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  • Martedì 18 gennaio 2022

In Germania sarà abolito il divieto di dare informazioni sull’aborto

Risale all'epoca nazista e vieta ai medici di parlare pubblicamente dei metodi utilizzati per interrompere la gravidanza

Attiviste chiedono l'abolizione dell'articolo 219a sui diritti riproduttivi delle donne, Berlino, 26 gennaio 2019 (Michele Tantussi/Getty Images)
Attiviste chiedono l'abolizione dell'articolo 219a sui diritti riproduttivi delle donne, Berlino, 26 gennaio 2019 (Michele Tantussi/Getty Images)

Dopo la raccolta di migliaia di firme e manifestazioni e proteste dei movimenti femministi che proseguono fin dagli anni Settanta, il nuovo governo tedesco ha fatto sapere di voler depenalizzare l’informazione sulle pratiche abortive prevista da un articolo del codice penale che risale all’epoca nazista: dal 1933, ai medici tedeschi è vietato fornire qualunque informazione sui metodi utilizzati per abortire.

I partiti del nuovo governo tedesco – guidato dal socialdemocratico Olaf Scholz e sostenuto, oltre che dal suo partito, anche dai Verdi e dai Liberali dell’FDP – avevano proposto la riforma lo scorso novembre, durante i negoziati di coalizione. Il progetto di legge è stato ora presentato dal ministro della Giustizia Marco Buschmann e dice che «i medici devono essere in grado di sostenere le donne in questa difficile situazione senza timore di essere perseguiti penalmente».

Due suore guardano la scritta fatta dalle femministe sulla porta d’ingresso della cattedrale di Monaco di Baviera che dice: “L’articolo 218 deve essere abolito”, 15 aprile 1974 (AP Photo/Dieter Endlicher)

La situazione dei diritti riproduttivi delle donne, delle donne con gravidanze a rischio o indesiderate, ha detto Buschmann «è già abbastanza difficile: non dovremmo renderla ancora più difficile». Molte donne cercano consigli e informazioni anche online, ha spiegato il ministro, «ma non può essere» che i professionisti che «sono particolarmente qualificati per fornire informazioni sull’esecuzione di tali procedure non siano autorizzati a farlo». Che questo non sia attualmente possibile «è insostenibile», ha concluso.

Manifestazione per chiedere l’abolizione dell’articolo 219a, Berlino, 26 gennaio 2019 (Michele Tantussi/Getty Images)

L’interruzione di gravidanza, in Germania, è regolata dagli articoli 218 e 219 del codice penale: l’aborto è inserito nella sezione dei reati «contro la vita» e sta vicino a crimini come l’omicidio e l’omicidio colposo. Il primo dei due articoli, dopo aver definito l’interruzione di gravidanza come un reato, indica le condizioni alle quali quel reato non è punibile: entro le 12 settimane dal concepimento e oltre le 12 settimane in caso di stupro, pericolo di vita per la donna o malformazioni del feto.

L’articolo 219a – che fu introdotto nel 1933 dal partito nazista come parte di una campagna demografica per la protezione della cosiddetta “razza ariana” – proibisce ai medici di dare informazioni sulla possibilità di abortire se queste informazioni sono in qualche modo legate ai loro stessi servizi.

E questo significa che una donna che ha deciso di abortire non può accedere a tutte le informazioni necessarie, con la conseguenza di rendere la scelta solo più difficoltosa. Il divieto di informare sui metodi dell’interruzione di gravidanza, dicono i movimenti femministi, è insomma una sostanziale limitazione e stigmatizzazione della pratica stessa.

Manifestazione per l’abolizione dell’articolo 219a del codice penale. Sul cartello c’è scritto che dare informazioni non coincide con il fare pubblicità, Berlino, 26 gennaio 2019 (Michele Tantussi/Getty Images)

Chi si oppone al diritto di aborto utilizza regolarmente il 219a per intimidire e colpire medici e cliniche e i tribunali ne hanno dato un’interpretazione rigorosa.

Nel 2017, su denuncia di un gruppo antiabortista, la ginecologa Kristina Hänel era stata condannata dal tribunale di Gieβen, in Assia, per aver pubblicato sul proprio sito un documento in PDF in cui dava indicazioni sull’aborto farmacologico e chirurgico. Hänel era stata dichiarata colpevole di “pubblicizzare” l’aborto e il tribunale aveva precisato che il 219a aveva l’obiettivo di impedire la «normalizzazione» dell’aborto stesso. Hänel si era opposta e con i movimenti femministi aveva avviato una campagna di protesta che era stata presentata al parlamento.

Il caso aveva portato alla riapertura delle discussione a livello istituzionale: i partiti di sinistra e di centrosinistra del Bundestag si erano mostrati uniti nell’intento di abolire l’articolo 219a, mentre i partiti conservatori, compresa l’Unione cristianodemocratica (CDU) dell’allora cancelliera Angela Merkel, si erano dichiarati favorevoli a mantenere la clausola così com’era. Nel febbraio del 2019 era stato raggiunto un compromesso al ribasso e il Bundestag aveva riformulato l’articolo 219a nella sua attuale versione: i medici possono comunicare che l’aborto fa parte dei servizi offerti, ma dare pubblicamente informazioni sul metodo di queste stesse pratiche resta vietato.

La versione modificata non ha comunque impedito che i medici continuino a essere denunciati dagli antiabortisti. Un caso molto ripreso dai giornali internazionali è stato quello della condanna di due ginecologhe di Berlino, Bettina Gaber e Verena Wayernon, che avevano segnalato sul sito internet del loro ambulatorio di praticare l’aborto «con metodi privi di medicine e anestesie». La specifica, secondo il tribunale, forniva informazioni sul metodo e dunque rientrava nei casi puniti dall’articolo 219a.

Manifestazione femminista a favore dell’aborto, Francoforte, 16 marzo 1974 (AP Photo/Kurt Strumpf)

Fin dagli anni Settanta, i movimenti femministi tedeschi hanno lanciato delle campagne per l’abolizione di questa parte del codice penale. Hanno organizzato proteste e manifestazioni, la più recente risale allo scorso novembre. A tutti «i partiti democratici», in vista dei negoziati per la formazione della nuova maggioranza di governo, era stata presentata una petizione per cancellare dal codice penale lo «scandaloso comma» scritto dai nazisti: «Gli aborti ci sono sempre stati ed esisteranno sempre. La questione chiave è se vengono praticati in modo sicuro e se i medici che li eseguono devono continuare ad affrontare pene che prevedono anche il carcere».