A quali scorrettezze delle compagnie telefoniche bisogna fare attenzione

Un'indagine della procura di Milano ne ha rivelate di nuove, ma è una vecchia storia: pian piano però le cose per i clienti migliorano

(Drew Barrymore nel film “Scream”)
(Drew Barrymore nel film “Scream”)

Un addebito saltuario di nove centesimi alla volta, senza mai superare complessivamente un euro al mese, potrebbe facilmente passare inosservato in una distratta consultazione del conto del proprio operatore di telefonia mobile. Moltiplicato per centinaia di migliaia di clienti, può rappresentare però un’entrata considerevole. Il nuovo filone di indagine di un’inchiesta che la Procura di Milano aveva avviato nel 2020 ha portato l’attenzione su una serie di pratiche delle compagnie telefoniche, spesso formalmente legali, che le associazioni dei consumatori definiscono però «scorrette».

Non è un fenomeno nuovo, anzi. In particolare a essere molto contestata è sempre stata la pratica dell’attivazione, senza consenso da parte del cliente, dei cosiddetti Vas, i Servizi a valore aggiunto, che però molto spesso corrispondono a servizi non richiesti. Queste tecniche sono da anni al centro di contenziosi tra le compagnie telefoniche, le associazioni dei consumatori e l’Agcom, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni.

Il filone d’inchiesta, di cui riferisce il Corriere della Sera, riguarda in particolare Wind Tre, nata nel 2016 dalla fusione delle due compagnie telefoniche. Durante le indagini, hanno spiegato il pubblico ministero Francesco Cajani e l’aggiunto Eugenio Fusco, è stato scoperto che un costo di nove centesimi veniva addebitato in fattura quando il cliente apriva determinate pagine Internet. Il sistema era impostato però in modo che non fosse mai oltrepassata l’asticella di un euro al mese, precauzione adottata per non fare insospettire il cliente.

Secondo quanto riporta il Corriere della Sera, a rivelare il meccanismo ai magistrati sarebbe stato un tecnico di Accenture, la società che tra febbraio e giugno 2020 aveva fornito a Wind Tre la piattaforma tecnologica. Il gip Patrizia Nobili ha ordinato un sequestro preventivo: 204.000 euro sui conti di Accenture e 109.000 su quelli di Vetrya, società che gestisce e contrattualizza i produttori che forniscono contenuti a Wind Tre.

Vetrya, secondo i magistrati, sarebbe tra l’altro protagonista di un conflitto di interessi perché gestiva vari passaggi della produzione e distribuzione dei contenuti su più compagnie telefoniche, occupandosi contemporaneamente dei call center del settore. Tutto questo violando una delibera dell’Agcom. Vetrya, in un comunicato, ha specificato di non essere «indagata dalla Procura di Milano e di essere estranea ai fatti». Ribadisce anche di «aver avuto semplicemente un ruolo di aggregatore commerciale che non ha mai interagito con il processo di erogazione dei servizi».

L’inchiesta della Procura di Milano su Wind Tre venne resa nota nel luglio del 2020. I magistrati misero sotto indagine la compagnia telefonica per attivazioni indebite, con relativo addebito di importo non dovuto, dei Servizi a valore aggiunto sui dispositivi mobili dei clienti. L’indagine riguardava Wind Tre ma, segnalarono i magistrati, anche Tim e Vodafone usufruivano di servizi e modalità simili.

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Secondo i magistrati per i clienti era sufficiente aprire alcune pagine Internet per far scattare sottoscrizioni a servizi a pagamento. Il cliente si ritrovava così abbonato a oroscopo, meteo, o suonerie oppure a notizie senza in realtà aver richiesto nessuno di quei servizi. La tecnica era quella cosiddetta dello Zero Click: bastava cioè finire su quella pagina per ritrovarsi abbonati. Lo stesso Procuratore capo di Milano, Francesco Greco, aveva spiegato, parlando dell’indagine, di essere stato vittima del meccanismo:

«Io non controllo mai la mia bolletta del telefono, ma un giorno mi sono accorto che pagavo 20 euro al bimestre per acquistare dei giochi, con addebito a società offshore. Dopo un’ora di tentativi al telefono con l’operatore di un call center alla fine mi hanno detto di inserire una sorta di blocco. Ma perché non invertire le cose e fornire sim già bloccate? In questi contratti non si capisce nulla e sono fatti in modo tale che prima scappino i buoi e poi eventualmente l’utente può fermare ulteriori prelievi».

