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  • Lunedì 27 dicembre 2021

Al Giappone continuano a piacere poco gli immigrati

Nonostante qualche apertura, ancora oggi ci sono episodi di discriminazione ed esclusione, promossi spesso delle istituzioni

Lavoratori vietnamiti a Honjo, nella prefettura di Saitama, in Giappone, nel febbraio del 2021 (Carl Court/ Getty Images)
Lavoratori vietnamiti a Honjo, nella prefettura di Saitama, in Giappone, nel febbraio del 2021 (Carl Court/ Getty Images)

La settimana scorsa il governo locale di Musashino, una città di 150mila abitanti nella periferia di Tokyo, ha respinto una proposta di ordinanza che avrebbe permesso a circa 3mila abitanti stranieri di votare nei referendum locali, come accade già in altre città giapponesi. Prima ancora, a fine novembre, il governo centrale del primo ministro Fumio Kishida aveva rafforzato le restrizioni per l’ingresso delle persone straniere nel territorio nazionale, per limitare la circolazione dei contagi da coronavirus legati alla variante omicron. In più, funzionari dell’amministrazione statunitense in Giappone avevano segnalato episodi discriminatori da parte della polizia giapponese verso persone straniere.

Il Giappone è un paese notoriamente conservatore sul tema dell’immigrazione, anche se negli ultimi anni aveva adottato posizioni più aperte per necessità. Gli ultimi episodi, hanno sostenuto alcuni analisti, hanno però mostrato come nel paese continuino a esserci forti resistenze verso politiche più accoglienti e meno discriminatorie nei confronti degli immigrati.

L’ordinanza respinta a Musashino era stata proposta dalla sindaca Reiko Matsushita, attirando poi le attenzioni di vari politici nazionali. Matsushita voleva estendere il diritto di voto nelle elezioni locali a tutti i maggiorenni che avessero vissuto nella città per almeno tre mesi, compresi i migranti che non avevano ancora ottenuto la residenza. L’obiettivo era «trasformare le diversità in un punto di forza» e costruire una società multiculturale (le stesse regole si applicavano già a Zushi, nella prefettura di Kanagawa, e a Toyonaka, nella prefettura di Osaka, mentre in altre 40 città gli immigrati stranieri possono votare ad alcune condizioni, per esempio se hanno ottenuto il visto permanente).

L’assemblea cittadina di Musashino, tuttavia, ha respinto la proposta dopo che vari esponenti del Partito Liberal Democratico (il partito di governo, di centrodestra) avevano organizzato una campagna per sostenere che il futuro del Giappone dovesse essere deciso dai giapponesi, e non dagli stranieri. Era intervenuto tra gli altri anche il vice ministro degli Esteri, Masahisa Sato, che aveva scritto su Twitter che se la proposta fosse stata approvata «80mila persone cinesi» si sarebbero potute trasferire in città e avrebbero avuto il potere di influenzare la politica locale.

Nonostante il Giappone sia un paese storicamente resistente all’immigrazione, il progressivo invecchiamento della popolazione aveva iniziato a porre un problema di mancanza di forza lavoro soprattutto in certi settori, come l’edilizia e l’agricoltura. Negli ultimi anni il governo giapponese aveva quindi garantito agli stranieri di ottenere più facilmente un visto permanente e aveva introdotto nuove concessioni ai migranti. Le resistenze verso gli immigrati però non sono davvero mai cessate.

Oltre alle proteste per l’estensione di voto agli immigrati di Musashino, per esempio, a inizio dicembre l’ambasciata degli Stati Uniti a Tokyo aveva segnalato il rischio che diverse perquisizioni, arresti e interrogazioni di persone straniere da parte della polizia giapponese potessero essere state motivate dal razzismo. Il governo giapponese aveva negato che le persone fossero state fermate per via della loro etnia o della loro nazionalità, ma varie associazioni che si occupano di diritti civili avevano sostenuto che episodi di quel tipo non fossero per nulla rari in Giappone.

Secondo Koichi Nakano, professore di Scienze Politiche alla Sophia University di Tokyo, la pandemia «ha fomentato gli atteggiamenti xenofobici» in Giappone. Parlando con Bloomberg, Nakano ha chiarito che già prima della pandemia da coronavirus il nazionalismo era usato da alcuni politici giapponesi per spostare l’attenzione del pubblico da problemi che non si volevano risolvere; dallo scorso anno il governo avrebbe puntato «un’attenzione eccessiva, non giustificata dalla scienza e disumana» su misure preventive, come l’attuale divieto di ingresso da molti paesi.

Atsuko Nishiyama, avvocata che rappresenta una donna straniera che ha fatto causa al governo locale di Tokyo per presunta discriminazione da parte della polizia, ha detto che la discriminazione contro gli stranieri in Giappone c’era già da prima delle restrizioni per la pandemia. Nishiyama ha aggiunto che atti come quello di negare agli immigrati il diritto al voto potrebbero legittimare ulteriormente le idee di chi «cerca di mettere da parte [gli stranieri] ed escluderli» dalla società.

Il portavoce di Kishida non ha commentato pubblicamente la campagna contro l’estensione del voto a Musashino. Il primo ministro ha comunque detto in varie occasioni che il divieto di ingresso nel paese per le persone che non hanno la residenza è uno degli strumenti più rigidi introdotti in questa materia dai paesi più industrializzati, e che le restrizioni resteranno in vigore ancora per un po’.

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