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  • Martedì 8 febbraio 2022

Libri che hanno rovinato la vita a Daria Bignardi

Il suo nuovo esce oggi: è il diario di un anno, un'autobiografia e un modo inconsueto di raccontare altri libri

(L'illustrazione di copertina è di Emiliano Ponzi)
(L'illustrazione di copertina è di Emiliano Ponzi)

Martedì è uscito in libreria il nuovo libro di Daria Bignardi, che si chiama Libri che mi hanno rovinato la vita (e altri amori malinconici): suona come una lista ma è un libro che sta in mezzo tra un diario, una serie di recensioni, e un romanzo autobiografico. Bignardi descrive in effetti – alternandolo al racconto attuale di un anno complicato – come la lettura di alcuni libri l’abbia spinta verso riflessioni e curiosità tormentate, e come fasi della vita abbiano relazioni forti con letture diverse. E come ha fatto spesso nella sua carriera pubblica di scrittrice e giornalista, racconta e riassume anche con efficacia libri famosi e meno famosi che l’hanno “fatta soffrire”, invece che mettere insieme la più consueta e prevedibile lista di libri consigliati (“che ho amato”, “che mi hanno cambiato la vita”, come in molti titoli). Ogni capitolo è un mese del diario dell’anno, questo è il secondo.

*****

Febbraio
Ho inventato un ricordo. Ero convinta che il mio primo amore tormentato fosse stato per un cupo romanzo di Djuna Barnes intitolato La foresta della notte.
Ero sicura fino a ieri mattina di averlo letto a tredici anni e che in copertina ci fosse l’immagine di una donna che fumava.
Ricordo mentre lo leggevo il fremito di desiderio di diventare, da adulta, identica alla protagonista. Un’intellettuale sofisticata, colta, dissipata e nevrotica – così la vedevo. La sua trasgressiva vita notturna e i salotti letterari della Parigi degli anni Venti sembravano, dalla mia cameretta di Ferrara, il paradiso. Ricordo anche il momento – che collocavo attorno ai miei trent’anni – in cui ho sentito di essere diventata davvero simile alla donna di quel romanzo: se non raffinata, almeno nevrotica. Ma vista da dentro quella complicatezza era molto meno affascinante di come me l’ero figurata, anzi era faticosa e miserevole. Quando lo capii maledissi la mia pessima determinazione nel cercare di mettere in pratica i sogni.
«Ora so qual è il guaio di quell’uomo, – disse il dottore. – Aveva un sogno e si è avverato. Ciò che dà bellezza a un ideale è la sua irraggiungibilità. Gli dèi ridono quando gli uomini ottengono quel che vogliono», scrive il mio William Somerset Maugham, tra i piú duraturi amori, in Acque morte.

A tredici anni ho iniziato a fumare. Al cinema, l’unico posto dove potevo andare senza che a mia madre venissero gli attacchi di ansia, accendevo una Gauloises col mozzicone dell’altra. Ho sempre attribuito questo vizio precoce al romanzo di Djuna Barnes, che ero convinta avesse in copertina l’immagine di una donna che fumava. Ieri ho trovato la mia vecchia copia di La foresta della notte, e ho scoperto che è del 1987. In copertina non c’è una donna che fuma, ma il dettaglio di un dipinto di Ary Renan (il pittore disabile figlio di Ernest Renan) del 1883, che raffigura una Saffo a seno nudo. La mia edizione è uscita quando avevo ventisei anni. Che ne avessi letta un’altra? Ma io mi ricordo proprio questa, con lo strillo di T. S. Eliot che dice solo: «L’orrore e il fato…
Esiste un’edizione Adelphi di quattro anni prima che ha un ritratto di Djuna Barnes in copertina, ma non sta fumando. E ci sono dei racconti giovanili, sempre pubblicati da Adelphi, intitolati Fumo, ma li ho letti pochi anni fa. Che la mia memoria abbia mescolato i tre libri? Credo che quella del fumo sia stata la prima scelta che ho fatto per fuggire dal prato di Celestino, diventato ai miei occhi insulso e infantile, e per avvicinarmi al mondo conturbante dei personaggi notturni che mi chiamavano dalle pagine di La foresta della notte.
Quando a trent’anni smisi di fumare – senza troppa fatica, perché del fumo mi piacevano piú i gesti che la nicotina – ripensai a quella copertina. Una copertina finita come quella di Celestino nel macero, ma della memoria.
Avrei giurato in tribunale che sulla mia copia del libro di Djuna Barnes fosse ritratta una donna elegante, con le guance scavate dai vizi, che fumava, e di averlo letto a tredici anni, ma la donna del mio ricordo era Djuna Barnes in persona!
Il web oggi è pieno di ritratti in cui appare torbida e affascinante. Dove l’avevo vista allora? Che l’avessi sognata? O prefigurata?
La donna che credevo di aver visto, invidiato e desiderato imitare era in realtà l’autrice del romanzo che mi aveva tanto impressionato, e io l’avevo immaginata prima di vederla.