Le ipotesi di reato formulate nell’inchiesta erano frode informatica ai danni dei consumatori, intrusione abusiva a sistema telematico e tentata estorsione contrattuale commessa da tre persone, due ex dirigenti e un ex quadro di Wind Tre, in concorso con sviluppatori e fornitori di contenuti. In tutto, undici persone. Venne anche deciso un sequestro preventivo di 21 milioni di euro sui conti di Wind Tre.

La battaglia attorno ai Vas va avanti da anni. Il giro d’affari è sempre stato molto grande. Il costo del servizio aggiuntivo viene normalmente ripartito in tre parti: la compagnia telefonica trattiene tra il 40 e il 50% di ciò che il cliente ha pagato. Un’altra parte, quantificata intorno al 6-7% va all’hub tecnologico, e cioè la piattaforma utilizzata dalla compagnia tecnologica per gestire l’addebito, il resto va all’azienda che produce contenuti. Tutto questo è ovviamente regolare e legale, sempre che il cliente sia ben consapevole di essersi abbonato a quei contenuti.

Due mesi fa, l’Agcom ha sanzionato Tim, Vodafone e Wind Tre perché tra il 2016 e il 2020 le tre compagnie telefoniche non avevano «adottato con la dovuta tempestività e esaustività misure idonee a prevenire l’attivazione in assenza del consenso degli utenti». A Tim era stata imposta una sanzione da 638.000 euro, a Vodafone da 754.000 euro e a Wind Tre da 812.000 euro.

Al di là delle multe (non è certo la prima volta che le compagnie telefoniche ne ricevono), il cambiamento più importante è il nuovo regolamento che riguarda proprio i servizi aggiuntivi, i Vas, e che introduce il cosiddetto “barring”. «Su tutte le nuove sim» spiega Monica Valente, giurista di Altroconsumo, «deve essere attivato, di default, un blocco dei servizi non richiesti. Per potere accedere a questi servizi devi prima richiedere lo sblocco e poi abbonarti, quindi c’è una doppia procedura. È un importantissimo passo avanti».

Sono esclusi dal blocco i servizi attivati tramite SMS come televoto, donazioni solidali o a partiti politici, servizi bancari, mobile ticketing (per il trasporto pubblico o per il pagamento dei parcheggi). Per quanto riguarda invece le vecchie sim, dice ancora Monica Valente, «il blocco viene attivato dopo che, trascorsi 30 giorni dalla ricezione di un SMS informativo, l’utente non abbia comunicato all’operatore la volontà di non aderire al barring. Il messaggio deve essere ovviamente molto chiaro e contenere tutte le informazioni. Stiamo monitorando la situazione per essere sicuri che su tutte le sim sia arrivato o arrivi l’SMS».

Alcune compagnie, come Tim, avevano già iniziato ad attivare il barring sulle proprie schede sim a fine 2020, prima dell’entrata in vigore della norma.

La telefonia, soprattutto quella mobile, è il settore per il quale le associazioni dei consumatori ricevono maggiori segnalazioni. Dice al Post Massimiliano Dona, presidente dell’Unione nazionale consumatori: «Le segnalazioni sono moltissime e sicuramente rappresentano solo una piccola percentuale di coloro che riscontrano problemi nei contratti, negli abbonamenti, nell’erogazione dei servizi».

Le compagnie telefoniche non vivono una fase di grande prosperità e, se da una parte le tariffe si sono abbassate, continua la ricerca di formule per garantire entrate aggiuntive da parte dei clienti. «Potrebbe sembrare strano», dice Dona, «ma i bilanci delle compagnie telefoniche sono in sofferenza. Soprattutto dopo l’estate di quattro anni fa, quella che noi chiamammo “l’estate della guerra dei prezzi” quando le varie compagnie si combatterono a colpi di sconti, tariffe ribassate, offerte. In più, era arrivato sul mercato un concorrente low cost [Iliad]. Nel 2017 ci fu l’abolizione dei costi di roaming, è evidente che le compagnie telefoniche sono andate in difficoltà».

L’obiettivo quindi è quello di trovare nuove strade di guadagno. L’esempio più eclatante è ciò che avvenne tra 2015 e 2018, quando ci fu il passaggio alle tariffe mensili sulla base di 28 giorni – quattro settimane – invece che di 30. Un escamotage nato per la telefonia mobile ma poi esteso alla fissa. Una scelta che il consiglio di Stato definì «eversiva». Fu una trovata delle compagnie telefoniche, che di fatto grazie ai due-tre giorni rosicchiati ogni mese crearono una tredicesima mensilità da pagare. Il guadagno per le aziende fu enorme, con la semplice mossa di emettere ogni anno tredici fatture invece di dodici.

