Il nuovo capo delle carceri non piace a tutti

Alcuni magistrati e sindacati della polizia penitenziaria considerano troppo garantista Carlo Renoldi, nominato capo del Dap

Il carcere di San Vittore, a Milano (ALDO MARTINUZZI/LAPRESSE)
Il carcere di San Vittore, a Milano (ALDO MARTINUZZI/LAPRESSE)

Mercoledì il Consiglio superiore della magistratura ha votato a maggioranza la nomina di Carlo Renoldi a capo del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: uno dei quattro dipartimenti in cui è diviso il ministero della Giustizia, quello che si occupa dell’organizzazione e della sicurezza delle carceri. Il Dap gestisce il personale e i beni dell’amministrazione penitenziaria, ed è responsabile dell’esecuzione delle pene dei detenuti e della corretta applicazione delle leggi che le definiscono.

Renoldi succede a Bernardo Petralia, che aveva presentato domanda di pensionamento, e a indicare il suo nome era stata la ministra della Giustizia Marta Cartabia: ma fin da subito c’erano state discussioni e divisioni. Essenzialmente, la questione è che Renoldi è noto per avere posizioni garantiste e per aver insistito spesso sulla necessità che il carcere assolva alla funzione rieducativa prevista dalla Costituzione, opponendosi a chi invece dà la priorità a quella punitiva. Renoldi ha criticato spesso l’intransigenza di alcuni ambienti della magistratura, specialmente quelli impegnati nella lotta alla mafia, e ha preso posizione contro il giustizialismo in politica. Ed è da persone di queste aree politiche e culturali che sono arrivate le ostilità nei suoi confronti.

Nella votazione del Csm il membro laico – cioè non magistrato – della Lega ha votato contro, mentre si è astenuto quello del Movimento 5 Stelle. Si sono astenuti anche tre magistrati: Sebastiano Ardita, Nino Di Matteo e Fulvio Gigliotti. Ora la nomina dovrà essere approvata dal Consiglio dei ministri.

I motivi dell’ostilità da parte di alcuni magistrati ed esponenti politici sono principalmente le numerose prese di posizione di Renoldi sul tema del carcere duro per i mafiosi e sull’ergastolo ostativo. Quest’ultimo è quello che impedisce al detenuto condannato all’ergastolo di lasciare il carcere (per lavorare all’esterno, per i permessi premio, per il regime di semilibertà o le misure alternative alla detenzione) anche dopo 26 anni già scontati, a meno che non abbia collaborato con la giustizia. In particolare, il provvedimento di ergastolo ostativo si applica ai detenuti soggetti al regime di 41 bis, colpevoli di reati di terrorismo, mafia o appartenenti a organizzazioni criminali.

Il 41 bis è una disposizione dell’ordinamento penitenziario italiano e originariamente consentiva al ministro della Giustizia di sospendere, in casi eccezionali di rivolta o di situazioni di emergenza, l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti. Dopo le strage mafiose del 1992, un decreto legge (il Martelli-Scotti) estese la possibilità di applicare le cosiddette «restrizioni necessarie» anche ai detenuti per mafia, con l’obiettivo dichiarato di impedire le comunicazioni tra mafiosi in carcere e le loro organizzazioni all’esterno. Le misure vanno dall’isolamento all’ora d’aria limitata e, sempre in isolamento, alla limitazione degli oggetti che si possono tenere in carcere e dei colloqui con i familiari.

Sul 41 bis molti giuristi hanno espresso forti perplessità perché con la sua applicazione verrebbe meno, secondo loro, la funzione riabilitativa della pena. Sul tema si era espressa qualche mese fa anche la Corte Costituzionale, che aveva affermato in sostanza la cosiddetta polifunzionalità della pena e cioè la funzione rieducativa sancita dal comma 3 dell’articolo 27 della Costituzione, anche per i detenuti condannati all’ergastolo per i delitti di mafia e di terrorismo. La Corte Costituzionale aveva dato mandato al parlamento di approntare una riforma coerente con i principi della Costituzione.

Renoldi, che ha 53 anni, è oggi giudice della prima sezione penale della Cassazione e in passato è stato magistrato di sorveglianza a Cagliari. Non ha mai nascosto le sue perplessità su alcuni aspetti del 41 bis: in passato aveva detto di essere «per un carcere costituzionalmente compatibile. Un carcere dei diritti, in cui però siano garantite le condizioni di sicurezza».

Carlo Renoldi (Ansa)

Fin da quando si era parlato della possibilità della sua nomina, il Movimento 5 Stelle aveva parlato di «fatto grave», mentre la Lega aveva espresso «seria preoccupazione». In particolare, a Renoldi era contestato un discorso pronunciato durante un convegno a Firenze, nel febbraio 2019. Riferendosi al governo di cui all’epoca facevano parte Lega e M5S aveva detto: «c’è un ritorno nel discorso pubblico del mito reazionario della certezza della pena, che è un punto fondamentale del programma del governo del cambiamento. Un mito che in questa narrazione diventa una sorta di evocazione identitaria che mira alla costruzione dell’identità del blocco politico e sociale».

Molte altre dichiarazioni di Renoldi erano state poi ricordate su alcuni giornali, prima tra tutte una risalente al luglio del 2020 in cui si riferiva a una decisione della Corte Costituzionale che consentiva di concedere permessi premio agli ergastolani ostativi. Renoldi aveva definito la decisione «epocale», spiegando che aveva riscritto importanti settori dell’ordinamento penitenziario: «ha minato alle fondamenta i dispositivi di presunzione di pericolosità sociale che sono incentrati sull’articolo 41 bis». A Renoldi viene anche contestato il fatto di essere stato estensore di sentenze come quella che apriva alla possibilità di colloqui via Skype ai detenuti con il 41 bis.

