La discussa squalifica di Sha’Carri Richardson

Una delle donne più veloci al mondo è stata esclusa dai Giochi per aver assunto marijuana, facendo parlare di “antiquato proibizionismo”

di Francesco Marchesetti

(Patrick Smith/Getty Images)
(Patrick Smith/Getty Images)

Una delle notizie più discusse nelle settimane immediatamente precedenti all’apertura dei Giochi Olimpici di Tokyo è stata la squalifica della velocista statunitense Sha’Carri Richardson a causa della positività al THC, il principio attivo psicotropo – ovvero che agisce sul sistema nervoso – della marijuana. La sospensione è stata accolta da dubbi e critiche, dato che la scienza non attribuisce alla marijuana la capacità di migliorare la performance fisica nello sport, e ha portato l’agenzia antidoping degli Stati Uniti ad affermare che il regolamento internazionale sull’uso di marijuana da parte degli atleti dovrebbe cambiare. Lo scalpore mediatico è stato amplificato dal fatto che Richardson non è un’atleta qualunque: è una delle donne più veloci di sempre, ed era uno dei personaggi più attesi di queste Olimpiadi.

Ventunenne originaria di Dallas, in Texas, Sha’Carri Richardson aveva ottenuto un posto nella squadra degli Stati Uniti dopo aver corso i 100 metri in 10,84 secondi nei trials, le gare di qualificazione per i Giochi Olimpici disputate il 20 giugno scorso in Oregon. La qualificazione aveva reso Richardson una delle favorite alla medaglia d’oro a Tokyo, anche perché in aprile aveva fatto anche meglio correndo in 10,72 secondi: il sesto tempo migliore di sempre per una donna.

A fianco delle sue notevoli performance sportive, che a partire da questa primavera l’hanno di fatto resa la “donna più veloce d’America”, Richardson aveva attirato l’attenzione anche grazie alla sua personalità eccentrica, alle dichiarazioni sfrontate e a un aspetto fisico inusuale: i capelli dai colori sgargianti, che le sono stati consigliati dalla fidanzata, e le lunghissime unghie delle mani, per le quali ha detto di essersi ispirata a Florence Griffith-Joyner, la centometrista americana che detiene il record del mondo dal 1988. La stampa di settore la indicava come uno dei personaggi più interessanti e potenzialmente rappresentativi di queste Olimpiadi, prevedendo che una sua probabile vittoria a Tokyo le avrebbe dato una grande popolarità internazionale.

Dopo la vittoria dei trials in Oregon, Richardson era corsa sugli spalti ad abbracciare la nonna in un video che era diventato immediatamente virale. Dodici giorni dopo aveva twittato un criptico «I am human» («Sono umana») che anticipava il comunicato ufficiale della USADA, l’agenzia statunitense che si occupa di antidoping: i risultati dei test a cui la velocista si era sottoposta nelle 24 ore successive alla gara avevano rivelato la presenza di THC nel suo organismo.


 

La positività al test ha comportato la squalifica di un mese, la sanzione più breve possibile, anche perché Richardson si trovava in Oregon, dove l’uso di marijuana a scopo ricreativo è legale dal 2014. Per quanto breve, però, la squalifica è lunga abbastanza da impedire a Richardson di partecipare alla gara dei 100 metri alle Olimpiadi di Tokyo. Teoricamente avrebbe potuto far parte della staffetta 4×100, che secondo il calendario dei Giochi si svolgerà dopo la fine della squalifica, ma la squadra statunitense ha deciso di non convocarla in osservanza al proprio regolamento interno. È infatti prevista la convocazione dei migliori sei velocisti dei trials più due atleti a scelta, i quali tuttavia erano già stati decisi e annunciati prima dell’esclusione di Richardson.

In un’intervista a NBC, Richardson non si è lamentata per la squalifica né per l’esclusione dalle Olimpiadi, pur dicendosi abbattuta. Ha raccontato di aver assunto marijuana dopo aver appreso della morte improvvisa della madre da un giornalista, durante un’intervista.
Richardson ha detto di non essere stata in grado di gestire il panico e le proprie emozioni in seguito alla notizia, e si è scusata con i propri fan, famiglia e sponsor.

