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  • Martedì 8 marzo 2022

Franco Serantini, ucciso cinquant’anni fa

Un nuovo libro ricostruisce dagli archivi la breve storia del giovane anarchico pisano picchiato a morte in carcere

Il prossimo 7 maggio saranno passati cinquant’anni dall’omicidio di Franco Serantini, ucciso a Pisa nel 1972 da ripetuti pestaggi da parte di agenti della polizia: intervenuta contro una manifestazione di movimenti di sinistra che contestava un comizio di Giuseppe Niccolai, deputato del Movimento Sociale Italiano, il partito erede del fascismo dopo la nascita della Repubblica. Serantini venne portato nel carcere Don Bosco di Pisa, dove morì due giorni dopo. La sua storia fu raccontata da un libro del giornalista Corrado Stajano, Il sovversivo, che contribuì a rivelare le violenze e le illegalità contro Serantini di quei tre giorni. Un nuovo libro basato su documenti d’archivio e giudiziari è uscito in questi giorni per l’editore Sellerio: «Andai perché ci si crede», di Michele Battini, storico e a lungo insegnante all’università di Pisa. Queste sono alcune pagine del capitolo L’orfano anarchico.

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Carcere di sicurezza. Sicurezza, forse, per la società; per chi vi è recluso la sicurezza è incerta, precaria. Le morti violente in carcere sono ancora oggi numerose e quelle per suicidio, stimate a decine ogni anno, sono sempre provocate dalle intollerabili condizioni di quelle discariche umane e dall’abuso degli innumerevoli piccoli poteri che permettono alle carceri di “funzionare”.

Adriano Prosperi sottolinea che la violenza su condannati e reclusi illustra la sproporzione terribile che esiste tra chi esercita il potere e chi osa ribellarvisi. Franco Serantini venne massacrato fuori dal carcere da una decina di agenti e, forse, venne ancora colpito dopo il fermo, come altri manifestanti arrestati. Ferito e fratturato – scrisse Umberto Terracini – una volta recluso in carcere non venne assistito con le cure di cui aveva estremo bisogno. Fu lasciato morire nella distrazione di agenti, infermieri, medici.

«Questa volta, diciamolo, il nostro animo insorge inorridito e la coscienza invoca a gran voce severe pronte sanzioni, non soltanto perché dinanzi a noi c’è un altro morto ammazzato dalla polizia […], ma anche per il modo crudelissimo dell’ammazzamento e per la rivelazione ch’esso ci ha fatto del grado estremo di avvilimento a cui il regime ha portato, tra intrighi tenebrosi di complici omertà, il potere statuale della Repubblica. Perché a Pisa, a perpetrare l’orribile assassinio di Franco Serantini, lavoratore studente, e a tentare di mandarlo impunito, si sono indubbiamente date voce e mano, non senza un qualche ammiccamento da Roma, tutte le componenti del suo poderoso apparato repressivo: polizia, magistratura e galera. I poliziotti hanno infatti massacrato a mazzate il povero sventurato; i carcerieri, in complicità con i vari funzionari della prigione, lo hanno abbandonato senza cure nella sua straziante agonia; e infine un giudice ha creduto di gettare sull’atroce dramma la gelida coltre burocratica della sua verbalizzata indifferenza, fingendo di non accorgersi di interrogare un morente, raccogliendone la deposizione solo più ad memoriam. […] Infatti, il regolamento carcerario, che è legge, prescrive che alla consegna di un arrestato alla prigione si compili un verbale nel quale siano riportate le generalità degli agenti che la eseguono. E quelli che scaricarono al tetro edificio del Don Bosco il corpo illividito e fratturato di Franco Serantini […] sanno per dovere di ufficio da chi l’ebbero in consegna, là dove a mazzate era stato prostrato al suolo. […] E gli agenti di custodia di Pisa non poterono non vedere le lancinanti stigmate sul corpo […]. Infine il regolamento carcerario dispone che, non oltre il giorno successivo all’entrata nel carcere, l’arrestato sia sottoposto alla visita […]. E al sanitario del carcere pisano, quand’anche Franco Serantini incredibilmente non ne avesse levato lamento angosciato, non poterono sfuggire i segni impressionanti che ne sfigurarono le membra».

