Una canzone dei Dire Straits

Parole che si srotolano insieme e milionate di dischi venduti

(dpa/ansa)
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Le Canzoni è la newsletter quotidiana che ricevono gli abbonati del Post, scritta e confezionata da Luca Sofri (peraltro direttore del Post): e che parla, imprevedibilmente, di canzoni. Una per ogni sera, pubblicata qui sul Post l’indomani, ci si iscrive qui.
Ehi, è già il 14 dicembre e quest’anno non avevamo ancora mai parlato di Jesus blood never failed me yet: che là fuori c’è sempre qualche nuovo fortunato che non la conosce ancora.
E per restare in argomento, le mie venti canzoni di Natale preferite.
Il principe William ha un debole per gli AC/DC.
Comincio ad avvisare: a Natale andiamo in vacanza due settimane. La newsletter non arriva la settimana del 27 dicembre e quella del 3 gennaio.

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Dire straits

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I Dire Straits sono una band piuttosto unica nella storia del rock di fine Novecento: da una parte erano ottimi musicisti e fecero gran belle canzoni, dall’altra il loro successo popolare enorme e le loro canzoni costruite in modi un po’ convenzionali (fino a un certo punto) non li hanno mai fatti prendere sul serio tra le élite del rock: arrivarono tardi per esserne fondatori e non furono abbastanza nuovi per esserne innovatori. Quindi si sono sempre fatti una vita loro, vendendo milionate e milionate di copie, senza entrare mai molto in relazione con tutto il resto: e anche quando provarono a fare cose più originali e creative (il disco Love over gold, canzoni lunghe e con andamenti variabili), ormai erano quella cosa lì, i Dire Straits.

Nel 1985, quando ormai sembrava avessero conquistato il mondo già in lungo e in largo, ovvero quando molte band cominciano a calare, fecero un altro disco, che sarebbe stato il loro penultimo (poi Mark Knopfler, leader e frontman, si stufò e si mise in proprio, rinunciando a tutto quanto), e diventò quello più venduto di tutti: benché fosse il meno bello e i primi due singoli – che pure spopolarono – fossero i meno interessanti. Dentro però c’erano due pezzi di grande dolcezza: uno, Brothers in arms, ha resistito a decenni di abusi e se la batte tranquillamente con certi pezzi degli U2 per costruzione melodica e qualità di arrangiamento. L’altro è questo, che nel cd aveva una stupenda intro di tromba, prima che attaccasse il sassofono (i sassofoni degli anni Ottanta suonano tutti belli e tutti un po’ datati, come vedere mille puntate di Miami Vice): e i due strumenti sono suonati rispettivamente dai fratelli Randy e Michael Brecker, jazzisti di fama e stima. Ma su tutto stavolta stanno i versi, anzi il suono dei versi, che si snocciolano come scioglilingua, parole tuttattaccàte. Laicabaueribauenifainlianderstèn.

Well now my door was standing open
Security were laid back and lax
But it was only my heart that got broken
You must have had a pass key made out of wax
You played robbery with insolence
And I played the blues in twelve bars down Lover’s Lane
And you never did have the intelligence to use
The twelve keys hanging off from my chain

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