La lista delle sostanze proibite dalla WADA, l’agenzia mondiale antidoping, comprende tutte quelle che rispondano almeno a due di tre requisiti: il potenziale di migliorare la performance sportiva, il rischio per la salute dell’atleta o la violazione dello “spirito dello sport”. Furono proprio gli Stati Uniti nel 2004, anno di fondazione della WADA, a spingere più degli altri per inserire la marijuana nella lista delle sostanze proibite. Nell’ambito della più ampia “war on drugs”, la forte repressione dell’uso di sostanze stupefacenti che gli Stati Uniti adottarono dagli anni Settanta fino ai primi anni 2000, la politica cercava di sfruttare gli sportivi come modelli di comportamento: un esempio è il documento che l’allora direttore dell’ufficio nazionale antidroga Barry McCaffrey inviò nel 1998 al Comitato Olimpico Internazionale (CIO) in cui chiedeva l’introduzione di test antidroga sugli atleti, e che le misure sanzionatorie riguardassero «sia le sostanze dopanti, come gli steroidi, sia le droghe ricreative come la marijuana».

Da allora le sensibilità sul tema sono molto cambiate: in un’intervista di pochi giorni fa al Washington Post l’attuale vicepresidente del CIO Dick Pound, che è anche uno dei fondatori della WADA, ha detto di aspettarsi che presto l’agenzia smetta di considerare la marijuana come sostanza dopante, e ha aggiunto che «il passo successivo sarà dire ai governi: ‘Capiamo le vostre preoccupazioni, ma l’uso e la distribuzione criminale di queste sostanze non sono più problemi dello sport. È un vostro problema come governi’».
Per quanto l’effetto sedativo e ansiolitico della marijuana possa potenzialmente favorire gli atleti che praticano sport di concentrazione, come per esempio il tiro con l’arco, la ricerca scientifica sostiene che non ci siano prove sufficienti a considerarla un aiuto ergogenico, ovvero un fattore in grado di migliorare le performance fisiche, e per questo non possa essere considerata una sostanza dopante.

L’evoluzione del dibattito sulla marijuana nello sport riflette il modo in cui il processo di progressiva legalizzazione in atto in tutto il mondo sta cambiando la percezione culturale della sostanza. Nei soli Stati Uniti, 18 stati ne hanno già legalizzato l’uso ricreativo e la marijuana è sempre meno vista come sostanza d’abuso. Anche per questo motivo la squalifica di Richardson ha fatto molto discutere negli Stati Uniti, dato che è stata da molti considerata un attacco alla sua libertà personale. Rispondendo a una lettera della deputata Alexandria Ocasio-Cortez del Partito Democratico, membro della sottocommissione per i diritti e le libertà civili della Camera, che giudicava la squalifica come un esempio di «antiquato proibizionismo», la USADA ha definito l’intero caso una «situazione che ci addolora» e si è detta d’accordo sul fatto che il regolamento della WADA debba cambiare. Allo stesso tempo, però, la USADA ha specificato come una sua mancata sanzione sarebbe risultata inutile: la WADA e l’associazione mondiale dell’atletica leggera avrebbero sicuramente fatto ricorso, e questo avrebbe portato a una sospensione di Richardson ancora maggiore. La lettera della USADA si conclude con la promessa di continuare a promuovere una modifica delle regole.

L’eventuale decisione di eliminare la marijuana dalla lista delle sostanze proibite da parte della WADA avrebbe effetti sulle federazioni sportive di tutto il mondo, soprattutto in stati che hanno un approccio fortemente proibizionistico. Un cambiamento in questo senso non potrà quindi avvenire per la sola spinta dell’agenzia statunitense, ma sarà eventualmente il risultato di una mediazione tra le diverse parti in causa. Finora le principali modifiche in questa direzione sono state avanzate dai principali campionati sportivi statunitensi, che non rientrano sotto la giurisdizione della WADA e conducono autonomamente i propri test antidoping: negli ultimi anni la Major League Baseball (MLB), la National Hockey League (NHL) e la National Football League (NFL) hanno sospeso le sanzioni per l’uso di marijuana, mentre la National Basketball Association (NBA), con l’inizio della stagione 2020-2021, ha addirittura rimosso il THC dalla lista delle sostanze testate.

Questo e gli altri articoli della sezione Intorno alle Olimpiadi sono un progetto del workshop di giornalismo 2021 del Post con la Fondazione Peccioliper, pensato e completato dagli studenti del workshop.