Coi jetpack ancora non ci siamo

Hanno problemi e criticità difficilmente superabili: lo ha raccontato lo scrittore Dave Eggers, che ne ha provato uno

(Mark Thompson/Getty Images)
(Mark Thompson/Getty Images)

«Da millenni», ha fatto notare sul Guardian lo scrittore Dave Eggers, «gli esseri umani sognano di volare, e da decenni dicono di volere i jetpack. Ma è davvero così? Guardate su, i cieli sono vuoti». In effetti, tolti aerei ed elicotteri, il volo privato è ancora perlopiù fantascienza. A cominciare dai jetpack, il nome con cui si identificano gli “zaino-razzo” che grazie a una propulsione a getto permettono a chi li indossa di sollevarsi da terra. Come ha scritto Eggers, che nel suo articolo ha raccontato cosa si prova a provarne uno: «Abbiamo i jetpack e non ce ne frega niente».

Parte del motivo per cui non ce ne frega niente sta nel fatto che i jetpack, quelli veri, che esistono da qualche anno, sono per ora troppo cari, rumorosi, pericolosi e macchinosi, oltre che parecchio diversi da come la fantascienza aveva fatto credere potessero essere.

Come succede spesso, le prime illustrazioni e descrizioni di futuribili zaini a razzo arrivarono ben prima che la tecnologia permettesse di realizzarli. A fine Ottocento parlò di qualcosa di simile il romanzo The Country of the Pointed Firs e nelle storie sui jetpack salta spesso fuori questa copertina di un numero del 1928 della rivista statunitense di fantascienza Amazing Stories. 

Dopo qualche decennio in cui i jetpack apparvero qua e là nei fumetti, al cinema e in televisione (in certi casi come stratagemma per far volare personaggi senza dare l’idea di voler emulare troppo Superman), negli anni Sessanta i casi si fecero più frequenti, ed è piuttosto noto il jetpack usato all’inizio del film del 1965 Agente 007 – Thunderball. 

Agente 007 – Thunderball (Operazione tuono)

Da Star Wars a Minority Report, da Le avventure di Rocketeer a Grand Theft Auto: San Andreas, i jetpack hanno continuato a farsi vedere, diventando spesso – assieme alle macchine volanti e a qualche altro piccolo strumento di volo – un’utile scorciatoia visiva per dare l’idea di qualcosa di futuribile.

Intanto, i jetpack si erano affacciati anche nella realtà. Come racconta il libro Jetpack Dreams – dedicato agli «alti e bassi (ma soprattutto bassi) di una grande invenzione che forse non lo era» – già nei primi anni del Novecento l’inventore russo Aleksandr Fyodorovich Andreyev aveva teorizzato un prototipo di jetpack che si immaginava potesse avere soprattutto usi militari, per esempio nel superare le trincee.

Negli anni Sessanta arrivò un più concreto prototipo, il Rocket Belt sviluppato dall’azienda aerospaziale Bell Aircraft, che permetteva a chi lo indossava di volare per circa venti secondi. Fu indossando una variazione e un’evoluzione di quel prototipo che nel 1984, alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Los Angeles, ci fu quello che ancora oggi è forse il più famoso caso d’uso di un jetpack.

Fu un momento notevole e, come ha scritto Eggers, «si può capire perché l’umanità iniziò a credere che i jetpack fossero davvero dietro l’angolo».

(GettyImages)

Invece, anche negli ormai quasi quarant’anni che sono passati da quel momento, le cose non sono molto cambiate. Come ha notato Mashable, sono insomma molti anni che i jetpack «continuano a essere qualcosa che sembra poter arrivare tra qualche anno». Talvolta risaltano fuori in qualche grande evento, come nel 1992 ad alcuni concerti di Michael Jackson (ma non era lui a volarci) o come successo più di recente prima di un paio di Gran Premio di Formula 1.

Da qualche tempo, i jetpack sono diventati un ottimo simbolo di qualcosa che sembrava il futuro e che invece non è per niente parte del presente: c’è addirittura un intero libro, dedicato al “futuro che si rifiuta di arrivare” intitolato Where’s My Jetpack?.

La miglior versione attuale di jetpack è quella sviluppata da Jetpack Aviation, una società fondata nel 2016 dal miliardario australiano David Mayman, che è anche il più abile pilota dei jetpack che produce e al quale è capitato, tra le altre cose, di volarci attorno alla Statua della Libertà, e che a proposito del “abbiamo i jetpack e non ce ne frega niente”, ha detto a Eggers: «Un paio di anni fa volai sulla baia di Sydney, ricordo ancora che scesi a così pochi metri da poter vedere chi faceva jogging o passeggiava in riva all’oceano, e alcuni di loro nemmeno si girarono a guardarmi. Il jetpack è rumoroso, ti assicuro che mi sentirono, eppure la cosa sembrò non importare loro».

