Cosa c’entra una statuetta dell’Età del Bronzo col conflitto fra Israele e Palestina

Una recente scoperta nella Striscia di Gaza ha fatto riemergere vecchie questioni che continuano a dividere ancora oggi

di Luca Misculin

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Martedì il governo autonomo della Striscia di Gaza ha annunciato la scoperta di una statuetta che risale verosimilmente all’Età del Bronzo (secondo e terzo millennio a.C.) in un terreno agricolo a Khan Yunis, la principale città nel sud della Striscia. Secondo le prime ricostruzioni, la statuetta raffigura la testa di una divinità femminile e in origine doveva avere un corpo che la rendeva alta poco meno di un metro. Al momento è esposta in un palazzo storico nella città vecchia di Gaza.

Ritrovamenti di questo tipo non sono rari nell’area compresa fra la costa sudest del Mediterraneo e il fiume Giordano, popolata da migliaia di anni e da sempre al centro di traffici, guerre e migrazioni: ma il caso della statuetta di Khan Yunis è interessante per varie ragioni, fra cui il fatto stesso che sia arrivata ad essere esposta in un museo. In Palestina ci sono da decenni gravissimi problemi di saccheggi e scarsa tutela dei beni archeologici.

Nessuno, inoltre, è in grado di dire con certezza cosa raffiguri la statua: e la disputa su cosa rappresenti si intreccia inevitabilmente con i profondi conflitti identitari, etnici e territoriali che caratterizzano questo pezzo di mondo.

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Israele, Palestina, Siria, Giordania e Libano sono paesi che hanno una storia antichissima. È da qui che alla fine dell’ultima Era glaciale, diecimila anni fa, i primi agricoltori arrivarono in Europa in cerca di nuove terre fertili.

Nei millenni seguenti questi territori sono stati contesi da decine di popoli per la loro posizione strategica all’ingresso del Mediterraneo, a metà strada fra Europa, Asia e Africa, e per il clima favorevole. Tutte le principali civiltà della storia hanno lasciato una traccia del proprio passaggio, o della propria dominazione, in questi luoghi.

Una mappa di Scientific American delle migrazioni dei primi agricoltori europei

La conseguente, enorme abbondanza di reperti archeologici ha attirato da sempre ladri e saccheggiatori. Ancora oggi i governi dei paesi della regione non hanno le forze per evitare che ogni anno centinaia di reperti vengano trafugati e venduti sul mercato nero, a volte poco dopo il loro ritrovamento. È un problema ancora più grave in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, due aree governate da entità parastatali che non hanno le risorse né i poteri di un vero stato.

Qualche anno fa Saleh Sawafta, l’allora direttore del dipartimento per la protezione dei beni archeologici del ministero del Turismo palestinese, disse ad Al Monitor che fin dalla sua nascita, negli anni Novanta, l’Autorità Palestinese, che governa parte della Cisgiordania, ha dovuto fare i conti con gli scavi archeologici illegali.

Il problema è reso più complesso dal fatto che circa il 60 per cento delle aree archeologiche note si trova nella cosiddetta Area C della Cisgiordania, in cui il controllo civile e militare spetterebbe ad Israele, che però lo esercita in maniera arbitraria e non omogenea, e avendo più a cuore i propri interessi che quelli dei palestinesi. Soltanto nell’Area C, sostiene Sawafta, ci sono circa 7.000 siti archeologici e circa 50mila palazzi storici.

La rete di saccheggio e smercio dei beni archeologici è talmente estesa che a volte i reperti vengono rubati poco dopo essere stati scavati. Nel 2013, per esempio, al largo di Gaza fu ritrovata una statua di bronzo del dio greco Apollo perfettamente conservata. La statua fu subito sequestrata da Hamas, il gruppo radicale che governa la Striscia, e da allora non se n’è più saputo nulla. Hamas, fra l’altro, è nota per lo scarso interesse che nutre nei confronti dei beni archeologici, soprattutto quelli non esattamente di primo piano. L’associazione Canaan Team, che monitora le condizioni dei siti archeologici nella Striscia di Gaza, ha stimato che almeno 31 siti archeologici siano scomparsi per via del frenetico sviluppo urbanistico portato avanti da Hamas, che fra l’altro non ha mai compilato un registro centrale dei siti archeologici della Striscia.

Nel caso della statuetta di Khan Yunis le cose stanno in maniera un po’ diversa. Hamas ha annunciato il suo ritrovamento con una conferenza stampa dai toni trionfali e l’ha prontamente esposta nel centro di Gaza, cercando, secondo alcuni, di strumentalizzarne la scoperta a fini politici.

In un comunicato stampa, il ministero del Turismo e delle Antichità della Striscia di Gaza scrive che la statuetta raffigura la dea Anat e che risale al 2.500 a.C., quindi all’inizio dell’età del Bronzo.

In realtà è difficilissimo capire a quando risale la statuetta, ma soprattutto individuare con esattezza chi rappresenti.

Oggi può sembrare strano, ma nel Medio Oriente dell’Età del Bronzo le divinità avevano contorni molto meno definiti di quelle a cui siamo abituati. Sappiamo sicuramente che diversi popoli della regione veneravano una dea, che in alcuni casi viene chiamata Anat, a cui attribuivano varie caratteristiche e che associavano ad attività anche molto diverse fra loro, fra cui la guerra e la caccia, ma anche l’amministrazione della giustizia.

