Basta il 3,5% della popolazione per cambiare le cose?

Una condivisa teoria la ritiene la soglia oltre la quale i movimenti penetrano con efficacia nei settori strategici della società

Manifestanti pro-democrazia in Thailandia (AP Photo/Sakchai Lalit)
Manifestanti pro-democrazia in Thailandia (AP Photo/Sakchai Lalit)

Alla COP26, l’annuale conferenza sul clima organizzata dall’ONU a Glasgow, non sono mancate le critiche nei confronti dei paesi e delle istituzioni organizzatori. Nonostante alcuni annunci altisonanti, l’attivista svedese Greta Thunberg ha definito la COP «un fallimento», aggiungendo che «non possiamo risolvere una crisi con gli stessi metodi che l’hanno provocata».

Secondo gli ambientalisti e alcuni esperti, neanche una conferenza delle Nazioni Unite può rappresentare uno strumento efficace per far cambiare davvero le cose, perciò un movimento di protesta in cerca della spinta necessaria a ottenere un cambiamento reale dovrebbe guardare altrove: per esempio a coinvolgere attivamente il 3,5 per cento della popolazione, secondo una teoria di Erica Chenoweth, docente di scienze politiche alla Harvard Kennedy School.

Le ricerche di Chenoweth sostengono che per portare a cambiamenti politici concreti i movimenti di protesta devono innanzitutto essere non violenti, e poi hanno bisogno della partecipazione di almeno il 3,5 per cento della popolazione. Naturalmente, come scrive l’Atlantic, «non esiste una cifra magica che garantisce di far pendere la bilancia in favore» di qualcosa. Perciò non è detto che un movimento che raggiunga la soglia in questione ottenga poi risposta a tutte le proprie istanze, o che questo metodo funzioni in ogni contesto. Tuttavia, le ricerche di Chenoweth dimostrano che generalmente i movimenti di protesta pacifici e più trasversali risultano più efficaci e hanno più probabilità di avere successo, e che indicativamente quella soglia sembra essere in qualche modo un fattore determinante.

Prima di iniziare i suoi studi, Chenoweth non aveva la convinzione che la non violenza fosse un atteggiamento più efficace per raggiungere gli obiettivi di un gruppo attivista, anche perché nessuno aveva mai raccolto statistiche dettagliate al riguardo. Per dimostrarne l’efficacia (o l’inefficacia), lavorò insieme alla ricercatrice Maria Stephan raccogliendo dati su 323 movimenti di protesta avvenuti tra il 1900 e il 2006 in varie parti del mondo.

I risultati della ricerca, pubblicati poi in un libro del 2012 intitolato Why Civil Resistance Works (“Perché la resistenza civile funziona”), dimostrano che il 53 per cento dei movimenti non violenti aveva avuto successo, mentre per quelli violenti – cioè che includevano nei propri metodi anche attacchi a persone o a cose – la percentuale scendeva al 26.

Giovani attivisti in protesta a Londra, venerdì 5 novembre 2021 (AP Photo/Matt Dunham)

Il successo di questi movimenti non è dato solo dalla loro natura pacifica, ma anche prevedibilmente dal fatto che sono stati in grado di raccogliere un numero molto più alto di sostenitori e sostenitrici. Tra le 25 proteste più estese prese in esame da Chenoweth e Stephan, 20 erano non violente e 14 di queste ebbero successo nell’interezza delle rivendicazioni. Alcuni esempi sono la campagna nelle Filippine contro il regime di Ferdinand Marcos, che vide la partecipazione di circa due milioni di persone in totale, e la Rivoluzione di velluto in Cecoslovacchia, a cui parteciparono circa 500mila persone.

«Non ho trovato molte proteste che fallirono dopo aver coinvolto, al loro picco, più del 3,5 per cento della popolazione» ha detto Chenoweth a BBC, in un articolo sulla “regola del 3,5 per cento” pubblicato nel 2019. Un altro esempio è la Rivoluzione delle rose in Georgia, che nel 2003 portò alle dimissioni dell’allora presidente Eduard Shevardnadze e a un cambio di regime.

Un simile livello di partecipazione può essere ottenuto solo da un movimento pacifico, per diversi motivi: innanzitutto, la non violenza pone meno ostacoli in entrata per le persone che vogliono partecipare alla campagna. Generalmente, i movimenti violenti prevedono un’intensa attività fisica che possono praticare soprattutto persone giovani e in salute che non hanno paura di scontri e di farsi eventualmente del male. Un movimento non violento invece è aperto a una varietà di persone molto più ampia. Inoltre, per una protesta pacifica c’è più probabilità di essere accettata socialmente e che le sue istanze vengano discusse senza stigma.

I risultati delle ricerche di Chenoweth e Stephan hanno ottenuto un certo successo sia all’interno dell’accademia che tra gli attivisti. «È abbastanza acclarato che nel nostro campo l’approccio non violento ha più probabilità di successo» ha detto a BBC Isabel Bramsen, studiosa di conflitti internazionali all’Università di Copenhagen. Sempre secondo Bramsen, la regola del 3,5 per cento può essere considerata valida perché anche se apparentemente rappresenta una minoranza, un simile livello di partecipazione attiva significa che un numero ancora più alto di persone in realtà è d’accordo – silenziosamente – con la causa in questione.

Il punto di forza della “regola del 3,5 per cento” è quindi la sua trasversalità. Come spiegato da Chenoweth all’Atlantic, il successo delle proteste con un livello di partecipazione così alto non è dovuto alla loro levatura morale, ma più semplicemente alla loro capacità di penetrazione nella società, che di fatto erode il consenso del potere politico con cui si pone in conflitto in fasce sociali rilevanti come la burocrazia, i media, la classe imprenditoriale: «Se il 3,5 per cento della popolazione di un paese – o del mondo – sostiene una qualsiasi causa o proposta politica, stiamo parlando di un blocco di elettori, di consumatori e di forza lavoro sufficiente a far sì che chi detiene il potere presti attenzione».

Secondo altri studiosi, comunque, la “regola del 3,5 per cento” non basta a decretare il successo o il fallimento di un movimento di protesta. Per esempio un fattore che ha un certo peso è anche l’unità e la coesione interna al movimento: se si divide in fazioni, la sua efficacia è destinata a diminuire. Isabel Bramsen in una sua ricerca ha fatto l’esempio delle proteste in Bahrein all’epoca della “primavera araba”, nel 2011. Inizialmente furono molto partecipate, ma poi il movimento si divise in fazioni rivali che entrarono in competizione, perdendo slancio e infine fallendo nel tentativo di opporsi alla monarchia sunnita che da due secoli controlla il paese.

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