Perché non serve fare un test sierologico prima del richiamo

Il livello di anticorpi nel sangue è un dato ingannevole per decidere se e quando sottoporsi alla terza dose del vaccino

(EPA/AMPE ROGERIO via ANSA)
(EPA/AMPE ROGERIO via ANSA)

In Italia da inizio ottobre è prevista la somministrazione di una terza dose del vaccino contro il coronavirus per i soggetti “fragili” e le persone con più di 60 anni di età. Molte di queste nelle ultime settimane si sono chieste se possa essere utile sottoporsi prima a un test sierologico – quello che attraverso un campione di sangue rileva la quantità di anticorpi nell’organismo – così da decidere se ricevere o meno il richiamo del vaccino. Come hanno spiegato nelle ultime settimane numerosi esperti, il sierologico in questo caso non serve: è uno spreco di tempo e denaro, e rischia inoltre di confondere ulteriormente le idee a chi si appresta a fare un richiamo.

Vaccini e anticorpi
I vaccini contro il coronavirus servono a sviluppare una risposta immunitaria, in modo che l’organismo impari a riconoscere il virus e a contrastarlo nel caso di successive infezioni. Qualcosa di simile avviene anche quando si contrae il coronavirus e ci si ammala, ma il vaccino ha il pregio di farlo avvenire senza correre i rischi di avere la COVID-19.

Questa immunizzazione indotta dal vaccino avviene attraverso una serie molto complessa di processi nel nostro sistema immunitario, che ha varie risorse per occuparsi dei patogeni come virus e batteri.

Quando incontra una minaccia, il sistema immunitario interviene prima con difese piuttosto grezze e pronte all’uso, poi con sistemi più raffinati, che consentono non solo di contrastare il patogeno, ma anche di conservarne memoria. Con il vaccino avviene la stessa cosa, ma con il vantaggio di avere innescato il meccanismo tramite un sistema innocuo che non potrà portare allo sviluppo della malattia vera e propria.

La durata della memoria immunitaria indotta da una vaccinazione varia molto a seconda di come si è fatti e di come è fatto il vaccino. I vaccini che utilizzano virus attenuati, resi sostanzialmente innocui, spesso inducono una memoria immunitaria che dura tutta la vita, come nel caso della vaccinazione contro il morbillo. I vaccini che sono basati su alcuni pezzi dei virus (come i vaccini a base di proteine virali o di frammenti del loro materiale genetico), come quelli contro l’influenza, rendono invece necessario il ricorso a uno o più richiami. È una circostanza attesa e già quando erano in fase di sviluppo i vaccini contro il coronavirus, appena un anno e mezzo fa, virologi e immunologi ipotizzavano che potessero rendersi necessarie ulteriori dosi per rinnovare la memoria immunitaria.

Determinare la durata di questa memoria è infatti estremamente difficile, e lo è ancora di più nel caso in cui si abbia a che fare con un virus emerso da poco tempo, come l’attuale coronavirus. I dati finora raccolti, soprattutto tra il personale medico che era stato vaccinato per primo tra la fine dello scorso anno e le prime settimane del 2021, ci dicono che la memoria immunitaria si è ridotta in quasi un anno, anche se si è mantenuta una buona protezione contro le forme più gravi della COVID-19, che in alcuni casi possono rivelarsi letali.

La vaccinazione induce l’organismo a produrre un maggior numero di cellule immunitarie, che a loro volta producono anticorpi e altre molecole, che si riducono poi nel corso del tempo. La memoria rimane in alcune cellule (linfociti B e T), che hanno il compito di tenere d’occhio la situazione e intervenire nel caso di future infezioni vere e proprie.

Un’ulteriore dose induce una nuova moltiplicazione delle cellule immunitarie, che a loro volta producono nuovamente anticorpi, che nel corso del tempo tendono nuovamente a svanire. Il processo fa sì che alla fine rimanga una maggiore quantità di cellule immunitarie, che potranno offrire una risposta più immediata ed efficace nel caso di una nuova infezione.

Queste cellule raggiungono tramite il sistema linfatico, la ferrovia del nostro sistema immunitario, i linfonodi, dove attraverso mutazioni diventano via via più abili nella produzione di anticorpi specializzati contro la malattia che hanno imparato a riconoscere. È un processo che si chiama “maturazione dell’affinità” e che è alla base della costruzione di una migliore protezione contro le malattie. In condizioni normali avviene attraverso la ripetuta esposizione ai patogeni (coi rischi che conosciamo), mentre da quando abbiamo inventato i vaccini tramite la somministrazione di dosi aggiuntive quando è necessario.

Test sierologici
È quindi atteso che nel corso del tempo gli anticorpi si riducano e un singolo dato sulla loro quantità, ottenibile attraverso un test sierologico (tramite un campione di sangue), dice pochissimo sull’effettiva protezione per ciascuno dal coronavirus.

A oggi non è stato ancora stabilito quale sia un livello minimo di anticorpi correlabile a un livello di protezione sufficiente. Significa che non c’è un valore di riferimento da confrontare con quello che emerge dal test sierologico. Un dato che per un soggetto potrebbe essere insufficiente, potrebbe invece essere più che sufficiente per un altro, e non c’è modo di saperlo con certezza.

Inoltre, come abbiamo visto, è del tutto naturale che il livello degli anticorpi in circolazione nell’organismo tenda a diminuire sensibilmente a mesi di distanza dall’evento che ne ha scatenato la produzione. La loro riduzione non offre particolari informazioni per stabilire la qualità della memoria immunitaria, per la quale sono responsabili cellule immunitarie specifiche.

Chi è compreso nelle categorie e fasce di età per le quali è prevista la somministrazione di un richiamo non ha quindi nessuna necessità di fare un test sierologico, anche perché non otterrebbe nessuna informazione davvero rilevante per decidere se vaccinarsi o meno. Le autorità sanitarie di numerosi paesi, compresa l’Italia, hanno scelto di avviare la campagna di richiamo per precauzione anche in vista della stagione invernale, quando si sta più tempo al chiuso e aumentano i rischi di contagio. A differenza dei test sierologici, i vaccini sono gratuiti e hanno mostrato di offrire un’alta protezione contro la COVID-19.