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  • Domenica 14 novembre 2021

L’alluvione nel Polesine, settant’anni fa

Fu la prima emergenza italiana del dopoguerra, fece 101 morti nella provincia di Rovigo e mobilitò aiuti da tutto il mondo

(LaPresse)
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Il 1951 fu un anno particolarmente piovoso in Italia, e nel novembre di quell’anno ci furono piogge intense e costanti in particolare nel Settentrione. Tra il 9 e l’11 novembre si formò un’onda di piena che dal Monferrato, in Piemonte, cominciò a viaggiare sul letto del Po, ingrossandosi man mano che raccoglieva l’acqua degli affluenti. Si sarebbe poi scoperto che il Po in quei giorni raggiunse il livello più alto mai rilevato fino ad allora. Ci fu una prima esondazione nella zona di Parma. Poi quando la massa d’acqua arrivò nel Polesine, in Veneto, il fiume ruppe gli argini per tre volte, una di seguito all’altra.

Era il 14 novembre 1951, esattamente settant’anni fa. Nel giro di poche ore, diversi miliardi di metri cubi d’acqua (le stime oscillano tra i tre e i sette) invasero le campagne venete, allagando due terzi dei campi coltivabili e distruggendo la quasi totalità dei raccolti. Alla fine i morti furono 101, i dispersi sette, gli sfollati 180mila.

Il Polesine è un’area geografica stretta e lunga che coincide quasi del tutto con la provincia di Rovigo, ed è compreso tra il Po a sud e l’Adige, a nord. Ne fa parte anche il delta del Po. L’alluvione in questa zona fu la prima vera emergenza dell’Italia del dopoguerra, e fu anche la prima in cui ci fu una grossa mobilitazione nazionale e internazionale: contribuirono infatti ai soccorsi diversi paesi del mondo, compresi gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, che allora erano contrapposti nelle prime fasi della Guerra fredda.

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La conformazione geografica del Polesine, fatta di estese depressioni che in certi punti scendono sotto al livello del mare, rese l’alluvione particolarmente drammatica. In alcune zone l’acqua arrivò a un’altezza di sei metri. Gli abitanti delle cittadine colpite dall’alluvione si rifugiarono sui tetti, o rimasero bloccati su piccole alture e nei piani alti delle case. Secondo alcune ipotesi, queste depressioni non erano dovute a fenomeni geologici veri e propri, quanto all’estrazione del gas metano che in quel periodo avveniva a ritmi molto elevati. Successivamente, uno studio commissionato del governo portò alla chiusura di 12 centri di estrazione della zona.

Una buona parte dei morti dell’alluvione furono causati da un singolo episodio. Nella località di Frassinelle, un camion – in seguito diventato noto come “camion della morte” – stava trasportando una gran quantità di sfollati per portarli al riparo, ma forse per il troppo carico si impantanò e venne inondato dall’acqua. I contorni della vicenda non furono mai chiariti del tutto, ma probabilmente in quella circostanza annegarono circa 80 persone.

Il sito di Polaris, gestito dall’Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeologica (IRPI), riporta che complessivamente furono distrutti o danneggiati sessanta chilometri di argini, quasi mille chilometri di strade, 52 ponti, 4.100 abitazioni, 13.800 aziende agricole, 5.000 fabbricati e 2.500 macchinari agricoli. Rimasero uccisi o furono dispersi 16.000 capi di bestiame e 200mila tonnellate di derrate. I danni economici furono stimati dal geografo Giorgio Botta in 400 miliardi di lire, oltre 7 miliardi di euro di oggi.

La ricostruzione parziale di strade, case e fabbricati impiegò diversi mesi, e andò avanti poi anche negli anni successivi: sempre Polaris ha stimato che fra il 1952 e il 1981 lo Stato erogò 1.868 miliardi di lire per la questione del Polesine, attraverso undici diverse leggi nazionali.

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