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Nel 2017 però le associazioni dei consumatori protestarono. L’Agcom emise multe molto consistenti e impose alle compagnie telefoniche di tornare alla normale fatturazione mensile. Le aziende si adeguarono. Accadde però, come evidenziò un’inchiesta di Altronsumo, che gli «importi annuali per le spese di telefonia aumentarono dell’8,6%, proprio come forma di reazione all’obbligo della fatturazione mensile». Altroconsumo riportò il risultato delle indagini svolte da Agcom, secondo cui gli operatori «hanno coordinato le proprie strategie commerciali relative al passaggio dalla fatturazione quadrisettimanale (28 giorni) a quella mensile, con il mantenimento dell’aumento percentuale dell’8,6%». Tale coordinamento «era sotteso a mantenere il prezzo incrementato, vanificando il confronto commerciale e la mobilità dei clienti».

 Si aprì poi la discussione sul rimborso. Ne avevano diritto gli utenti che avevano pagato una fattura a quattro settimane per servizi di telefonia fissa da parte di tutti i principali operatori, nel periodo di riferimento 23 giugno 2017 – 5 aprile 2018. La somma da rimborsare si aggirava tra 20 e 60 euro a testa. «Il problema», spiega Massimilano Dona, «è che il rimborso non è avvenuto in maniera automatica ma gli utenti lo hanno dovuto chiedere, o devono chiederlo, alla compagnia telefonica». Molti l’hanno fatto ma certamente una buona fetta di quei soldi resterà nelle casse delle aziende. Inoltre il rimborso venne stabilito solo per la telefonia fissa, perché l’Agcom ritenne non fosse proporzionato richiederlo anche su quella mobile, sulla quale il cliente ha «un maggiore controllo della propria spesa». Nel caso della telefonia fissa invece l’addebito avviene perlopiù direttamente sul conto corrente, rendendo più difficile accorgersi di eventuali stranezze.

La vicenda comunque non è ancora conclusa. L’Agcom aveva multato Fastweb, Telecom, Wind Tre e Vodafone per aver realizzato un’intesa anticoncorrenziale relativa al «riproporzionamento della spesa annuale su 12 canoni anziché 13». Il 12 luglio scorso il Tar del Lazio ha annullato la multa.

Le segnalazioni e le proteste da parte dei clienti che giungono alle associazioni dei consumatori riguardano una lunga serie di circostanze e soprattutto la presenza, nei contratti di telefonia, dei cosiddetti costi nascosti. «Ci si trova molto spesso davanti», dice Massimiliano Dona, «a una pratica molto discutibile. Il cliente, magari contattato da un call center, sottoscrive un abbonamento con un’offerta accattivante. Quando quella promozione scade si trova a pagare una cifra decisamente superiore. È tutto regolare, ovviamente, anche previsto. Solo che spesso il cliente non ne è pienamente consapevole». È assolutamente corretta anche la cosiddetta modifica unilaterale dei costi del servizio, e cioè l’aumento di una tariffa. L’operatore telefonico può farlo, a patto di darne preavviso entro 30 giorni dalla modifica.

Ci sono altri possibili costi a cui le associazioni dei consumatori invitano a stare attenti. Molte segnalazioni riguardano il fatto che acquistando una ricarica da 5 o 10 euro si sono ritrovati poi con un credito effettivo di 4 o 9 euro, questo perché la differenza veniva utilizzata per l’attivazione di alcuni servizi extra come dati internet in omaggio o 24 ore di navigazione gratuita. «In pratica in questo modo rientrano dalla finestra gli antichi oneri di ricarica, aboliti dalla legge Bersani», dice ancora Dona.

Ci sono poi altri servizi che hanno un costo anche se l’utente spesso non lo sa. Per esempio quelli che avvertono il cliente nei casi in cui non è stato possibile contattarlo. O il pagamento della chiamata per conoscere il credito residuo, o ancora l’antivirus. Non molti sanno poi che nei contratti di telefonia fissa è incluso anche il costo dell’elenco telefonico che ormai in pochissimi utilizzano: 3,90 euro l’anno, più l’Iva al 22%. Per gli operatori telefonici significa complessivamente 40 milioni di euro l’anno. Si può chiedere, gratuitamente, la cancellazione in bolletta: bisogna chiamare la propria compagnia telefonica e richiederlo esplicitamente.

«Grazie agli interventi dell’Agcom e al lavoro che viene fatto a tutela dei consumatori la situazione sta migliorando», dice Monica Valente, «però resta sempre valido il consiglio di leggere bene i contratti prima di sottoscriverli, anche nelle parti più piccole. Soprattutto quando viene sottoscritto in negozio dove, a volte, non ci viene spiegato con tutti i particolari necessari ciò che stiamo sottoscrivendo».