L’Académie française contro gli inglesismi

La storica istituzione per la difesa della lingua francese è molto preoccupata per il «deterioramento linguistico»

(AP Photo/Francois Mori)
(AP Photo/Francois Mori)

L’Académie française, una delle più antiche e prestigiose istituzioni culturali in Francia, ha pubblicato questa settimana un rapporto di 31 pagine in cui analizza e critica l’eccessivo utilizzo dell’inglese e degli inglesismi nella comunicazione istituzionale francese. Secondo l’Académie l’infiltrazione dell’inglese nel francese mette in pericolo non solo la buona qualità della comunicazione ma anche la coesione sociale e la fiducia nelle istituzioni. È un fenomeno «preoccupante», scrive l’Académie, che ha sempre – per definizione – posizioni piuttosto conservatrici sulla lingua francese.

L‘Académie française fu fondata nel 1635 col compito di preservare e «difendere» la lingua francese. Ha 40 membri e un “segretario perpetuo”, la carica più importante, dal 1999 occupata dalla storica francese Hélène Carrère d’Encausse, ex deputata conservatrice del Parlamento europeo. Non è la prima volta che l’Académie si oppone all’uso dell’inglese: lo scorso gennaio era arrivata a minacciare azioni legali contro il governo francese affinché rimuovesse le traduzioni in inglese che aveva inserito nelle carte d’identità. Ed è comunque nota per la sua attitudine conservatrice nei confronti della lingua: anni fa aveva definito una «aberrazione» alcune proposte per rendere il francese più inclusivo.

Il rapporto diffuso questa settimana è stato redatto da una commissione di sei membri dell’Académie, istituita a gennaio del 2020 per studiare la comunicazione istituzionale in Francia ed evidenziare la «significativa e preoccupante evoluzione della lingua francese in tutta la comunicazione istituzionale».

Lo studio è diviso in tre parti: la prima comprende 16 pagine di esempi, puntuali e completi di immagini, sull’utilizzo dell’inglese o di inglesismi da parte di entità sia pubbliche – ministeri, università, scuole, musei, fondazioni, festival, uffici del turismo e autorità locali – che private. Le ultime due parti commentano i risultati e propongono alcune direttive su come affrontare i cambiamenti descritti nella prima.

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Molte delle parole e delle formule evidenziate nello studio sono legate al lessico tecnologico e digitale: big data, o QR code, hashtag, newsletter o smartphone sono tutte parole per cui, secondo l’Académie, sarebbe meglio usare un corrispettivo francese piuttosto che il termine inglese. Citando il filosofo Michel Serres e il linguista Alain Rey, lo studio dell’Académie parla di «californismi» e riconosce che nella penetrazione dell’inglese all’interno del francese ha avuto un ruolo importantissimo la rivoluzione informatica di fine millennio.

Ma lo studio evidenzia anche una serie di altri termini, non necessariamente legati al mondo digitale: l’uso di graduate school anziché di lauree magistrali e dottorati, per esempio, da parte dell’Università Cergy-Pontoise, un’università pubblica francese fondata negli anni Novanta. Ma anche l’uso di parole inglesi per una serie di mestieri – data analyst, community manager, data officer, game designer, tra gli altri – o di formule inglesi per descrivere programmi o azioni governative.

Lo studio cita per esempio il progetto per l’innovazione ambientale French Impact, promosso tra gli altri dal ministero per la Transizione ecologica e da una serie di altri enti governativi. O la campagna Made for Sharing, per l’organizzazione delle Olimpiadi del 2024 a Parigi, il cui slogan è stato anche proiettato sulla Tour Eiffel, guadagnando un’enorme visibilità: secondo l’Académie, sarebbe stato meglio usare “Faits pour être partagés”.

