Le condanne in Cassazione per la morte di Martina Rossi

A distanza di oltre 10 anni dai fatti, Luca Vanneschi e Alessandro Albertoni sono stati condannati definitivamente per tentato stupro

Una manifestazione davanti alla Corte di Cassazione a Roma il 26 agosto in occasione del processo per la morte di Martina Rossi (Cecilia Fabiano/ Lapresse)
Una manifestazione davanti alla Corte di Cassazione a Roma il 26 agosto in occasione del processo per la morte di Martina Rossi (Cecilia Fabiano/ Lapresse)

A distanza di oltre dieci anni, la Corte di Cassazione ha chiuso definitivamente la vicenda giudiziaria legata alla morte di Martina Rossi, avvenuta il 3 agosto 2011 a Palma di Maiorca, in Spagna. Sono state confermate le condanne a 3 anni di reclusione per tentato stupro a Luca Vanneschi e Alessandro Albertoni. Era già caduta in prescrizione invece l’altra accusa per cui i due erano stati inizialmente processati: morte come conseguenza di altro reato.

Martina Rossi, studentessa genovese, 20 anni, nell’agosto del 2011 era in vacanza a Palma di Maiorca con due amiche: alloggiavano in una stanza all’hotel Santa Ana di Cala Mayor.

La sera del 3 agosto le ragazze andarono in discoteca e trascorsero del tempo in compagnia di quattro ragazzi di Castiglion Fibocchi, in provincia di Arezzo, conosciuti in quei giorni. Tornate dal locale, le due amiche di Rossi si appartarono con due dei ragazzi in una stanza dell’hotel, mentre Rossi andò, con gli altri due, Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi, nella loro camera, la 609.

Alle 7 del mattino Rossi precipitò dal balcone. La stanza era al sesto piano. In quel momento Rossi non indossava i pantaloncini, un particolare che poi è stato al centro delle ipotesi dell’accusa contro Albertoni e Vanneschi (i pantaloncini non sono stati mai ritrovati). Due ragazzi danesi che si trovavano in una stanza vicina alla 609 dissero di aver sentito un urlo e subito dopo dei passi precipitosi sulle scale. I soccorsi furono inutili, Martina Rossi morì 35 minuti dopo essere precipitata.

Le indagini degli investigatori spagnoli furono piuttosto veloci: una ragazza spagnola, Francisca Puga, che lavorava nel bar dell’albergo, disse di aver visto Rossi gettarsi nel vuoto. Uno dei due ragazzi disse alla polizia spagnola di aver visto i piedi di Rossi nei secondi che ne precedettero la caduta; l’altro raccontò invece di aver abbandonato la stanza in seguito ad aggressioni verbali compiute dalla studentessa genovese.

L’inchiesta spagnola venne archiviata con l’ipotesi di suicidio. Franca Murialdi e Bruno Rossi, genitori di Martina, a questa conclusione non credettero. Si rivolsero alla polizia di Genova, la loro città. Per il padre e la madre, Martina Rossi non si era suicidata ma era stata vittima in qualche modo della violenza di Albertoni e Vanneschi.

Le indagini vennero aperte a Genova nel gennaio 2012: il sostituto procuratore Biagio Mazzeo ipotizzò prima l’omicidio volontario e poi la morte come conseguenza di altro reato. Il fatto che Martina Rossi non indossasse i pantaloncini venne giudicato un particolare rilevante e venne data importanza alla testimonianza dei due cittadini danesi che avevano sentito passi frettolosi sulle scale. Inoltre la polizia spagnola aveva messo a verbale che sul collo di Alessandro Albertoni c’erano segni di graffi. Graffi che, come lui stesso ammise, gli aveva provocato Rossi.

I due ragazzi vennero sentiti come testimoni il 7 febbraio 2012 al palazzo di Giustizia di Genova. Nella sala d’attesa, aspettando di essere interrogati, vennero intercettati e registrati. Albertoni, non sapendo ovviamente di essere ascoltato e registrato, si avvicinò a Vanneschi e gli disse che non c’erano prove di violenza sessuale. Fino a quel momento, però, nessuno aveva mai parlato di stupro.

