La discussa prima volta dello skate alle Olimpiadi

C'è chi la pensa una buona occasione di promozione e visibilità e chi teme che se ne snaturi l'identità culturale e la spontaneità

di Matteo Bolzonella

Lo skater australiano Hayley Wilson durante l’evento di presentazione della nazionale australiana che parteciperà alle Olimpiadi di Tokyo (Robert Cianflone/Getty Images)
Lo skater australiano Hayley Wilson durante l’evento di presentazione della nazionale australiana che parteciperà alle Olimpiadi di Tokyo (Robert Cianflone/Getty Images)


Lo skateboard debutterà come sport olimpico a Tokyo 2020: se però l’ammissione alle Olimpiadi rappresenta solitamente una consacrazione per gli sport, per lo skateboard le cose sono più complicate e l’arrivo alle Olimpiadi è stato faticoso e discusso. Lo skateboard, infatti, è da sempre riconosciuto più come un fenomeno sociale che come una disciplina sportiva e ancora oggi molti skater professionisti sono reticenti a riconoscere la compatibilità tra il concetto di sport e lo spirito creativo che sta alla base della pratica, strettamente legato alla sua storia e alle origini.

Tra gli anni Quaranta e Cinquanta, i surfisti del Sud della California dovevano trovare un’attività che li impegnasse quando non c’erano onde in grado di soddisfarli e iniziarono a fare sidewalking surfing (surf su marciapiede), con prototipi embrionali di skate che dagli anni Sessanta hanno cominciato ad assomigliare alle tavole che conosciamo oggi.

Un’improvvisata gara di skate a Los Angeles nel 1975. Gli skate sono tavole di legno di lunghezza variabile (solitamente compresa tra i 70 e gli 80 centimetri) con due carrelli sui quali sono montate coppie di ruote in poliuretano (AP Photo)

La spontaneità ha avuto un ruolo fondamentale per la nascita e soprattutto per la rapida evoluzione dello skateboard, anno dopo anno e competizione dopo competizione. Assieme alla creatività è stata l’elemento che ha fatto sì che i trick – le evoluzioni che si compiono con la tavola – sviluppassero un sempre maggiore grado di difficoltà e spettacolarità, permettendo alla pratica di svincolarsi dai rigidi sistemi di valutazione e giudizio di altri sport. Assumeva quindi una sempre maggiore importanza la componente umana ed emotiva dell’esibizione, non misurabile. A questa libertà d’azione ha contribuito anche la conformazione degli skatepark – le aree attrezzate per praticare lo skate –, resi diversi l’uno dall’altro dagli spazi delle varie città, consentendo la nascita di vari modi di praticare lo skate e che alle Olimpiadi di quest’anno si sono concretizzati in due diverse discipline.

Negli skatepark costituiti da rampe verticali e grandi spazi concavi, che ricordano le piscine vuote californiane in cui si esercitavano i primi skater, le esibizioni possono contare su una maggiore velocità e spettacolari salti a mezz’aria; quelle invece svolte in skatepark di impronta urbana dànno la possibilità di sfruttare elementi di contesto come scale, dislivelli e corrimani, richiedendo tecnica e riflessi. A Tokyo 2020, le gare del primo genere saranno inserite nella categoria Park, con rampe ripide e verticali, mentre le seconde nella sezione Street, con una conformazione più urbana del terreno di gara.

L’area di gara per la disciplina Street alle Olimpiadi di Tokyo 2020

L’area di gara per la disciplina Park alle Olimpiadi di Tokyo 2020.

La spettacolarità fine a sé stessa dello skate è il primo fattore in grado di stimolare la curiosità del pubblico, facendo sì che venga immediatamente percepito non in chiave sportiva ma come un fenomeno sociale e spettacolare, prima di tutto cool agli occhi del pubblico. L’obiettivo di creare e padroneggiare nuovi trick tramite la creatività e l’allenamento ha messo fin dall’inizio in secondo piano l’importanza della valutazione sportiva e la necessità di vincere gare per affermarsi.

La dimensione comunitaria, elemento chiave per la diffusione capillare dello skateboard fin dai tempi del sidewalking surfing, nasceva anche dal contrasto con la considerazione pubblica dello sport e di chi lo praticava. Per decenni gli skater sono stati spesso malvisti, invasori senza regole di spazi pubblici, frequentatori diurni e notturni di luoghi autogestiti. Già nel 1964, nel primo numero della prima rivista di settore The Quarterly Skateboarder, il direttore John Severson parlava di «nuvole di tempesta all’orizzonte» riferendosi a chi iniziava a evocare divieti e restrizioni. Lo stereotipo negativo degli skater derivava anche dal fatto che lo skateboard non fosse mai stato classificabile né come sport estremo né come semplice attività ricreativa e potesse essere praticato in qualunque parte della città. Non aveva nemmeno bisogno di confini che ne limitassero il raggio d’azione, anzi: meno ce n’erano e più aumentavano gli stimoli alla creatività degli skater.