Sulla nomina di Renoldi si era espressa tra gli altri Maria Falcone, sorella del giudice assassinato dalla mafia il 23 maggio 1992. «Mi auguro che nella lotta alla mafia, che vede nella tenuta del regime carcerario duro per i boss uno dei suoi cardini, non si arretri di un millimetro. Qualunque tentennamento nell’applicazione rigorosa di norme che sono costate la vita a uomini delle istituzioni come mio fratello sarebbe un segnale pericolosissimo che sarebbe interpretato dalle mafie come un pericoloso indice di debolezza». Salvatore Borsellino, attivista e fratello del magistrato Paolo, a sua volta ucciso dalla mafia, aveva criticato esplicitamente la nomina: «che messaggio hanno deciso di mandare ai cittadini italiani la ministra Cartabia e il governo italiano? Vogliono forse comunicare che con la mafia si deve convivere? Hanno deciso di abiurare al loro giuramento di difendere i cittadini della nazione dal cancro mafioso?».

Per capire a fondo l’ostilità che la nomina di Renoldi ha suscitato in certi ambienti è utile leggere un editoriale pubblicato sul sito della rivista Polizia Penitenziaria SGS, in cui si definisce Carlo Renoldi «l’uomo giusto al posto sbagliato» e «uno dei leader del movimento garantista italiano». Dice l’editoriale: «Indubbiamente, le posizioni ideologiche di Carlo Renoldi, avvalorate dagli innumerevoli interventi pubblici, lo pongono in una situazione assolutamente inadeguata per il ruolo di Capo dell’Amministrazione Penitenziaria che, inevitabilmente, include anche la responsabilità di Comandante Generale del Corpo di Polizia Penitenziaria. Un po’ come nominare il Mahatma Ghandi Capo di stato maggiore dell’esercito indiano».

Il Sappe, maggior sindacato degli agenti di polizia penitenziaria, ha scritto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella per contestare la nomina, ricordando che spesso Renoldi si è espresso in favore di quelle che il sindacato definisce «chiare forme di annacquamento del 41 bis». Donato Capece, segretario del Sappe, ha detto che Renoldi «sarebbe più indicato per fare il garante dei detenuti che non il Capo del Corpo di Polizia Penitenziaria».

D’altra parte, lo stesso Renoldi in passato aveva spesso criticato la polizia penitenziaria, i suoi sindacati e lo stesso Dap, l’istituzione che adesso dovrà dirigere. Li accusava di essere ostili o indifferenti a qualsiasi tentativo di umanizzazione degli istituti penitenziari: «Mi riferisco al Dap», diceva Renoldi, «ad alcuni sindacati della polizia penitenziaria, ad alcuni ambienti dell’antimafia militante, ad alcuni settori dell’associazionismo giudiziario e anche ad alcuni ambiti della magistratura di Sorveglianza. Un Dap che in questi anni è rimasto profondamente ostile a quegli istituti che tentano di varare una nuova stagione di diritti giustiziabili per le persone detenute. Un atteggiamento miope di alcune sigle sindacali che declinano ancora la loro nobile funzione in una chiave microcorporativa».

Prima della votazione del Csm nella quale si è astenuto Nino Di Matteo, magistrato palermitano da sempre impegnato nella lotta alla mafia, aveva spiegato: «Non posso in coscienza esprimere voto favorevole all’autorizzazione al collocamento al vertice del Dap di un collega che in occasioni pubbliche ha dimostrato pervicace e manifesta ostilità nei confronti di ambienti e soggetti, anche istituzionali, che avrebbero quantomeno meritato un diverso rispetto». Di Matteo ha ricordato una frase di Renoldi in cui si parlava di «alcuni ambienti dell’antimafia militante arroccata nel culto dei martiri che vengono ricordati esclusivamente per il sangue versato e per la necessaria esemplarità della reazione contro un nemico irriducibile». In realtà la frase pronunciata da Renoldi era più lunga e articolata: «Pensiamo all’antimafia militante arroccata nel culto dei martiri, che certamente è giusto celebrare, ma che vengono ricordati attraverso esclusivamente il richiamo al sangue versato, alla necessaria esemplarità della risposta repressiva contro un nemico che viene presentato come irriducibile, dimenticando ancora una volta che la prima vera azione di contrasto nei confronti delle mafie, cioè l’affermazione della legalità, non può essere scissa dal riconoscimento dei diritti».

Le critiche e le polemiche hanno spinto Renoldi a scrivere una lettera alla ministra Cartabia in cui ha parlato di pubblicazioni di frasi estrapolate in parte e fraintese. In particolare, Renoldi ha spiegato che «nessuno, men che meno io, può avere intenzione minimamente di sottovalutare la gravità del dramma della mafia, costato la vita a tanti colleghi e servitori dello Stato».

Ha anche spiegato di non aver mai messo in dubbio l’utilità del 41 bis, definito essenziale nel contrasto della criminalità, spiegando che questa sua posizione «emerge da sentenze a cui ho contribuito della prima sezione penale della Cassazione, in cui si sottolinea la necessità che le singole misure restrittive siano specificamente finalizzate a tale esigenza». Renoldi ricorda però anche che nonostante il problema della mafia, la stragrande maggioranza dei detenuti non è sottoposta al 41 bis (sono l’1% della popolazione carceraria), e che a loro vanno garantite carceri dignitose. Renoldi ha anche citato Papa Francesco: «Ogni condanna deve avere una speranza».