte politiche possano costare care, specialmente quando vanno contro evidenze pratiche e scientifiche.

Nella primavera del 1958, il governo cinese chiese un impegno comune a tutta la popolazione per sterminare i passeri, considerati dall’allora presidente Mao Zedong una delle principali cause dei danni all’agricoltura. Per giorni, milioni di persone utilizzarono padelle, coperchi e altri sistemi per spaventare i passeri e impedire loro di atterrare, in modo che morissero esausti dopo ore passate in volo. Secondo alcune stime, in pochi mesi in Cina furono uccisi circa due miliardi di passeri, per la felicità di Mao.

I passeri erano però tra i principali cacciatori di insetti, che iniziarono a proliferare nei campi e a distruggere le coltivazioni, molto di più di quanto facessero gli uccelli. Le devastazioni furono tali da rendere lo sterminio dei passeri una delle cause della cosiddetta “grande carestia cinese”, nella quale morirono di fame decine di milioni di cinesi in appena tre anni.

All’epoca Mao e gli altri funzionari del partito ignorarono gli avvertimenti di scienziati ed esperti del settore agricolo, con conseguenze disastrose. Su una scala e in tempi diversi, ora sembra che il governo non voglia dare retta agli esperti che consigliano di abbandonare la “zero COVID” per passare a una strategia di convivenza con il coronavirus, più gestibile rispetto a un paio di anni fa grazie ai vaccini e di recente a una variante meno rischiosa, per quanto molto contagiosa.