La mafia più sottovalutata è la “quarta”

Cioè quella che agisce in Puglia, divisa in tre ramificazioni e insediata da tempo anche al Nord, sempre più potente e violenta

di Stefano Nazzi

La bomba che ha distrutto uno dei negozi colpiti a San Severo in provincia di Foggia, 11 gennaio 2022.
(Ansa/Franco Cautillo)
La bomba che ha distrutto uno dei negozi colpiti a San Severo in provincia di Foggia, 11 gennaio 2022. (Ansa/Franco Cautillo)

Nei primi undici giorni di gennaio nella provincia di Foggia sono esplose otto bombe. Tre a San Severo, una a Vieste, quattro a Foggia. Sono stati colpiti un parrucchiere, una concessionaria di auto, un negozio di giochi, una profumeria, un fioraio, una ditta di distribuzione di caffè, un ristorante e l’abitazione del parente di un presunto esponente della criminalità organizzata. Tano Grasso, ex politico, fondatore della Federazione associazioni antiracket e antiusura, dice che queste bombe sono «il marketing della mafia, uno spot pubblicitario rivolto agli imprenditori» che colpisce principalmente chi si rifiuta di pagare il pizzo. La ministra dell’Interno Luciana Lamorgese il 17 gennaio a Foggia presiederà la riunione straordinaria del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica.

Le estorsioni sono la “specialità” della Società foggiana, una delle tre ramificazioni, assieme a quella garganica e a quella cerignolana, della mafia della Capitanata, la zona della Puglia settentrionale che corrisponde alla provincia di Foggia. È la cosiddetta quarta mafia dopo cosa nostra, camorra, ’ndrangheta: l’ultima arrivata e la più sottovalutata. Almeno fino a poco tempo fa.

Controlla infatti l’attività criminale di un territorio molto vasto: la provincia di Foggia è la terza per grandezza dopo Sassari e Bolzano, è più vasta dell’intera regione Liguria. Detiene alcuni record negativi: è la provincia al primo posto in Italia, secondo il report annuale del Sole 24 Ore, in quanto a numero di estorsioni denunciate (28,1 ogni 100mila abitanti) ed è seconda in classifica, dietro Caltanissetta, per numero di omicidi volontari (2,3 ogni 100mila abitanti). È seconda, dietro Crotone, per tentati omicidi (3,9 ogni 100mila abitanti) ed è al terzo posto dopo Reggio Calabria e Vibo Valentia per denunce per associazione mafiosa (1,5 ogni 100mila abitanti).

Che si tratti di mafia lo hanno stabilito sentenze della magistratura. Secondo la Relazione del II semestre al Parlamento sull’attività della Direzione Investigativa Antimafia, in Puglia c’è «un trend di crescita dei delitti di associazione di tipo mafioso espressivi sia delle tradizionali attività criminali del controllo del territorio, sia di quelle che denotano una vocazione affaristica e finalizzata al riciclaggio anche fuori regione». È scritto nella relazione: «Alla struttura operativa in senso criminale si accompagna quella economica che annovera non solo imprenditori collusi ma anche commercialisti e professionisti di varia estrazione nonché esponenti della pubblica amministrazione».

Il comune di Foggia, nell’agosto scorso, è stato sciolto per associazione mafiosa. In precedenza era successo solo a un altro capoluogo di provincia, Reggio Calabria, nel 2012. Il sindaco della Lega, Franco Landella, è indagato per corruzione e concussione. Altre amministrazioni comunali della provincia erano state sciolte in precedenza: Cerignola, Monte Sant’Angelo, Mattinata e Manfredonia.

Il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho ha definito la situazione criminale del foggiano una «emergenza nazionale». Ha detto che la quarta mafia «non soltanto spara, ma si infiltra nelle attività economiche e con la violenza sottomette la popolazione e le imprese».