L’inchiesta della Procura di Genova venne chiusa nel gennaio del 2014. Per una questione di competenza territoriale gli atti vennero trasmessi ad Arezzo, cosa che comportò un notevole allungamento dei tempi. I reati ipotizzati dalla Procura genovese furono tentata violenza sessuale, morte come conseguenza di altro reato e omissione di soccorso. A Genova restò invece il processo contro gli altri due ragazzi di Castiglion Fibocchi, accusati di favoreggiamento per aver mentito durante gli interrogatori.

Il rinvio a giudizio da parte della Procura di Arezzo arrivò nel novembre del 2017 dopo altri tre anni di indagine e la riesumazione del corpo di Martina Rossi.

Anche per la Procura toscana la ragazza era precipitata tentando di sfuggire a un tentativo di stupro. In aula i medici legali dissero che sul corpo di Martina era stata riscontrata una frattura alla mascella che, secondo una perizia di parte chiesta dai legali dei genitori della ragazza, era incompatibile con la caduta. Inoltre Rossi aveva graffi alle braccia e un’abrasione sulla spalla.

Vennero ascoltate le deposizioni della testimone oculare, Francisca Puga. Nella prima, fatta di fronte alla polizia spagnola il 4 agosto, Puga disse di aver visto Rossi da sola sul balcone buttarsi nel vuoto. La seconda, risalente all’11 gennaio 2012, fu più confusa. Nella terza deposizione, il 24 febbraio 2014, Puga disse nuovamente di aver visto Rossi gettarsi «volontariamente e con decisione». E affermò di aver chiaro il momento in cui la ragazza «sollevò una delle gambe sulla ringhiera» e poi «fece una piccola rotazione del corpo in avanti e si lasciò cadere nel vuoto».

In aula, nel processo di primo grado vennero anche ascoltate le registrazioni effettuate nella sala d’attesa della Questura di Genova. In quella circostanza Albertoni disse a Vanneschi di aver saputo che sul corpo della ragazza non erano stati riscontrati segni di violenza sessuale. Dicendolo alzò il pugno in segno di vittoria. Esattamente la registrazione ascoltata in aula fu questa, come riportata dal sito Arezzonotizie:  «È una rottura, di quegli spaccamenti… ora starà chiuden… c’è scritto… sul cadavere non ci sono … non vi sono riportati segni di violenza… di tipo sessuale». Poi, in un altro punto della registrazione: «È stato bello, eh? Ti giuro che io e te ricordarsi di quando salati s’era. Boia! C’è stato un momento che io ho volato».

Il 14 dicembre Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi vennero condannati a sei anni di reclusione. I giudici li riconobbero colpevoli di tentata violenza sessuale e morte come conseguenza di altro reato. Nelle motivazioni della sentenza i giudici sottolinearono che Martina Rossi «non aveva assunto sostanze stupefacenti né psicofarmaci come dimostrano le analisi tossicologiche fatte nell’immediatezza dai tecnici spagnoli sui campioni prelevati in autopsia che escludono con certezza anche la presenza di alcol nel corpo della ragazza».

I giudici scrissero poi che «i graffi sul collo di Alessandro Albertoni erano ben evidenti e visibili» e che «Martina Rossi ha reagito ad un tentativo di violenza nei suoi confronti».

Secondo la ricostruzione dell’accusa, che i giudici accolsero totalmente, Martina Rossi aveva provato a sfuggire ai suoi aggressori tentando di scavalcare il muretto sul balcone che separava la stanza dei due giovani da un’altra ma, spaventata e tradita dalla scarsa vista, perse l’equilibrio e cadde. Nelle motivazioni della sentenza venne scritto che al momento della caduta Rossi, che era miope, non aveva gli occhiali, che «sono stati fatti ritrovare perfettamente puliti». Non furono trovate tracce dei pantaloncini e delle ciabatte della ragazza.

