Cosa dice l’inchiesta sulle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere

I video e le testimonianze delle persone detenute offrono nuovi dettagli sulla violenta rappresaglia del 6 aprile 2020

Negli ultimi giorni sono emersi nuovi dettagli e video sulle violenze del 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, condotte da agenti di polizia penitenziaria della struttura ed esterni contro 300 persone detenute. Oltre ad avere diffuso alcuni video che mostrano i pestaggi da parte degli agenti, Repubblica ha pubblicato ampi estratti dei documenti dell’inchiesta giudiziaria condotta dalla procura di Santa Maria C.V. che ha portato all’emissione di 52 misure cautelari alla fine dello scorso giugno. Le prime immagini delle violenze erano state diffuse precedentemente dal quotidiano Domani insieme a dettagli dell’inchiesta.

La documentazione e le ricostruzioni non mostrano solamente le violenze condotte dagli agenti, ma anche i tentativi da parte dei responsabili di nascondere quanto accaduto, dichiarando circostanze diverse dalla realtà nei verbali e in altri atti. Le immagini delle telecamere a circuito chiuso del carcere mostrano in modo inequivocabile gli interventi violenti da parte degli agenti, che impiegarono manganelli e in alcuni casi i loro stessi caschi per percuotere le persone detenute.

Protesta
Il 5 aprile del 2020, il giorno prima delle violenze in carcere, un gruppo di ospiti del reparto Nilo (diversi reparti del carcere hanno nomi di fiumi) organizzò una protesta per chiedere che fossero fornite mascherine e altri dispositivi di protezione alle persone detenute, per ridurre il rischio di contagio da coronavirus. Nello stessa giornata avevano infatti appreso da un telegiornale che nel carcere di Santa Maria Capua Vetere era stato accertato un primo caso di COVID-19.

La protesta doveva essere simile a quelle organizzate nelle settimane precedenti in molte carceri italiane, per chiedere più tutele contro il rischio di focolai da coronavirus in strutture chiuse e sovraffollate.

Poco prima delle 20, l’orario di chiusura delle celle, al Nilo diverse persone detenute si rifiutarono di rientrare rimanendo nel corridoio per proseguire con la protesta. In alcune sezioni del reparto furono spostate brande fuori dalle celle, per utilizzarle come barricate impedendo agli agenti di passare nei corridoi. Secondo le ricostruzioni, almeno 22 persone erano nei corridoi invece di essere nelle celle e già nel pomeriggio avevano chiesto di poter parlare con i responsabili del carcere, senza ricevere risposta.

La situazione migliorò nella notte, dopo un confronto con rassicurazioni sulla possibilità di avere mascherine, oltre a un colloquio in tempi brevi con il magistrato di sorveglianza. La protesta si calmò tra la mezzanotte e le due di notte, con la rimozione delle barricate da parte delle stesse persone detenute, che si offrirono anche di partecipare al riordino dei corridoi e delle celle. Il comandante della Polizia penitenziaria, Gaetano Manganelli, avrebbe in seguito preparato un’informativa alla Procura indicando i nomi di 12 persone accusate di avere fomentato la rivolta.

Relazione
Il giorno dopo le proteste, il comandante del nucleo provinciale Traduzioni e piantonamenti, Pasquale Colucci, inviò una relazione ad Antonio Fullone, provveditore regionale alle carceri. Il documento fornisce, secondo la procura, una versione diversa delle proteste avvenute il 5 aprile:

La situazione piuttosto che risolversi, sembrava invece precipitare, con i detenuti che minacciavano finanche di utilizzare olio bollente nei confronti del personale, laddove lo stesso avesse deciso di entrare nel reparto. […] In questo scenario non lesinavano minacce nei confronti del personale, che offendevano, minacciavano ed invitavano ad allontanarsi, brandendo oggetti di diverso genere.