Antonio Laronga, procuratore aggiunto di Foggia e autore del libro Quarta Mafia, dice al Post che «la mafia della Capitanata, come cosa nostra, ’ndrangheta e camorra, si è infiltrata anche oltre la sua regione d’origine, contaminando realtà economiche in precedenza sane. A differenza delle altre mafie è stata poco raccontata, poco considerata, almeno fino alla strage di San Marco in Lamis».

Il furgoncino su cui viaggiavano i fratelli Aurelio e Luigi Luciani, uccisi a San Marco in Lamis il 9 agosto 2017 perché avevano assistito all’agguato contro un boss della mafia garganica (Foto Ansa).

Fu proprio ciò che avvenne il 9 agosto 2017 a San Marco in Lamis a mostrare a tutti, se mai ce ne fosse stato bisogno, la ferocia della mafia foggiana. Quel giorno alcuni sicari tesero un agguato al boss Mario Luciano Romito, uscito di prigione qualche giorno prima, e a suo cognato Matteo De Palma, che lo stava accompagnando in auto a un vertice d’affari in una masseria. A sparare furono probabilmente i membri del clan nemico dei Li Bergolis. Due fratelli agricoltori, Aurelio e Luigi Luciani, erano a bordo di un furgone Fiorino bianco, poche decine di metri dietro l’auto di Romito. Gli assassini, per eliminare i testimoni, li uccisero a colpi di Kalashnikov e pistola.

L’agguato fu deciso per vecchi rancori e tradimenti, ma anche a causa dell’annosa guerra per il controllo di Vieste, «luogo chiave», come scrive il giornale dell’associazione Libera, «per l’economia legale e illegale del Gargano: ogni anno centinaia di migliaia di turisti affollano i suoi lidi, dormono nei suoi alberghi, mangiano nei suoi ristoranti, ballano nelle sue discoteche, e comprano droga».

In quarant’anni la mafia foggiana ha compiuto centinaia di omicidi e si è imposta nel mercato criminale delle estorsioni, del narcotraffico e del contrabbando. Poco considerata e poco osservata, negli ultimi tempi si è evoluta, è diventata più moderna, e come la ’ndrangheta si è infiltrata dentro a imprese sane e nell’amministrazione pubblica, ramificandosi anche al Nord.

Nella zona del capoluogo di provincia agisce la Società foggiana, la zona di Vieste è presidiata dalla mafia garganica, o mafia dei montanari, mentre nel basso Tavoliere il territorio è controllato dalla mafia cerignolana che da una parte si è infiltrata in attività economiche e finanziarie apparentemente legali, dall’altra continua a praticare le sue attività storiche: l’assalto ai furgoni blindati e ai caveau.

C’è poi una quarta organizzazione che si sta affacciando nel mondo criminale come “mafia autonoma”: è il gruppo di San Severoche sta guadagnando autonomia rispetto alla Società foggiana. Le ramificazioni convivono, si alleano, a volte cooperano. «L’organizzazione è simile a quella della ’ndrangheta, verticistica e familiare, al posto delle ‘ndrine ci sono le batterie, così vengono chiamati i vari gruppi che appartengono all’organizzazione», dice Laronga. «Non ci sono riti di affiliazione ma i legami e il senso di appartenenza sono molto forti. Fenomeni di pentitismo ci sono stati, ma non molto diffusi».

– Leggi anche: L’importanza dei riti, e dei ghiri, per la ’ndrangheta

La Società foggiana nacque per “colonizzazione”. Tra il 1977 e il 1978 a Napoli scoppiò una guerra di camorra tra la Nco, la Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo, e la Nuova famiglia, guidata da Michele Zaza, dai fratelli Nuvoletta e da Antonio Bardellino. Questi ultimi si erano ribellati alla decisione di Cutolo di far pagare una tassa su ogni attività di contrabbando. La guerra durò molti anni e in quel periodo, per non trasferire gli scontri nelle carceri campane, il ministero della Giustizia decise – col senno di poi con scarsa lungimiranza – di inviare gli affiliati della Nco nelle carceri pugliesi.

