James Bond deve rinunciare alla Cina, se i suoi film non vogliono rinunciare alla Cina

Il mercato locale è ormai molto importante per Hollywood, ma la censura rende rischioso inserire il paese nelle trame di spionaggio

No Time To Die, il venticinquesimo film con protagonista James Bond e l’ultimo in cui il famoso agente segreto è interpretato da Daniel Craig, ha incassato nel mondo più di 500 milioni di euro. Da qualche giorno è arrivato anche in Cina, dove ci si attende che incassi non meno del corrispettivo di 50 milioni di euro. Non poco, ma comunque meno del previsto: in buona parte per colpa delle recenti restrizioni legate al coronavirus che in Cina hanno portato alla chiusura di migliaia di cinema.

Per No Time To Die, così come per ogni altro grande film che punti ad avere consistenti incassi in giro per il mondo, la Cina è importante perché con i suoi oltre 75mila schermi  ha ormai il più grande mercato cinematografico nazionale al mondo. Motivo, tra l’altro, per cui sempre più film hanno almeno un personaggio cinese o una sottotrama legata al paese: il film The Martian, in cui l’agenzia spaziale cinese interviene per salvare la situazione, non ebbe per esempio problemi a uscire nei cinema cinesi.

Il mercato cinese è però difficile da penetrare, perché la Cina consente solo a un limitato numero di film stranieri (in genere giusto qualche decina all’anno) di essere proiettati nei suoi cinema. Per due motivi principali: il primo è che vuole far crescere il cinema locale, cosa che sta senz’altro succedendo; il secondo è che esercita un rigido controllo su ciò che mostra nei suoi cinema, molto spesso riuscendo a evitare ogni tipo di riferimento critico al paese e ogni rappresentazione problematica della sua storia.

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Anche in storie di evidente finzione come quelle con protagonista James Bond, la Cina non vuole insomma essere rappresentata male. E infatti ci sono ottimi motivi per credere che No Time To Die sia potuto arrivare in Cina proprio perché di Cina non parla. Secondo un articolo di Foreign Policy scritto da James Crabtree, che dirige l’iIstituto Internazionale per gli studi strategici per l’Asia, questa è un’ennesima dimostrazione della potenza cinese, ma anche un problema per No Time To Die, che per essere attuale dovrebbe poter parlare della Cina e dei possibili pericoli che rappresenta.

Si può insomma dire che perché i film di Bond possano andare in Cina, è molto meglio che lui (James Bond) non ci vada, o comunque non in modo ostile.

Per come stanno le cose ora, secondo Crabtree «la Cina resterà off limits per le storie di Bond», che quindi si troverà a «non poter affrontare la più grande sfida geopolitica di questi anni». Tra l’altro con il rischio di perdere rilevanza e capacità di raccontare, seppur a suo modo, il presente. Come spesso era invece stato in passato, prima con la Guerra fredda e poi, soprattutto nei film di Craig, con quella al terrorismo. In quel caso, ha scritto Crabtee, «fu addirittura quasi il contrario, nel senso che negli anni Novanta e Duemila fu il mondo a mettersi in pari con Bond più che viceversa».

In altre parole, un film in cui Bond deve affrontare un “cattivo” cinese, magari a Taiwan, potrebbe essere rilevante, credibile e contemporaneo. Ma di sicuro non sarebbe mostrato in Cina e probabilmente creerebbe problemi non indifferenti di diplomazia.

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Quello di cui parla Crabtree è quindi un problema narrativo e cinematografico. Ma anche il segno di un più grande e rilevante problema che l’Occidente potrebbe avere, e per molti versi già sta avendo, con la Cina.

In effetti, ha scritto Crabtree, «i problemi di Hollywood con la Cina sono ben noti». Basta infatti pochissimo perché la Cina decida di non far arrivare nei suoi cinema qualche film straniero. Spesso si tratta di problemi con personaggi o trama, ma ci sono anche film che sono stati vietati per il semplice fatto che chi li aveva diretti o chi ci recitava aveva parlato della Cina in un modo non gradito dal governo. «In generale», ha scritto Crabtree, «dai tempi di Sette anni in Tibet, uscito nel 1997, nessun grande film di Hollywood ha messo il governo cinese in cattiva luce».

Nel caso dei film di Bond – in cui il protagonista è solito girare il mondo – la Cina si è vista o intravista molto di rado, in questi ultimi anni. In Skyfall, uscito nel 2012, Bond fa per esempio una capatina a Shanghai e Macao. Tuttavia, ha scritto Crabtree, in quel caso il paese serve solo a fare «da sfondo».

Nel 1997 in Il domani non muore mai, in cui Bond era Pierce Brosnan, c’era in effetti una spia cinese: ma era l’affascinante agente interpretata da Michelle Yeoh, con la quale Bond andava molto d’accordo. Ora, secondo Crabtree, «le possibilità che Bond – o chiunque altro – faccia qualcosa di simile a quel che faceva con l’Unione Sovietica sono vicine allo zero».

È pur vero, però, che il modo in cui nel tempo sono stati caratterizzati e stereotipati i “cattivi” di Bond, sovietici e non, era spesso stato controverso. Dai tempi in cui in GoldenEye, uscito nel 1995, Bond veniva definito «un dinosauro misogino e sessista, una reliquia della Guerra Fredda» dal suo capo M, interpretato da Judi Dench, i film e il personaggio hanno fatto diversi passi avanti per restare rilevanti e aggiornati alle nuove sensibilità, pur senza tradire certe convenzioni del genere a cui appartengono.

Sebbene non sia piaciuto per niente a Crabtree – l’ha definito «caotico e troppo pieno di cose», oltre che eccessivamente «ispirato all’azione melodrammatica e incoerente dei Fast and Furious» – e nonostante la pandemia, No Time To Die è comunque andato bene. La questione è che ora, con un nuovo Bond, serviranno ulteriori cambiamenti al personaggio e aggiornamenti delle trame. E provare a essere attuali senza parlare di Cina sarebbe in effetti strano.

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In questo senso, bisogna però dire – anche se Crabtree non lo fa – che, seppur difficile, si può anche pensare di fare un grande film rinunciando al mercato cinese. È quasi certo, per esempio, che il film Marvel Eternals non uscirà in Cina per via delle posizioni critiche verso il governo del paese espresse dalla sua regista Chloé Zhao, statunitense di origini cinesi.

Intanto, comunque, i cinema cinesi stanno proiettando The Battle at Lake Changjin, un film di guerra che parla della battaglia del bacino di Chosin, in cui nel 1950, durante la Guerra di Corea, la truppe cinesi combatterono, insieme a quelle nordcoreane, contro quelle statunitensi. Con oltre 700 milioni di euro di incassi (tutti in Cina) è il film che più ha incassato in questo 2021, e il secondo dai maggiori incassi nella storia cinese, molto probabilmente destinato a diventare il primo.