Dagli anni Sessanta in poi, tuttavia, la popolarità dello skateboard è sempre aumentata, le competizioni sono apparse sempre più spesso in tv, stimolando la nascita di riviste, negozi ed eventi dedicati. Nel corso dei decenni successivi i miglioramenti dell’equipaggiamento hanno incrementato la manovrabilità della tavola, garantendo sempre maggiore spettacolarità e attirando una crescente attenzione del pubblico. Con l’arrivo degli anni Novanta e Duemila gli eventi sono diventati veri e propri festival e il volume d’affari ha continuato a crescere, ma gli skater professionisti insistevano sull’importanza di non perdere la dimensione creativa e comunitaria del fare skate. Non era comune, nelle altre competizioni sportive televisive e non, atleti sorridenti nonostante la concentrazione, gasati dalla musica a tutto volume, pronti a esultare e stupirsi di fronte ai trick spettacolari di un avversario, come avviene invece con lo skate.

Nonostante il successo divenuto negli anni globale, quando nel 2016 è arrivata l’ufficialità della presenza alle Olimpiadi in Giappone dopo anni di dibattiti, il mondo dello skateboard non poteva ancora contare sulle solide infrastrutture degli sport competitivi più popolari. «Non eravamo pronti», ha dichiarato Hans-Jürgen Kuhn, presidente della Deutscher Rollsport und Inline-Verband, la Federazione tedesca degli sport rotellistici. La diffusione capillare delle infrastrutture in grado di fungere da punti di riferimento era bassa: molte realtà sono state create proprio sfruttando la spinta della presenza a Tokyo 2020. Le stesse organizzazioni internazionali nate dagli anni Ottanta in poi, che si proponevano come punto di riferimento per il mondo dello skate, erano molte, frammentate e non venivano riconosciute dai praticanti.

Le debolezze infrastrutturali erano quindi dichiarate, e legate alla storia dello skate, ma il fulcro principale dei dubbi di appassionati e professionisti era di natura culturale. Alcuni in proposito hanno fatto dichiarazioni piuttosto nette, come Titus Dittmann, imprenditore tedesco e figura di riferimento per lo skateboard in Germania e nel mondo: «Le Olimpiadi trasformeranno una cultura giovanile in uno sport competitivo. I ragazzi si pongono degli obiettivi, come creare un certo trick. E lo fanno solamente per loro stessi, non per papà, per mamma o per l’allenatore. E quando riescono a padroneggiare quel trick provano un’incredibile euforia, che ha un effetto positivo sulla loro autostima. All’improvviso invece si tratterà di essere semplicemente meglio di qualcun altro».

Altri, come Tony Hawk, lo skater più famoso del mondo, si sono espressi sottolineando come la presenza alle Olimpiadi non possa che essere una spinta ulteriore e irrinunciabile per la diffusione dello sport nel mondo, ma ricordando anche che in circostanze del genere non si potrà pretendere il clima tipico dei festival e delle competizioni non istituzionalizzate: «Ascolteremo i Dead Kennedys spaccare gli impianti audio? Vedremo gli atleti provare dei trick nonostante il tempo della loro esibizione sia concluso, solo per incitare la folla (o per la loro gloria personale)? Probabilmente no».

A Tokyo 2020 quindi la musica non romperà gli impianti audio ma sarà comunque parte integrante delle esibizioni dei singoli atleti, che si divideranno tra le citate discipline Park e Street, liberi di scegliere il proprio percorso all’interno dei terreni di gara. I criteri principali per la valutazione a punteggi delle performance saranno la velocità e la difficoltà e originalità dei trick. Una struttura delle gare che ha cercato di mantenere quelle dei festival e dei campionati nazionali e internazionali sulla scia proprio di queste polemiche, ma che faticherà a nascondere la parziale o totale assenza di spettatori dovuta al Covid19. Probabilmente ciò acuirà il rischio che il pubblico, assistendo alle gare di skate da casa, veda esibizioni molto diverse da quelle dell’immaginario comune, mentre i critici più accaniti della presenza a Tokyo 2020 potrebbero vedere i propri dubbi confermati in diretta mondiale.

A Tokyo 2020, sia le gare della disciplina Park che quelle della discipline Street prevederanno due fasi: preliminari e finali. Nelle prime, venti atleti competeranno in quattro batterie da cinque partecipanti e gli otto col punteggio più alto avanzeranno alle finali. Ogni skater avrà sessioni da quarantacinque secondi per mostrare i suoi trick: saranno valutati da cinque giudici con un punteggio da 0 a 100 e il risultato finale sarà ottenuto dalla media dei voti escludendo il più alto e il più basso.

Nella categoria femminile di questa prima edizione sono favorite le brasiliane Pamela Rosa (21 anni), Rayssa Leal (13) e Leticia Bufoni (28), e le giapponesi Aori Nishimura (19) e Momiji Nishiya (13). A rappresentare l’Italia ci sarà la diciannovenne Asia Lanzi.

Nella categoria maschile sono favoriti gli statunitense Heimana Reynolds (23 anni), Cory Juneau (22), Zion Wright (22) e i brasiliani Luiz Francisco (20) e Pedro Barros (26). Per l’Italia i partecipanti saranno due: il ventiduenne Ivan Federico e il diciassettenne Alessandro Mazzara.

Questo e gli altri articoli della sezione Intorno alle Olimpiadi sono un progetto del workshop di giornalismo 2021 del Post con la Fondazione Peccioliper, pensato e completato dagli studenti del workshop.