Una serie sudcoreana

La violenza, il melodramma e la satira sociale di “Squid Game” non arrivano dal nulla, bensì dalla stessa corrente cinematografica già resa famosa da “Parasite”

(Netflix)
(Netflix)

Tra le tante possibili ragioni, il sorprendente e portentoso successo della serie di Netflix Squid Game è legato in parte al suo essere semplice e universale: non ci vuole molto a capire regole e dinamiche del crudele gioco al centro della trama. Ma allo stesso tempo Squid Game è anche un contenuto intrinsecamente sudcoreano, e quindi inserito in una tradizione culturale a cui il pubblico occidentale è stato storicamente poco esposto. La Corea del Sud in Squid Game c’è nella lingua, evidentemente (non è stato doppiato in italiano), e poi per certi riferimenti a cibi, giochi, luoghi, film o individui. Ma c’è anche un livello di lettura più profondo, che permette di mettere la serie in relazione a molti altri recenti prodotti del cinema e della serialità sudcoreana, a cominciare dal celebre e premiato Parasite.

Seppur parecchio diversi nello stile e nella forma, sia Squid Game che Parasite mostrano infatti piuttosto chiaramente certi elementi comuni a molto altro di quello che in questi anni è stato prodotto (e spesso esportato con buon successo) dall’industria audiovisiva sudcoreana. Tre, soprattutto: una certa disinvoltura nella rappresentazione della violenza; un modo di raccontare la storia che ammicca al melodramma; e una tendenza alla satira e alla critica sociale.

Sulla violenza di Squid Game, non c’è molto da dire: c’è (sarebbe impossibile non ci fosse, vista la trama) ed è parte di ciò che intriga della serie. Per qualcuno è funzionale alla storia, qualcun altro invece l’ha trovata gratuita e quindi fastidiosa, o quantomeno sfinente nel suo ripetersi quasi senza sosta.

Anche il suo approccio melodrammatico al racconto è piuttosto evidente, nel senso in cui personaggi e trama sono costruiti in modo da accentuarne i sentimenti, spesso essenziali come odio, amore o vendetta, in cui i buoni sono piuttosto distinti dai cattivi (al netto dei colpi di scena) e la recitazione è molto marcata ed espressiva, al limite dell’esagerato.

Squid Game è melodrammatico nel suo costruire, smontare e ricostruire alleanze, nel suo presentare personaggi con certe caratteristiche (il buono a prescindere o il criminale senza pietà o il vecchio saggio, per esempio). «Se si guarda oltre il superfluo e l’azione» ha scritto il New York Times in una recensione molto critica nei confronti della serie, «quel che resta è un melodramma totalmente tradizionale e abbondantemente prevedibile» in cui «il progresso dei personaggi lungo la storia non presenta sorprese», perché «muoiono esattamente nell’ordine che ci si aspetterebbe», un ordine che si basa «sulla loro importanza per i meccanismi della trama».

In altre parole, si può cioè sostenere che più per vedere come va a finire, si guarda Squid Game per assistere – spesso e volentieri soffrendone – alle interazioni e alle emozioni umane, spesso estreme ed accentuate (visto il contesto) tra i personaggi. In questo senso, c’è chi ha fatto notare come sia emblematico che una serie composta da sei giochi sia lunga nove episodi. Questo perché, oltre a raccontare il prima, il dopo e il “fuori” rispetto ai giochi, dedica molto tempo alle emozioni di chi ci si trova in mezzo.

Ancor più che violenza e tendenza talvolta melodrammatica, diverse analisi e considerazioni su Squid Game ricordano quelle fatte per Parasite perché sia la serie che il film contengono una evidente satira sociale e fanno una sorta di commento più o meno allegorico sulla società coreana, sul capitalismo, sull’individualismo e sull’ineguaglianza delle società più ricche.