In uno studio del 1991 lo studioso Neal H. Walls, esperto di Antico Testamento ed ebraico della Wake Forest University, sosteneva che una serie di testi dell’Età del Bronzo ritrovati nell’odierna Siria «descrivevano Anat principalmente come una divinità femminile ma con tratti di ambiguità di genere»: «adottando gli attributi maschili del cacciatore e del guerriero, Anat rigetta il ruolo ordinario di madre e donna e quindi minaccia l’ordine della società patriarcale. Eppure Anat non può negare la propria natura femminile, e la tensione fra le sue caratteristiche maschili e femminili contribuisce alla sua identità ambigua».

Anat non era l’unica dea a presentare caratteristiche del genere. Nel suo libro del 2008 The Many Faces of the Goddess, lo storico Izak Cornelius scrive che nel periodo finale dell’Età del Bronzo la divinità femminile venerata nella regione presentava così caratteristiche somiglianti, ma allo stesso tempo fluide ed eterogenee, che oggi è difficilissimo distinguere divinità individuali. La figura di Anat è associata per esempio a quella di Astarte, un’altra dea della regione con caratteristiche molto simili, ma anche con Asherah, una divinità femminile citata una quarantina di volte nella Bibbia ebraica e che secondo alcune teorie almeno all’inizio del monoteismo ebraico era la compagna dell’unico Dio venerato dagli ebrei.

Il suono del nome Anat, inoltre, ricorda molto da vicino quello di Atena, la dea greca della guerra e della giustizia, la cui immagine potrebbe essere stata condizionata proprio da Anat. Alla fine dell’Ottocento a Cipro è stata trovata una iscrizione bilingue in greco e fenicio in cui il nome Anat nel testo fenicio viene tradotto “Atena” in quello greco. Il nome “Atena” non è di origine indoeuropea, cioè dell’antenata di tutte le lingue occidentali: ed è plausibile che i Greci l’abbiano preso in prestito da qualche altro popolo.

La statuetta di Khan Yunis, fra l’altro, presenta quello che sembra un serpente al posto dei capelli della dea: e il serpente è uno degli animali più legati ad Atena nella raffigurazione della dea, anche nella Grecia classica.

Ma questa caratteristica non ci dà ulteriori indicazioni sull’identità o la provenienza delle persone che realizzarono la statuetta di Khan Younis. L’immagine del serpente si ritrova in tantissime altre divinità femminili dell’Età del bronzo, per esempio nelle statuette di dea ritrovate nel palazzo di Cnosso a Creta, ma anche in alcune statuette ritrovate in Serbia e risalenti al 5.000 a.C. circa in cui viene raffigurata una dea-serpente.

Si ritiene che alcune culture europee e mediorientali del Neolitico associassero le divinità femminili della vita e della rigenerazione ai serpenti perché fin dall’antichità questi animali erano noti per cambiare muta nel corso della loro vita.

Una statuetta della dea-serpente ritrovata nei pressi di Belgrado, in Serbia, con cosce e caviglie squamate; disegno tratto dal libro “Le dee viventi” di Marija Gimbutas, edizioni Medusa, 2020

Rimane il fatto che identificare con certezza una statuetta appena estratta dal terreno e non ancora studiata da storici dell’arte e archeologi resta molto complesso. Aren Maeir, rispettato archeologo dell’università israeliana di Bar Ilan, ha detto al Jerusalem Post che la statuetta «non assomiglia a nulla che abbia mai visto. Non la riconosco, non so cosa sia ed è difficile anche solo capire a quale periodo appartenga».

Anche per questa ragione appare spregiudicato individuare un legame fra la statuetta e il presente, come ha cercato di fare Hamas annunciando il suo ritrovamento. «Queste scoperte provano che la Palestina ha una civiltà e una storia, e nessuno può negare o falsificare questa storia: abbiamo una prova della popolazione palestinese e dei loro antenati, i Canaaniti», ha detto Jamal Abu Rida, funzionario del ministero del Turismo e delle Antichità della Striscia di Gaza.

Hamas ha tutto l’interesse a dimostrare che gli antenati degli odierni palestinesi abitassero la Striscia di Gaza già nel 2.500 a.C.: il messaggio sottinteso è che fossero presenti nella regione prima delle prime attestazioni storiche degli israeliani, datate pur con grandissime cautele circa un millennio più tardi. «I Canaaniti siamo noi», disse esplicitamente nel 2018 il presidente palestinese Mahmoud Abbas: «questa terra appartiene alle persone che erano già qui cinquemila anni fa».

Tesi del genere lasciano il tempo che trovano, anche perché in realtà proprio gli oggetti come la statuetta mostrano quanto fossero intrecciate le culture e le popolazioni che abitavano questa regione nell’Età del Bronzo: la divinità femminile che forse è raffigurata nella statuetta di Khan Yunis era venerata in tutta la regione, anche se con nomi e attributi leggermente diversi.

I Canaaniti, poi, parlavano una lingua semitica, cioè parente dell’odierno ebraico, avevano una religione non così distante da quella ebraica e abitavano un’ampia regione che oggi si estende su vari territori nazionali. Secondo un citatissimo studio del 2020 sul DNA di alcune tombe canaanite dell’Età del Bronzo, inoltre, «sia i gruppi ebraici sia le persone di etnia levantina e parlanti arabo hanno un corredo genetico che per più del 50 per cento deriva da persone che discendono dai gruppi che vivevano in Medio Oriente nell’Età del Bronzo».

In altre parole: molte delle persone che oggi vivono in Israele, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza sono parenti, anche se alla lontanissima. E nessuna statuetta potrà dimostrare il contrario.