In sostanza, secondo i giudici, Rossi scappava da un tentativo di violenza e, nella stanza, per loro stessa ammissione, c’erano solo Albertoni e Vanneschi.

Nel giugno 2020 la Corte d’appello di Firenze ribaltò la sentenza di primo grado: i due ragazzi vennero assolti. Nelle motivazioni in questo caso i giudici scrissero: «Esclusione a cui la corte è pervenuta del tentativo di fuga della ragazza e la non provata commissione della tentata violenza […] non possono dunque che portare a ritenere carente la prova». Per i giudici, la morte di Rossi era stata oggetto di un’indagine «sorta e conclusa in Spagna, ripresa e sviluppata a Genova e nuovamente sviluppata e conclusa ad Arezzo, con esiti di volta in volta quanto più contraddittori tra loro, pur se in base, in sostanza, alle medesime risultanze, ciò che vale indirettamente a confermare la scarsa e quindi opinabile valenza indiziaria, per la loro incoerenza, degli elementi acquisiti».

 La Corte di Cassazione nel gennaio 2021 annullò le assoluzioni ordinando un processo d’appello bis. I giudici di Cassazione contestarono l’assoluzione parlando di «travisazione di circostanze decisive».

Secondo la Cassazione, i giudici d’appello avevano commesso un errore analizzando una fotografia che li aveva portati a collocare al centro del balcone della camera 609 il punto dal quale Martina cadde. In realtà, dissero i giudici di Cassazione, l’esame del reperto fatto con attenzione testimoniava che Rossi era precipitata dal lato destro del balcone, in posizione compatibile quindi con il tentativo di scavalcare per sfuggire a un ipotetico stupro.

Nel decidere di far svolgere un processo d’appello bis, la Corte di Cassazione giudicò «gravemente indiziante» il fatto che Albertoni avesse graffi sul collo e che Martina Rossi avesse i pantaloncini quando entrò nella stanza e che non li avesse più quando cadde dal balcone. Quanto alla testimonianza di Francisca Puga, la Corte di Cassazione la giudicò in buona fede ma mise in discussione ciò che effettivamente poteva aver visto. Non era infatti nella caffetteria dell’albergo ma in una zona più spostata, lungo la strada, e non aveva quindi la visuale libera. Si mise infatti alla ricerca del corpo insieme al portiere di notte: se avesse assistito con una buona visuale alla scena avrebbe dovuto vedere che la ragazza era precipitata nella fontana dell’albergo.

Dopo la decisione della Cassazione, il padre di Martina Rossi, Bruno Rossi, disse in un’intervista al Messaggero: «C’era una contraddizione lampante, che si è manifestata subito e che è stata espressa dai giudici e dai poliziotti. L’assurdità di questa fine insolita: una ragazza felice che improvvisamente cade dalla finestra di una camera non sua, dal sesto piano dell’albergo, senza pantaloni, e rimane 35 minuti a morire in una vasca. Le persone che erano con lei, invece di aiutarla, invece di scendere a vedere cosa le fosse successo, hanno iniziato a dire bugie e a cercare alibi. L’hanno lasciata morire da sola, per 35 minuti».

Il processo bis di secondo grado si concluse il 28 aprile 2021. Luca Vanneschi e Alessandro Albertoni vennero riconosciuti colpevoli del reato di tentata violenza sessuale e condannati a 3 anni di reclusione ciascuno. La morte come conseguenza di altro reato venne invece prescritta. Il 26 agosto la Corte di Cassazione si riunì ma rinviò al 7 ottobre la data del processo finale. Anche sul reato di tentata violenza sessuale incombeva la possibilità di prescrizione che sarebbe scattata il 16 ottobre. La sentenza è però arrivata giovedì con la conferma delle condanne.

Giovedì, dopo la sentenza di Cassazione, Bruno Rossi ha detto ai giornalisti: «Non ci deve essere più nessuno che si possa permettere di far del male a una donna e passarla liscia. Ora posso dire a Martina che il suo papà è triste perché lei non c’è più, ma anche soddisfatto perché il nostro paese è riuscito a fare giustizia».