Un antidepressivo contro la COVID-19

La fluvoxamina ha dato risultati incoraggianti in un test clinico nel ridurre i rischi di sviluppare forme gravi della malattia, dice un nuovo studio

La fluvoxamina, un farmaco impiegato contro depressione e disturbi d’ansia, ha dato risultati incoraggianti in un test clinico per trattare la COVID-19, riducendo sensibilmente i rischi di sviluppare sintomi gravi che possono rivelarsi letali. Il principio attivo non è più coperto da brevetto ed è piuttosto economico, quindi il suo impiego potrebbe rivelarsi ideale soprattutto nei paesi più poveri. Lo studio ha però interessato un numero limitato di pazienti e saranno quindi necessari ulteriori approfondimenti, per quanto il primo test clinico sia stato definito promettente da vari osservatori.

Angela Reiersen, una psichiatra statunitense parte del gruppo di ricerca che ha partecipato alla sperimentazione, aveva iniziato a studiare la fluvoxamina ben prima della pandemia e nel 2019 si era imbattuta in uno studio sul suo impiego su cavie di laboratorio per trattare la sepsi, un’infiammazione molto forte e diffusa innescata da vari tipi di infezioni e causata da una risposta fuori misura del sistema immunitario. Quando erano emersi i primi studi sugli effetti della COVID-19, che in alcuni casi spinge l’organismo ad avere una risposta di questo tipo, Reiersen pensò di riprendere quello studio per approfondirlo.

Insieme ad altri colleghi fece domanda per partecipare a TOGETHER Trial, un ambizioso progetto organizzato durante la pandemia per sperimentare farmaci già esistenti – e sviluppati per altre malattie – contro la COVID-19.

Ottenuti i permessi e avviate le collaborazioni con altre istituzioni, lo studio era stato poi svolto in Brasile utilizzando un campione di circa 1.500 partecipanti, selezionato perché ad alto rischio di sviluppare forme gravi della malattia. A circa metà dei volontari era stata somministrata la fluvoxamina, mentre ai restanti una sostanza che non faceva nulla (placebo).

Stando ai risultati pubblicati a fine ottobre sulla rivista medica Lancet, nel gruppo che aveva assunto il farmaco nelle prime fasi della malattia le morti per COVID-19 sono diminuite del 90 per cento rispetto al gruppo di controllo con il placebo. È stata inoltre rilevata una riduzione del 65 per cento dei casi che hanno reso necessarie cure ospedaliere e più invasive, rispetto a chi non aveva assunto il farmaco vero e proprio.

Nel complesso, dice lo studio, la fluvoxamina si è rivelata utile nel ridurre la risposta immunitaria quando questa rischia di finire fuori controllo, portando più danni che benefici all’organismo. Il farmaco ha anche ridotto il rischio di subire danni ai tessuti, sempre indotti dalla eccessiva risposta immunitaria.

A oggi pochi farmaci sviluppati per altre malattie si sono rivelati effettivamente utili nel trattare le forme iniziali di COVID-19, riducendo i rischi di sintomi gravi tra le persone che potrebbero risentirne di più come gli anziani. In alcuni paesi si impiegano terapie a base di anticorpi monoclonali, ma queste sono costose, richiedono una somministrazione in ospedale e non sempre danno gli effetti sperati. Le compresse di fluvoxamina costano pochi decimi di euro e per un ciclo completo di dieci giorni, in caso di COVID-19 lieve, il costo complessivo potrebbe aggirarsi intorno ai 3-4 euro. Non essendo più coperto da brevetto, il farmaco può essere inoltre prodotto a costi bassi e venduto come generico.

La fluvoxamina potrebbe essere somministrata insieme ad altri farmaci che agiscono invece sul coronavirus, impedendogli di replicarsi facilmente nelle cellule portando avanti l’infezione virale. L’azienda farmaceutica Merck, al di fuori di Stati Uniti e Canada conosciuta come MSD (Merck Sharp Dome), ha da poco annunciato risultati molto promettenti del molnupiravir, un farmaco antivirale sviluppato specificamente che riduce la replicazione del virus, per il quale sono in corso le ultime verifiche per autorizzarne l’impiego sui malati a rischio.

Nel frattempo la fluvoxamina dovrà comunque essere sottoposta ad altri test clinici e ricerche. I risultati dello studio svolto in Brasile sono promettenti, ma contengono alcuni elementi da chiarire legati a come sono trattati i casi di COVID-19 nel paese, molto spesso con trattamenti ambulatoriali e non ricoveri in ospedale. Il gruppo di ricerca ha quindi avuto a disposizione sistemi per valutare la gravità dei pazienti diversi da quelli più diffusi negli Stati Uniti e in Europa, basati per lo più sulla permanenza ospedaliera.