Com’è che a Juul è andato tutto storto

Per la nota azienda di sigarette elettroniche a una grande e rapida ascesa sono seguiti gravi problemi, in molti dei quali è ancora immersa fino al collo

(Justin Sullivan/Getty Images)
(Justin Sullivan/Getty Images)

Tra il 2015 e il 2018 Juul Labs, la più nota azienda di sigarette elettroniche al mondo, passò, come ha scritto il New York Times, «dall’essere una startup alle prime armi al diventare un colosso della Silicon Valley». Dopodiché negli ultimi due o tre anni, «è andata tragicamente fuori rotta». Le vendite sono calate di 500 milioni di dollari, tre quarti dei dipendenti sono stati licenziati e molte divisioni straniere hanno chiuso.

Nelle parole dei suoi due fondatori, Juul voleva sostituirsi all’industria del tabacco e rendere obsolete le sigarette, o quantomeno affermarsi come una soluzione finalmente efficace per smettere di fumare. Si è invece trovata travolta dalla pandemia, dai dubbi e dai problemi di salute relativi all’uso delle sigarette elettroniche e, soprattutto, da una lunga e per la maggior parte ancora irrisolta serie di cause in cui deve difendersi da chi la accusa di aver agito consapevolmente nel promuovere le sue sigarette tra adolescenti.

Al momento, Juul continua a operare. Sta però aspettando che la Food and Drug Administration (la FDA, l’agenzia statunitense che si occupa di sicurezza alimentare e farmaceutica) decida se potrà continuare a vendere i suoi prodotti nel paese. Intanto, da ormai diversi mesi sta provando a riorganizzarsi e a fare quello che nelle sue comunicazioni ufficiali definisce un generale “reset”, secondo il New York Times diventando «l’ombra di ciò che era» e cercando di farsi notare il meno possibile.

Juul continua ad avere una rilevante fetta di mercato nel suo settore (si parla di un 42 per cento, contro il 75 per cento nel 2018) ma non è ancora ben chiaro quali potrebbero essere i suoi piani per il futuro nel caso in cui la FDA dovesse lasciarla operare e nel caso in cui dovesse riuscire a uscire dal groviglio legale in cui si trova.

(AP Photo/Brynn Anderson)

Risulta invece un po’ più facile capire come ha fatto ad andare così tanto fuori rotta. L’azienda fu fondata nel 2015 da Adam Bowen e James Monsees, che si erano conosciuti all’Università di Stanford e che avevano poi collaborato alla realizzazione di una sigaretta elettronica nota come Ploom. L’idea era semplice: sviluppare qualcosa che facesse fumo e rilasciasse nicotina ma che non fosse una sigaretta, con tutto ciò che concerne il suo bruciare.

Per i primi anni Juul fu parte dell’azienda Pax Labs, dopodiché divenne autonoma. Nel 2017 arrivò ad avere 200 dipendenti, e già un anno dopo ne aveva circa 1.500. In quel periodo Juul crebbe molto e, come spesso si fa in questi casi, qualcuno ne parlò come della Apple delle sigarette elettroniche.

Già allora c’erano però tutte le premesse di ciò che ha portato alla crisi di Juul. Secondo Jaime Ducharme, autore del libro Big Vape: The Incendiary Rise of Juul (non l’unico sull’argomento) «la caduta in disgrazia» ebbe inizio già nel giugno 2015, quando la startup mosse i suo primi passi promozionali.

Come racconta un estratto del libro di Ducharme pubblicato dal Time, già allora, nel tentativo di farsi conoscere, l’azienda portò avanti una serie di iniziative senz’altro efficaci, che però fecero intuire a diverse persone – alcune interne e alcune esterne all’azienda – che sarebbero arrivati problemi.

Molto in breve, i prodotti per l’azienda finirono con l’incuriosire e attrarre soprattutto ragazzi e adolescenti, ai quali è ovviamente vietato indirizzare campagne per prodotti con nicotina. La posizione dell’azienda è che fu una sorta di effetto collaterale, che successe a prescindere dalla sua volontà e che loro si limitarono a fare campagne rivolte agli adulti.

Diverse persone sono invece convinte che l’azienda a parole diceva di volersi opporre alle grandi aziende di tabacco, ma che nei fatti replicava strategie e approcci messi in atto da chi voleva vendere sigarette ai giovani fra gli anni Cinquanta e Sessanta, per assicurarsi di avere milioni di clienti fedeli (nonché dipendenti) ai propri prodotti.

Una buona sintesi di quanto successe l’ha fornita Erica Halverson, ex marketing manager dell’azienda, che ne ha parlato in Move Fast and Vape Things, un documentario sulla vicenda prodotto dal New York Times: «il primo istinto fu di dire “wow, stiamo avendo successo, le persone usano i nostri prodotti”; l’altro era “oh diamine, li stanno usando le persone sbagliate”. Ducharme scrive che i primi “oh diamine” furono nell’estate 2015, ma che l’azienda non sembrò curarsene più di tanto.

Secondo Gregory Conley, presidente della American Vaping Association, il problema era che Juul «aveva un approccio da Silicon Valley, da azienda tecnologica anziché da azienda di tabacco». Si ritrovò quindi senza persone esperte di quel settore, che forse avrebbero potuto capire cosa rischiava la società con certe sue attività promozionali.

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Dal 2018 in poi – anno in cui tra l’altro un terzo delle quote di Juul fu comprato da Altria, una grande azienda di tabacco – le cose si ingigantirono e iniziarono a farsi preoccupanti. Arrivarono le prime cause: in una è stato deciso che Juul pagherà un risarcimento di 40 milioni di dollari, ma ne restano altre decine ancora in corso. Arrivò la decisione di non vendere più sigarette con aromi fruttati che le rendevano più invitanti a molti. E arrivarono anche – sebbene poi comprensibilmente passate in secondo piano a causa della pandemia – le migliaia di malattie polmonari che si pensa siano legate all’uso di sigarette elettroniche.

Juul sta avendo difficoltà anche a espandersi fuori dagli Stati Uniti, anche in paesi tendenzialmente non granché proibizionisti sul fumo. «Quando le grandi aziende statunitensi del tabacco iniziarono a sentirsi sotto pressione» scrisse a inizio 2020 il New York Times, «trovarono nuovi mercati e leggi più amichevoli all’estero». Juul, invece no.

Nell’attesa, e forse nella speranza che le acque si calmino e l’attenzione sia rivolta altrove, Juul sta facendo un’intensa (e lecita) attività di lobbying per la quale si stima abbia speso, solo negli Stati Uniti e solo nel 2020, quasi 4 milioni di euro. Il tutto mentre ancora bisogna capire davvero, e per bene, come e quanto facciano male le sigarette elettroniche rispetto a quelle tradizionali.