Gli uomini di Cutolo fecero proseliti, attraendo decine di persone con precedenti criminali fino a dare vita a quella che lo stesso Cutolo battezzò Grande camorra pugliese. La nascita ufficiale è datata 5 gennaio 1979, quando si tenne una riunione all’Hotel Florio lungo la statale tra Foggia e San Severo. All’incontro partecipò lo stesso Cutolo, che l’anno prima era scappato dal manicomio criminale di Aversa: alcuni membri della Nco avevano fatto esplodere con la nitroglicerina il muro di cinta dell’ospedale.

La guerra di camorra fece circa 1.500 morti e durò fino a metà degli anni Ottanta. La Nco di Cutolo venne sconfitta e ne uscì molto indebolita. Fu a quel punto che i foggiani si presero la loro autonomia entrando però a far parte, poco dopo, di un altro cartello criminale che nel frattempo era nato più a sud, a Trani. Fu nel carcere locale che Giuseppe Rogoli, affiliato della ’ndrangheta, chiese il permesso ai suoi capibastone di reclutare criminali pugliesi per creare una filiale della ’ndrangheta calabrese. Nacque la Sacra corona unita, emanazione della ’ndrangheta in territorio pugliese.

I foggiani entrarono però presto in contrasto con il resto del cartello, e da allora agiscono in autonomia sotto la sigla di Società foggiana. La Sacra corona unita è oggi indebolita dai processi e dagli arresti, e resta lontana dai territori del foggiano mantenendo la sua sfera di influenza soprattutto nel leccese.

Da sempre il centro delle attività della Società foggiana sono le estorsioni. «Certo», dice Laronga, «le batterie foggiane sono attive in tutte le attività criminali ma l’estorsione è il cosiddetto “core business”, l’attività principale». Il pagamento del pizzo tra Foggia e San Severo è una consuetudine radicata e preservata attraverso omicidi, ferimenti e bombe.

Il 14 settembre del 1990 fu assassinato il costruttore Nicola Ciuffreda. Giovanni Pannunzio invece morì la sera del 6 novembre 1992. Era un imprenditore edile e si era ostinatamente rifiutato di pagare il pizzo: fu ucciso da due sicari in moto che affiancarono la sua Fiat Panda. Il 31 marzo del 1995 Francesco Marcone fu ucciso nell’androne di casa: era direttore dell’ufficio del registro di Foggia e aveva denunciato le truffe messe in atto dai falsi mediatori che promettevano il disbrigo veloce e facile di pratiche nel suo ufficio.

Prima in guerra tra loro, le batterie della Società foggiana hanno trovato da 15 anni una “pax mafiosa” stabile. Con l’infiltrazione nel mercato delle pompe funebri iniziarono un’espansione dei propri affari nelle attività economiche legali. L’infiltrazione continua ancora oggi mentre le bombe di questi giorni hanno dimostrato che la Società foggiana non rinuncia alle estorsioni su tutto il territorio. Spiega Laronga: «Ci sono due tipi di estorsione, l’estorsione “atto” e quella “abbonamento”. La prima colpisce l’imprenditore forestiero che si ferma sul territorio solo per un tempo limitato. Il clan non ha interesse a creare una relazione, colpisce con violenza per avere un pagamento, di grande consistenza, una tantum. L’estorsione abbonamento è quella che può durare invece tutta la vita: l’imprenditore locale deve riconoscere alla Società foggiana la sua tassa di sovranità».

– Per approfondire, ascolta: Un vescovo nelle terre della Quarta mafia, la 9ª puntata del podcast di Strade Blu.

Nacque invece da una faida la mafia garganica. Fu la cosiddetta faida di Monte Sant’Angelo, o faida dei montanari: si scontrarono, alla fine degli anni Settanta, una ventina di famiglie, per un totale di centinaia di persone coinvolte. Da una parte c’era il gruppo che faceva capo alla famiglia dei Li Bergolis, dall’altra i Primosa e gli Alfieri. La guerra andò avanti tra omicidi, ferimenti, vendette e paci provvisorie per oltre vent’anni con i Li Bergolis che imposero la propria leadership e il controllo sul contrabbando di sigarette proveniente da Albania e Montenegro.