La foresta della notte – titolo meraviglioso – uscí a Londra nel 1936. Era ambientato «nella foresta nera delle notti parigine, berlinesi e americane» e abitato da personaggi per me inediti e irresistibili: omosessuali, aspiranti artisti, psicotici, idealisti, aristocratici decaduti. Parlava di qualcosa di sconosciuto che mi attirava morbosamente.
Che incanto era quello? Ormoni? Chimica? Adolescenza?
Ieri, quando ho scoperto che la mia copia di La foresta della notte ha solo trentaquattro anni, ero desolata.
Oggi un’altra ricerca piú approfondita ha rivelato che fu tradotto in Italia per la prima volta quando avevo cinque anni, e soprattutto che il traduttore, Filippo Donini, ha centodieci anni ed è ancora vivo.
Non solo Filippo Donini è vivo (se non si tratta di un errore che non voglio scoprire), ma oltre a Djuna Barnes ha tradotto Quattro quartetti di Eliot, le Confessioni di un oppiomane di De Quincey, le poesie di Cristina Rossetti e Il signore delle mosche di Golding, ed è stato direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a New York: ho trovato una sua foto meravigliosa in cui nel 1959 premia con il David di Donatello Marilyn Monroe, che ha di fianco Anna Magnani.
Sono tutti in abito da sera. Filippo Donini è accanto a Marilyn Monroe, in pizzo nero, che sorride mentre si sistema un orecchino. Anna Magnani, vicino a lei, con lo sguardo serio e un solo guanto calzato, stringe tra le braccia un fascio di rose bianche.

Chi ha detto che la letteratura non è una cosa viva? Lo dico io, quando mi prendono certi momenti lagnosi e vado cianciando che avrei voluto fare il medico o almeno saper saltare la corda come Claudia.
Ma se un oscuro romanzo del 1936 ha il potere di viaggiare da Parigi a New York, passare attraverso i muri di una cameretta di Ferrara e sconvolgermi – che io l’abbia letto a tredici anni o a ventisei – forse le parole non sono cosí imbroglione come temevo da bambina, quando le usavo per cavarmela nei giochi.

Su Sologub invece non mi sbaglio: fu col suo Demone meschino che a tredici anni scoprii il male, le allucinazioni, lo squallore, l’assenzio e la menzogna, e mi piacquero un sacco.
Quella prima copia, già vecchia e squinternata, di un tascabile Garzanti rubato dalla libreria di mia sorella, ce l’ho ancora, anche se negli anni ne ho comprate tante altre edizioni.
Da allora sono passati quasi cinquant’anni e ho letto qualche migliaio di libri, non piú compulsivamente ma sempre con passione, e ora che sono uscita dalla fascinazione per ciò che è buio, autodistruttivo, sfigato e infelice, sbocciata con Sologub e fiorita col punk degli anni Ottanta, i miei vent’anni, ora che capisco cosa intendeva mia madre quando diceva di voler guardare solo film con «begli ambienti» e di non voler sentire parlare di malattie, come quel mio fidanzato che preferiva i ristoranti vetrati e luminosi alle mie candele, la bellezza alla bruttezza, le risate al pianto; ora che sono passata attraverso lutti, malattie, divorzi, e sono diventata come loro, una persona che ha avuto paura o una persona sana, chissà, una che sceglie ristoranti luminosi e mobili danesi, che vuole capire come funzionano le cose e ripararle invece di distruggerle, che ha smesso di glorificare il liceo classico e ammira chi ha una formazione scientifica, ora, ogni tanto, mi chiedo: «Ma io cosa so fare davvero? Qual è la cosa che mi riesce meglio, la disciplina in cui potrei gareggiare?» Vorrei saper correre fortissimo come mio cugino Marco (ancora!), avere il talento di cucinare piatti elaborati, lavorare a maglia, fare la ruota sulla spiaggia affollata, tuffarmi di testa, suonare la chitarra, fare calcoli a mente, resuscitare le piante, parlare altre due lingue: ognuno di noi ha qualcosa che sembra nato per fare.
Io so far parlare le persone (parole, parole, parole), scrivo, ma c’è una sola cosa in cui – se esistesse la disciplina olimpica – potrei puntare a primeggiare, ed è leggere velocemente. Non è un talento encomiabile, ma ce l’ho. Posso leggere un romanzo di trecento pagine in due ore. Posso leggere, ho letto, un libro di trecento pagine al giorno per ogni giorno dell’anno. Cosí come ora ci sfiniamo di serie televisive io mi sfinivo di libri. Nessuno veniva a sloggiarmi dal divano dove trascorrevo i pomeriggi: mia madre non ci trovava niente di male, anzi. Come sanno a memoria i miei lettori, mia madre Giannarosa soffriva cosí tanto di ansia che per lei ogni mio pomeriggio sul divano era un pomeriggio in cui mi veniva risparmiata una brutta fine: uscire di casa comportava il rischio – anzi, l’alta probabilità – che avessi un incidente o buscassi il micidiale mal di gola che sarebbe degenerato nel febbrone che mi avrebbe uccisa.

Ho scritto spesso di lei, anche in uno spettacolo teatrale intitolato La coscienza dell’ansia: «Tutto quello che ho fatto lo devo a mia madre e alla sua ansia, che mi hanno rovinato e salvato la vita. […] Plotino, Platone, Hillman sostengono che l’anima, in associazione col daimon, scelga i genitori, il luogo, le circostanze e il corpo dove nascere. La nostra anima si sceglie i genitori che le sconvolgeranno la vita nel modo in cui era necessario venisse sconvolta perché diventassimo noi stessi e trovassimo la nostra vocazione. La mia anima scelse mia madre».

© 2022 Giulio Einaudi Editore