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  • Mercoledì 28 luglio 2021

L’uomo più ricco del Libano proverà a formare un nuovo governo

Il presidente del paese ha affidato l'incarico al miliardario Najib Mikati, dopo quasi un anno di crisi politica ed economica

Il primo ministro incaricato Najib Mikati durante la conferenza stampa organizzata dopo il suo incontro con il presidente del Libano Michel Aoun, Beirut, 26 luglio 2021 (AP Photo/Bilal Hussein)
Il primo ministro incaricato Najib Mikati durante la conferenza stampa organizzata dopo il suo incontro con il presidente del Libano Michel Aoun, Beirut, 26 luglio 2021 (AP Photo/Bilal Hussein)

Lunedì 26 luglio il presidente del Libano Michel Aoun ha affidato al ricco uomo d’affari Najib Mikati l’incarico di formare un nuovo governo, dopo che da quasi un anno il paese è guidato da un governo provvisorio con poteri limitati, e che i tentativi precedenti di formare un esecutivo erano stati un insuccesso. Il paese sta attraversando una grave crisi politica, sociale ed economica soprattutto dallo scorso agosto, quando un’enorme esplosione distrusse parte del porto di Beirut provocando le dimissioni del governo di Hassan Diab.

La nomina di Mikati è arrivata dopo che lo scorso 15 luglio Saad Hariri, a cui era stato assegnato il compito di formare un governo nell’ottobre del 2020, aveva rinunciato all’incarico per uno scontro con il presidente Michel Aoun e con suo genero Gebran Bassil, deputato a capo del Movimento Patriottico Libero, il più grande blocco parlamentare cristiano del paese fondato da Aoun nel 2015. Prima di Hariri, anche Moustapha Adib, nominato dopo l’esplosione al porto di Beirut, non era riuscito a formare un governo.

Mikati ha 65 anni, è sunnita, è stato ministro dei Lavori pubblici e dei Trasporti e ha già ricoperto due volte il ruolo di capo del governo, nel 2005 e nel 2011. È un uomo d’affari e secondo la rivista Forbes ha un patrimonio di 2,7 miliardi di dollari, pari a 2,3 miliardi di euro, che ne fa l’uomo più ricco del Libano, assieme a suo fratello Taha. Da una parte del paese è considerato come uno dei simboli del potere sopravvissuto alle rivolte popolari del 2019, vicino a quell’establishment indicato come il principale responsabile del momento difficile che il Libano sta vivendo. Nel 2019 Mikati è stato coinvolto in una serie di inchieste per appropriazione indebita e abuso di potere, ma lui si è sempre dichiarato innocente. Ha un basso indice di popolarità, anche nella sua città natale, Tripoli, e domenica sera, alla vigilia della sua nomina, decine di persone hanno manifestato fuori dalla sua casa di Beirut, accusandolo di corruzione e nepotismo.

Lunedì 26 luglio, dopo essere stato incaricato dal presidente Aoun, Mikati ha detto ai giornalisti di essere consapevole della difficoltà che lo aspetta, di non avere «la bacchetta magica», di non poter «fare miracoli» e di aver bisogno della fiducia delle persone e della collaborazione di tutte le parti politiche. Ha poi precisato, senza dare altri dettagli, di «disporre delle necessarie garanzie esterne per uscire dalla crisi», facendo probabilmente riferimento al via libera ricevuto dalle principali potenze sciite e sunnite della regione. In assenza di queste garanzie, ha concluso, non avrebbe accettato l’incarico.

Durante le consultazioni vincolanti prima della sua nomina, Najib Mikati aveva ricevuto il sostegno di 72 deputati su 118, compreso quello dei parlamentari sunniti del Blocco del futuro, lo stesso di Hariri, e quello dei deputati sciiti di Hezbollah, una delle principali forze politiche nel paese. Oltre agli assenti, 42 deputati si sono però astenuti dal voto: Mikati non ha cioè ricevuto l’appoggio dei due maggiori partiti cristiani del Libano, compreso il Movimento Patriottico Libero guidato da Gebran Bassil.

In Libano, la politica e le sue declinazioni settarie sono considerate da molti all’origine dei problemi del paese. Dal 1943, con la nascita del Libano moderno, le tre principali cariche istituzionali (presidente, capo del parlamento e primo ministro) sono state affidate alle tre più grandi comunità nazionali, cioè rispettivamente cristiani maroniti, musulmani sciiti e musulmani sunniti. Anche il parlamento è stato diviso su linee settarie, e prevede la presenza di undici gruppi religiosi che si spartiscono i seggi. Con la fine della guerra civile, nel 1990, i leader politici di ciascuna comunità hanno mantenuto il loro potere attraverso un sistema clientelare, con l’obiettivo di proteggere gli interessi del proprio gruppo. Tale sistema rende complicate le negoziazioni e la formazione di un governo.

Martedì, Mikati si è comunque detto ottimista sulla formazione del governo, dicendo che tra lui e il presidente Aoun ci sono diversi punti di convergenza. Ha anche fatto sapere di voler proporre una lista di ministri entro un mese. Le possibilità di Mikati di far uscire il Libano dalla paralisi istituzionale e politica in cui si trova da quasi un anno sono considerate dagli osservatori leggermente superiori a quelle che aveva Saad Hariri: «Aoun e Bassil sono difficili, vogliono controllare tutto, ma ora sono sotto pressione. Se Mikati non riuscirà a formare un governo, loro saranno considerati responsabili di questo nuovo fallimento», ha dichiarato ad esempio Khaldoun Al-Sharif, ex consigliere del primo ministro incaricato.

– Leggi anche: Il Libano è di nuovo messo malissimo

Supponendo che Mikati riesca a fare questo primo passo, gli analisti rimangono comunque molto scettici sulla sua capacità di arginare la crisi economica, finanziaria e sociale del paese. Nella primavera del 2020, uno dei deputati del partito di Mikati, Nicolas Nahas (ministro dell’Economia nel governo guidato dallo stesso Mikati nel 2011) ha contribuito a far fallire il negoziato che il primo ministro Hassan Diab stava portando avanti con il Fondo monetario internazionale per ottenere dei finanziamenti.

«Mikati fa parte del sistema clientelare e corrotto che affligge il nostro paese da trent’anni» ha detto a Le Monde Khaled Saghieh, caporedattore del sito indipendente di notizie Megaphone. «È stato scelto per garantire che l’élite economica non paghi il prezzo della crisi, per chiudere il capitolo della rivoluzione (le manifestazioni dell’autunno 2019, ndr) e per garantire che il sistema continui a governare il paese».