Così come in Parasite era evidente il tema dell’ascesa o della discesa (sociale ma anche pratica e reale), in Squid Game sono oltremodo evidenti e graficamente rappresentate le gerarchie: quella principale tra organizzatori e giocatori, ma anche quelle, per esempio, interne al gruppo delle “guardie”, distinte sulla base di una forma geometrica sulla maschera. Non vuol dire che nel film e nella serie la critica e la satira sociale siano efficaci allo stesso modo (di nuovo, il New York Times sostiene anzi che sia una serie «senza niente da dire, oltre banali truismi, sulla disuguaglianza e il libero arbitrio») ma l’intenzione è simile.

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Comunque, più che per un diretta relazione l’uno con l’altro, Squid Game e Parasite, hanno punti di contatto perché fanno parte, ognuno a suo modo e con le sue sfumature, di una stessa corrente culturale. Per prenderla piuttosto alla larga, sia Squid Game che Parasite rientrano – insieme ad altri fortunati prodotti di esportazione della cultura sudcoreana degli ultimi anni – di quel fenomeno socio-culturale noto come hallyu. 

Hallyu (letteralmente “l’onda coreana”) è un neologismo di fine anni Novanta, variamente usato per parlare di una corrente, un movimento, una moda o una tendenza che ha fatto sì che prodotti culturali sudcoreani avessero successo prima nel resto dell’Asia e poi nel resto del mondo, mantenendo sempre certi tratti tipici. Di certo non fu pianificato, ma senza dubbio negli anni il governo sudcoreano ne ha saputo incanalare e promuovere il successo e la crescita.

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Fanno parte della hallyu il successo internazionale della cucina sudcoreana e il ben più rilevante successo del k-pop, il genere musicale dei BTS, ma a volersi limitare ai contenuti audiovisivi, sono inclusi a pieno titolo anche i k-drama (le serie sudcoreane) e il cinema sudcoreano. Serie e film che molto spesso usano la violenza come chiave per parlare d’altro, che contengono in qualche modo riferimenti alla Corea del Nord (evidentemente una questione molto sentita, in Corea del Sud) e che seppur cercando di guardare a un possibile pubblico internazionale restano fedeli a un certo approccio sudcoreano.

Parlando del cinema sudcoreano prima di Parasite, Agata Lulkowska, professoressa di produzione cinematografica ed esperta di cinema asiatico, scrisse che il cinema coreano era «profondamente legato alla storia del paese ed evitava l’hollywoodizzazione», che «aveva una venerazione per il passato ma era al contempo straordinariamente moderno» e che «si era fatto conoscere per la sua esplorazione dei lati oscuri dell’animo umano, con film spiazzanti – spesso capaci di unire humour nero con elementi di violenza estrema» e che spesso conteneva «storie di vendetta, accattivanti indagini e amicizie insolite». Parlò inoltre di un cinema «che non evitava argomenti controversi e che sfidava i suoi spettatori» andando «in direzioni che i film occidentali avevano spesso paura di prendere».

Tutte queste considerazioni erano fatte in riferimento a film come Joint Security Area, Memorie di un assassino, Old Boy o Train to Busan (film che non erano Parasite ma che gli erano a loro modo legati). Ma per buona parte valgono anche per serie come Crash Landing on You, (la serie sudcoreana con una storia d’amore ambientata in Corea del NordStranger, Sweet Home o Space Sweepers.

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Sono film e serie di generi diversi, con diverse ambizioni e dal diverso grado di successo, ma sono tutti e tutte parte di uno stesso fenomeno in cui è possibile individuare una serie di tratti comuni, e che non sembra per nulla essere vicino ad esaurirsi. Perché già da prima di Parasite il cinema sudcoreano si era fatto notare e apprezzare, perché già da prima di Squid Game molti k-drama erano riusciti a farsi vedere parecchio lontano dalla Corea del Sud, e perché già da diversi mesi un’azienda come Netflix aveva deciso di puntare sulle produzioni sudcoreane.

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