Umberto Terracini sapeva bene di che cosa scriveva. Recluso per vent’anni nelle carceri del regime fascista, il giovane fondatore – con Gramsci, Togliatti e Tasca – de «L’Ordine Nuovo» torinese dirigeva nel 1972 una importante organizzazione per la tutela dei detenuti. Considerava l’istituzione carceraria una delle molte continuità dello Stato dopo la fine del regime: nelle norme (il codice Rocco), nei regolamenti interni, nelle istituzioni, nelle pratiche e nei comportamenti degli uomini del «poderoso apparato repressivo» costruito dal fascismo e trapassato indenne nella Repubblica. Quella continuità di norme, istituti e pratiche – secondo Umberto Terracini – stritolò Serantini e, prima, ne aveva schiacciato l’identità. I dispositivi che la Chiesa tridentina aveva esercitato per secoli su corpo e anima delle donne, e dei loro figli, erano infatti stati mutuati dallo Stato unitario e la volontà di stigmatizzare la donna che si fosse “macchiata” del peccato della carne e della generazione illegittima di un figlio era stata recepita dalle leggi dello Stato: la legge esigeva cioè che venisse stampata – e nel 1972 lo era ancora sulla carta di identità di Franco Serantini – l’infamante formula “figlio di N.N.”. «Lo Stato e le istituzioni lo considerano fino alla morte figlio di N.N. e gli rifiutano la legge, dopo aver ossessionato lui incolpevole come un suddito capace solo di doveri, quasi a dar ragione a certe fantasie popolari, per cui uno nasce figlio di puttana e muore figlio di puttana».

Franco Serantini aveva conosciuto in vita quasi sempre solo celle: le celle dell’orfanotrofio, del collegio, del riformatorio, sino alla cella numero 7 del carcere pisano Don Giovanni Bosco.

Dopo i primi anni trascorsi all’Istituto dell’Infanzia Abbandonata di Cagliari, aveva “trovato” un padre e una madre adottivi, Giovanni Ciotta e Rosa Alaimo, e a loro era stato affidato. Poco tempo dopo, a Campobello di Licata in Sicilia, Rosa Alaimo morì in casa dei genitori, che aveva eletto a ultimo suo rifugio nella malattia. Con i nonni materni, braccianti poverissimi, Franco bambino rimase ancora per qualche tempo, vivendo in una di quelle residenze costituite da un unico ambiente adibito ad alloggio comune di uomini e animali, i “catoi”. La miseria però costrinse quasi subito i nonni Alaimo a restituirlo all’Istituto del Buon Pastore di Cagliari, dove «il Medioevo non era terminato» (il padre adottivo, per ragioni burocratiche, in quell’anno 1960 non poteva ancora affiliarlo).

Dopo sette anni di reclusione a Cagliari, Serantini venne schedato e definito «chiuso in se stesso, irascibile, indisciplinato», dunque deferito al Tribunale dei Minori. Il tribunale, a sua volta, lo trasferì per sentenza al «riformatorio», un istituto di correzione ancora governato secondo le norme del Regio Decreto del 4 aprile 1939, n. 75, indirizzate a disciplinare «i minori che, per abitudini contratte o in dipendenza dello stato di abbandono in cui si trovano, danno manifeste prove di traviamento e appaiono bisognosi di correzione morale». Il riformatorio insomma – ha scritto benissimo Corrado Stajano – mutava «gli educatori in aguzzini e i ragazzi in belve». Dall’istituto Pietro Thouar di Pisa gli allievi-reclusi in regime di semi-libertà potevano uscire solo per frequentare le scuole cittadine e i corsi di formazione professionale, ma erano obbligati al rientro serale. «Quella di Serantini è una storia che sembra sempre ai limiti dell’invenzione settaria, piena com’è di miseria, di violenza classista, di ingiustizia».

L’ispettore Italo Innocenti ricapitolò con gergo burocratico e diverse inesattezze il tragitto di Serantini nell’istituzione pisana. A suo dire, l’allievo-recluso aveva abbandonato gli studi appena tre settimane prima dell’inizio del mese di maggio 1972 e, «malgrado ogni nostro intervento, non fu possibile farlo recedere dalla decisione presa». Serantini, invece, non aveva affatto abbandonato gli studi, ma aveva deciso di preparare l’esame finale di diploma da studente privato. Nel contempo frequentava il corso di formazione presso l’IBM di Pisa, lavorava e studiava fino a tardi, si preparava ad inserirsi nel lavoro al compimento del ventunesimo anno di età, il 18 luglio.

(2022 © Sellerio editore)