Eggers è finito a parlare con Mayman e scrivere un articolo sui jetpack perché, come ha raccontato sul Guardian, dopo i 40 anni ha sviluppato un certo interesse per il volo, «più per aumento di tempo libero da sfruttare che per crisi di mezza età». Una cosa tira l’altra ed Eggers si è quindi trovato in un campo nel sud della California, assieme a un altro paio di persone, a provare sulle sue spalle uno dei due modelli di jetpack prodotti dalla società di Mayman, il JB10. Lo ha descritto così:

«È un oggetto semplice e bello. Ha due motori turbojet appositamente modificati, un capiente serbatoio per il carburante e due maniglie, quella a destra fa accelerare e quella a sinistra fa curvare». Ci sono elementi computerizzati, certo, ma perlopiù è una macchina semplice da capire. Ha proprio l’aspetto che un jetpack dovrebbe avere e non ci sono sprechi di spazio o di peso. La sua spinta massima è pari a 1700 N. La capacità del serbatoio è di 43 litri. Se è vuoto, il jetpack pesa 37 chilogrammi».

Eggers e compagni sono stati sottoposti a un briefing di qualche minuto, simili a quelli in cui si prova qualcosa di nuovo per la prima volta, che sia l’attività subacquea o la guida sportiva, si sono vestiti con tutte le protezioni e precauzioni del caso, molte delle quali legate all’evitare di ustionarsi o prendere fuoco nel caso qualcosa fosse andato storto. In merito alla sua personale esperienza ha scritto che, una volta messo lo zaino e le imbracature varie, «ci si sente come prima di fare paracadutismo, specie in zona inguinale».

Per sicurezza, Eggers e gli altri hanno volato restando legati a una corda, alzandosi a poco più di un metro da terra. «L’accensione» ha scritto «ricorda il suono di un uragano di categoria 5 che passa attraverso una grondaia» e che una volta che si vola «la sensazione non è per niente assimilabile alla leggerezza e all’assenza di peso». Eggers ha poi spiegato: «a differenza di altre esperienze di puro volo, che sfruttano il vento e cavalcano l’aria, con il jetpack c’è solo forza bruta», e gestire i comandi «richiede una totale concentrazione fisica e mentale» di cui ha scritto: «la paragonerei a surfare delle grandi onde (cosa che comunque non ho mai fatto)». Risulta particolarmente difficile, secondo il resoconto di Eggers, andare avanti e indietro.

Come suggerisce l’esperienza di Eggers, il volo con jetpack non è ancora decollato davvero perché, per ora, i problemi sono ancora troppi. Il primo riguarda i pericoli legati all’uso: quelli conseguenti all’avere litri di cherosene in uno zaino e quelli a cui si andrebbe incontro precipitando o anche solo atterrando male. È vero, ha scritto Eggers, che «ogni giorno riempiamo le nostre auto di carburante altamente infiammabile, ma c’è comunque – o ci illudiamo ci sia – una confortevole distanza tra noi e quel che può esplodere». Con i jetpack quella distanza non c’è, e non ci sono nemmeno decenni di perfezionamenti e regolamenti per evitare il peggio.

Va poi detto che finora Mayman non ha trovato modo di integrare un paracadute al jetpack.

Peraltro, come scrisse qualche anno fa il Wall Street Journal, nella maggior parte dei casi i jetpack volano «troppo in basso perché si faccia in tempo a usare un paracadute e troppo in alto perché si possa sopravvivere a una eventuale caduta».

Altro problema: il tempo. Per i rapporti di peso e potenza necessari al volo, c’è un limite alla quantità di carburante che si può mettere nel jetpack, e per ora quel limite comporta un’autonomia di circa otto minuti. In futuro, potrebbero arrivare jetpack elettrici, ma per il momento le loro batterie sarebbero troppo pesanti e non abbastanza potenti per il volo.

Oltre che pericolosi, rumorosissimi, macchinosi da pilotare e incapaci di garantire più di qualche minuto di volo per ogni pieno, i jetpack – non solo quelli di Mayman – sono anche parecchio cari. A oggi, quando si pensa alle loro eventuali applicazioni nei prossimi anni, si pensa soprattutto a situazioni estreme ed emergenziali, che però sarebbe meglio non avessero a che fare con il fuoco, o a contesti artistici, cinematografici o pubblicitari.

E anche se per assurdo dopodomani dovessero arrivare jetpack leggeri, che costano come un motorino e funzionano con una batteria di giusto qualche chilo, resterebbe il grande problema di regolarne l’uso, cosa che già risulta difficile fare con i droni, che hanno la rilevante differenza di non avere un essere umano a bordo.

Eppure, come fa notare Eggers, molte delle critiche e delle perplessità che riguardano i jetpack ricordano quelle che circa un secolo fa riguardarono i fratelli Wright e le loro idee sull’aviazione. Intanto, Jetpack Aviation non si occupa solo di jetpack, ma anche di altri mezzi per volo VTOL (con cui si fa riferimento a quelli a decollo ed atterraggio verticale), e che siano pensati per un unico pilota/passeggero.

Per quanto riguarda i jetpack, invece, da ormai qualche anno Jetpack Aviation sta anche pensando di organizzare delle competizioni.

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