Nel 2004, dopo l’omicidio di un sicario della famiglia Li Bergolis, fu indetto un incontro in cui si sarebbe dovuta firmare una pace definitiva e duratura tra i montanari, i Li Bergolis, e la famiglia allora rivale, quella dei Lombardi. A organizzare l’incontro nella masseria Orti Frenti, a San Giovanni Rotondo, fu una famiglia molto vicina ai Li Bergolis, i Romito di Manfredonia. Erano però diventati confidenti dei carabinieri: tutto l’incontro fu registrato, e i Romito furono abilissimi nel far emergere accuse e contro accuse tra i Li Bergolis e i Lombardi, che si rinfacciarono omicidi e parlarono apertamente di tutte le loro attività criminali.

Nel giugno del 2004 vennero emesse 99 ordinanze di custodia cautelare: ai due clan del promontorio venne riconosciuta la natura di associazione mafiosa. Il doppio gioco dei Romito fu scoperto: iniziò così una nuova guerra con omicidi da una parte e dall’altra. La sera del 26 ottobre 2009 fu ucciso, nella sua masseria, Francesco Li Bergolis, detto Ciccillo u’ calacarulo (“calcinaio”). Gli spararono un colpo di lupara alla schiena e poi sei colpi di pistola in faccia a distanza ravvicinata, secondo il rito di morte garganico. Con lui si estinse la generazione dei Li Bergolis che aveva dato vita alla faida di Monte Sant’Angelo.

La guerra continuò fino a culminare nella strage di San Marco in Lamis. «La mafia garganica, come tutte le mafie, è tante cose. Le sfere d’influenza spaziano dal controllo della attività economiche alla creazione di joint venture con altre organizzazioni fino al condizionamento dell’apparato amministrativo e politico locale», spiega Laronga. Tutto ruota però attorno al traffico di droga. Le coste garganiche, con insenature nascoste e poco accessibili, sono ideali per il traffico di hashish e marijuana proveniente dall’Albania. Sia i Li Bergolis che i Romito hanno solide alleanze con le organizzazioni balcaniche attive nel narcotraffico.

Francesco Li Bergolis, patriarca del clan dei montanari, il giorno del suo arresto nel 2004. L’anno dopo fu ucciso da un clan rivale (Franco Cautillo/Ansa)

L’ultima ramificazione della quarta mafia è quella cerignolana, che i magistrati definiscono «blindata e controllante», con regole rigide e comportamenti quasi di tipo militare, dominata da due clan, i Piarulli e i Di Tommaso. I Piarulli sono detti “i milanesi” perché da anni sono insediati nel territorio di Rozzano, comune a sud di Milano. Da Rozzano negli anni sono partiti gli ordini per la gestione delle attività criminali a Cerignola, concentrate soprattutto nel narcotraffico. I Piarulli hanno accordi con i narcos sudamericani e negli anni hanno stretto un’alleanza con la famiglia Papalia, una potente ‘ndrina calabrese insediata a Buccinasco, altro comune del milanese, e con i palermitani Mannino, di base nel quartiere milanese Gratosoglio, sempre nella zona sud di Milano. Dal Nord, i capi cerignolani hanno sempre controllato in maniera rigida le attività criminali nella città d’origine.

Il clan Di Tommaso ha invece il suo centro d’azione in un quartiere di Cerignola, il San Samuele, detto “Fort Apache”. Si estende per sette ettari a nord est di Cerignola. Nel libro di Laronga è descritto come «un quartiere completamente slegato dal contesto urbano, privo di servizi (…) un posto a rischio dove il cerignolano di città non deve entrare. (…) Nelle cantine di persone insospettabili o negli scantinati condominiali vengono nascoste armi da guerra micidiali, bazooka e fucili mitragliatori che arrivano direttamente dai Balcani. (…) Pasquale Di Tommaso, il patriarca, recintò il giardino di quartiere come se fosse di sua proprietà».

