Un’altra canzone di Jovanotti

E come usiamo le citazioni “illustri”

(Luigi Rizzo/Pacific Press via ZUMA Wire)
(Luigi Rizzo/Pacific Press via ZUMA Wire)

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Ho trovato su YouTube questo video del 1979 di Al Stewart in cui la formidabile introduzione di pianoforte di Year of the cat è preceduta da un’improvvisazione di Robert Alpert – pianista della band in tour successivi – che parte da As tears go by (per profani: è la canzone di CasablancaYear of the cat inizia con il verso “on a morning from a Bogart movie”). Qualche mese fa era uscito un bell’articolo sul Financial Times sulla genesi e la storia di Year of the cat.
Mi è tornata in mente un’altra scena sorprendente (benché uno lo sapesse) di Get back: quando appare per un attimo, poi un altro attimo, uno che è Alan Parsons.
Oggi è il solito 8 dicembre (e domani il 9 dicembre) che morì John Lennon.

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Con le citazioni di autori “illustri” abbiamo uno strano rapporto: le usiamo per confortare pensieri o opinioni, o adornare le nostre timeline sui social network, malgrado spesso non siano altro che frasi che ha detto qualcuno, che potremmo avere detto anche noi stessi, o nostro cognato, e anzi probabilmente esiste una citazione di senso opposto, e altrettanto convincente in quanto citazione. Insomma, attribuiamo a una cosa virgolettata e che ha un nome scritto sotto un valore superiore di per sé, anche quando sia una totale banalità oppure una cosa del tutto discutibile.
Per questo sto in guardia dal farmi ammaliare da citazioni che mi sembra “confortino” una mia opinione, o in cui mi sembri di “riconoscermi”: sono tentatrici ma di solito non significano quasi niente se non che qualcuno ha detto quella cosa, e ce ne sono per tutti i gusti.
Ma nel repertorio selezionato di quelle che mi sembra invece superino qualunque mia capacità di dire le stesse cose ce n’è una che negli ultimi anni mi capita di ripetere spesso, e che ho imparato da Paolo Nori, che l’ha citata spesso attribuendola a Cesare Zavattini nel 1967: perché tiene dentro con bella trovata due risposte opposte che molti di noi darebbero alla domanda “come pensi che andranno le cose?”.

«Sono pessimista ma me ne dimentico sempre».

In quello stesso viaggio della speranza di sabato scorso di cui vi ho già parlato (quello delle sei ore e mezza tra Milano e Roma), a un certo punto nelle cuffie è partita Ora, con la sua base incalzante che non cambia andamento nemmeno quando arriva il refrain, che infatti quasi non è un refrain, solo una variazione appena accentuata rispetto alla strofa. Strofa che si conclude, dopo aver enunciato diversi casi di delusione e frustrazione di entusiasmi e speranze, con una considerazione simile a quella di Zavattini.

Dicono che è vero sì ma anche fosse vero
non sarebbe giustificazione
per non farlo più, per non farlo più
ora

Ma c’è anche un’altra bellezza in Ora – per me la maggiore, perché ancora oggi continuo a essere di quelli coinvolti più dalle melodie che dai concetti – ed è quello che succede nella coda della canzone, quando decolla quella festa di tastiere elettroniche. E mentre uno è lì fermo di fronte a una scarpata ferroviaria in attesa che il suo dannato treno riparta, quella coda lì lo rende felice. E spinto dalla riconoscenza e dal desiderio di avere qualcuno da ringraziare ho scritto a Lorenzo per chiedergli chi se la inventò, quella coda.
«io!!!!!! mi serviva una coda epica»

Grazie.
dicono che è vero che noi siamo fermi
è il panorama che si sta muovendo

(qui la canzone di Jovanotti dell’altra volta)