Il rapporto dell’Académie cita poi il frequentissimo uso di alcuni anglicismi diventati una specie di «tic del linguaggio»: le desinenze in -ty per parole che finiscono con -té come city, community o university. Così come l’abbondanza di parole in -ing per indicare attività di vario tipo: coworking, tracking o cocooning (lo starsene in casa nel proprio tempo libero, letteralmente «proteggersi come in un bozzolo»).

Si citano anche giochi di parole e combinazioni di inglese e francese che, una volta pronunciate, suonano inglesi e veicolano in modo efficace e immediato il messaggio: come Ouigo – il nome di un servizio ferroviario a basso costo in Francia – composto da “oui” (“sì” in francese) e “go” (andare), e che pronunciato suona come we go: “andiamo”. Lo studio torna anche sull’Università Cergy-Pontoise, che ha investito molto, nella propria promozione, sulla formula abbreviata CY, pronunciata come l’inglese see why: “vedi perché”. Lo studio parla poi delle «chimere lessicali […] indefinibili» che si formano quando si creano parole derivandole da altre in inglese, come bleisure (combinazione di “business”, affari inteso in senso di lavoro, e “leisure”, “tempo libero”).

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Secondo gli autori dello studio, le tendenze descritte nel rapporto sono problematiche sotto vari punti di vista.

Anzitutto quello linguistico e morfologico: secondo gli autori del rapporto, il continuo ricorso all’inglese disarticola la corretta struttura della sintassi francese, spinge a cambiare o invertire l’ordine degli elementi della frase, e spesso promuove la scomparsa delle preposizioni o degli articoli. Si creano anche confusioni ortografiche: sull’opportunità, per esempio, di usare la “s” per il plurale delle parole inglesi, o sull’uso delle maiuscole.

Secondo gli autori, poi, il massiccio e trasversale uso dell’inglese appiattisce e impoverisce il linguaggio, creando per esempio alcuni macro contenitori semantici – come smart, pass, lab o green – che, combinati con altre parole, possono significare moltissime cose. C’è un forte rischio, scrivono gli autori, che il linguaggio si riduca «ad un artificiale comune denominatore, robotico e uniforme», portando a imprecisioni e ambiguità e lasciando ben poco spazio alle sfumature del pensiero e dell’espressione. Questo tipo di comunicazione, dice anche il rapporto, è inadatto al linguaggio istituzionale, che deve essere il più possibile chiaro, esatto e comprensibile.

Un altro motivo per cui l’uso dell’inglese è secondo l’Académie française così problematico riguarda proprio la comprensione pubblica e collettiva dei messaggi espressi, una questione molto importante se si parla di linguaggio istituzionale.

Tutto questo ricorso all’inglese, dice il rapporto, fa sì che un messaggio pensato per essere chiaro e raggiungere tutti in modo indifferenziato e onnicomprensivo arrivi in realtà solo alla piccola percentuale di persone privilegiate e istruite che conoscono l’inglese e hanno familiarità col tipo di comunicazione informale, quasi pubblicitaria, degli slogan e delle formule inglesi. Tutti gli altri, dicono gli autori, resteranno perplessi davanti al tono scherzoso, a volte frivolo e poco comprensibile delle istituzioni, col rischio che delle stesse istituzioni non si fidino.

Il rapporto si conclude con una serie di raccomandazioni su come affrontare le conseguenze di un eccessivo utilizzo dell’inglese e degli inglesismi. Affiancare ai termini o alle formule inglesi una traduzione in francese, per esempio, o attingere il più possibile a termini francesi, in ogni occasione in cui sia possibile farlo, senza sostituirli con termini inglesi.

Ma la raccomandazione di base, quella che in un certo senso sembra essere al centro dello studio, riguarda l’attitudine con cui si affronta la penetrazione dell’inglese nelle altre lingue: il «deterioramento» linguistico, scrivono gli autori in conclusione, «non deve essere visto come una cosa inevitabile». Agire per contrastarlo è «soprattutto una questione di volontà generale, sostenuta dalla consapevolezza della gravità e dell’urgenza della situazione».

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