È da Fort Apache che è spesso partita negli anni la progettazione dell’attività criminale di cui i cerignolani sono massimi esperti: gli assalti ai portavalori e i colpi ai caveau. Quando sulle autostrade in tutta Italia avvengono rapine con blocchi, uso di armi da guerra, di ruspe o di disturbatori di frequenze, gli investigatori per prima cosa iniziano a indagare tra i cerignolani.

L’organizzazione è paramilitare e divisa in settori di competenza: ci sono i ladri dei mezzi da utilizzare nel colpo, auto veloci per i rapinatori e ruspe e camion per bloccare le strade. Poi ci sono i “soldati”, con le armi da guerra e l’esplosivo, infine i cosiddetti “cassettari”, gli esperti di fiamma ossidrica e mototroncatrici. Una settimana prima del colpo i membri che vi prenderanno parte lasciano la propria casa, abbandonano carte di credito, bancomat, documenti, si disfano dei cellulari e comunicano tra loro solo tramite ricetrasmittenti con radiofrequenze schermate.

Il fermo immagine di un video della rapina compiuta nel gennaio del 2019 sulla strada Rho-Monza dai cerignolani, a un furgone che trasportava gioielli Bulgari (Foto Polizia di Stato)

Le rapine avvengono in tutta Italia e spesso sono spettacolari. L’8 marzo 2011 un gruppo di cerignolani bloccò tutte le strade di Poggio Bagnoli, in provincia di Arezzo, poi con un escavatore sfondò il caveau di una ditta portando via una cassaforte con un quintale e mezzo d’oro. Nel 2014 a Foggia fu attaccato il caveau di un istituto di vigilanza. Venne isolato un intero quartiere, il Villaggio Artigiani, e con un escavatore fu sfondata la parete esterna dell’istituto. I rapinatori riuscirono a scappare, senza bottino, solo dopo un violento scontro a fuoco con la polizia.

Il 30 settembre 2016, nel tratto della A12 tra Rosignano e Collesalvetti, in provincia di Livorno, i banditi cerignolani si travestirono da poliziotti e bloccarono il traffico in una galleria costringendo gli automobilisti a mettere le proprie auto di traverso. Quando arrivò un blindato della Mondialpol iniziò uno scontro a fuoco in cui i banditi spararono 170 colpi di AK47. Gli uomini della Mondialpol resistettero e la rapina non andò a buon fine. Nessuno rimase ucciso. Un’altra rapina, raccontata nel libro Quarta Mafia, fu quella compiuta a Catanzaro con l’autorizzazione delle ‘ndrine locali. Il caveau della Società Sicurtransport venne sfondato grazie a una ruspa dotata di martello pneumatico. I banditi portarono via otto milioni e mezzo di euro in contanti. Furono tutti arrestati perché la fidanzata del basista locale collaborò con la magistratura.

Foggiani, cerignolani e garganici convivono senza federarsi o darsi un vertice comune, esattamente come nella ’ndrangheta. Non si combattono, però. A volte concludono alleanze di scopo, più spesso si muovono nel proprio territorio cercando di non darsi fastidio. È una mafia, dice Laronga, fondata su «pragmatismo, familismo e solidarismo» che, a differenza delle altre organizzazioni, non blocca le attività della microcriminalità ma invece la lascia libera di agire salvo poi pretendere tasse su ogni attività, anche la più marginale. Nella prefazione del libro di Laronga don Luigi Ciotti, fondatore di Libera, ricorda i nomi delle vittime innocenti delle mafie nel foggiano. Tra loro ci sono anche i 12 braccianti, tutti migranti, che il 6 agosto 2018 morirono in un incidente sulla statale 16 nel territorio di Lesina. Morirono stipati in un furgone mentre tornavano dalla raccolta di pomodori. Erano stati reclutati dai caporali che, sotto il controllo della quarta mafia, gestiscono il traffico di esseri umani in tanti campi agricoli pugliesi.