“Perquisizione”
Il 6 aprile, circa 300 tra agenti di polizia penitenziaria del carcere ed esterni – sovrintendenti, ispettori, commissari e appartenenti al Gruppo di supporto agli interventi (una struttura che dipende dal provveditore regionale Fullone) – organizzarono secondo la magistratura «perquisizioni personali arbitrarie e abusi di autorità», con lo scopo di dare una risposta alle proteste del giorno precedente nel reparto Nilo.

In una chat su WhatsApp con membri della Polizia penitenziaria di Santa Maria C.V. furono scambiati messaggi piuttosto chiari sugli obiettivi dell’iniziativa:

– Allora domani chiavi e piccone in mano.
– Li abbattiamo come vitelli.
– Allora non passa nessuno.
– I ragazzi sanno cosa fare.
– Se escono dalla celle tre cretini e vogliono fare qualcosa, ci sono i colleghi di rinforzo, saranno subito abbattuti.
– Si deve chiudere il Reparto Nilo per sempre, ‘u tiempo d’è buone azioni è finito, W la polizia penitenziaria.

La “perquisizione” iniziò intorno alle 15:30 del pomeriggio, con l’intervento degli agenti in diverse celle del reparto Nilo. Senza fornire particolari spiegazioni, alle persone detenute fu chiesto di mettersi davanti alla propria cella, con mani e viso appoggiati verso il muro. Il trattamento era diverso a seconda di chi conduceva la perquisizione e della presenza o meno dei presunti organizzatori della protesta. La testimonianza di una delle persone detenute:

Io mi sono attenuto alle indicazioni. E dopo qualche minuto sono stato portato nel corridoio, con la testa contro il muro. E le mani alzate. Diversi detenuti si trovavano nella stessa posizione: erano nudi, però. E li colpivano con i manganelli sulle gambe e sui glutei. Nel corridoio su cui affacciano le celle della sesta sezione vi erano tanti agenti penitenziari che avevano formato una sorta di corridoio umano, costringendo i detenuti ad attraversarlo, colpendolo con schiaffi, pugni e manganellate. Io sono stato spinto e incanalato nel corridoio. Io dovevo passare di là e ognuno di questi mi doveva dare una mazzata.

I video delle telecamere a circuito chiuso confermano questa circostanza. Mostrano come le persone detenute fossero obbligate a passare tra due ali di agenti, che usavano pugni e manganelli per percuoterli.


Le testimonianze di altre persone detenute, pubblicate da Repubblica, raccontano le ripetute violenze subite:

Mi hanno dato calci nelle costole e cazzotti in testa. Io mi mantenevo vicino al cancello e dicevo: “Basta, basta”. Mentre ero aggrappato tutte le 7-8 guardie che stavano intorno a me mi davano tutti le palate. Io mi mettevo le mani in testa. Mi picchiavano con cazzotti e manganelli. I calci. Ora ho le costole rotte. Mi dicevano: “Pezzo di merda infame, scendi giù insieme a noi. Ho pensato: questi mi vogliono uccidere.

Dopo circa 10 metri dalla rotonda, sul corridoio del Nilo, verso il corridoio lungo che porta agli altri reparti, l’agente con il giubbino in pelle che stava dietro di me ha iniziato a picchiarmi con il manganello dietro la testa. Mi ha colpito la schiena, il bacino, le costole. E mi diceva: “Non hai capito ancora niente. Lo Stato siamo noi, e tu e tutti i tuoi compagni dovete morire. Oggi devi morire”.

L’ispettore di sorveglianza mi ha fatto l’occhio… Da dietro, mi colpiva. Con i pugni. Io gridavo: “Dai basta, per piacere, basta. C’ho paura”. Poi è arrivato uno e mi ha dato una testata con il casco integrale, si è buttato a peso morto. Ho perso i sensi. Mi sono accasciato. E hanno continuato a colpirmi».

Tra le testimonianze ce ne sono alcune su uno svenimento di una persona detenuta in un corridoio, documentato anche da un video. Si accascia a terra e non viene aiutato dagli agenti in alcun modo, in seguito interviene un medico per accertarsi delle sue condizioni di salute. L’uomo viene poi fatto sedere, mentre nel corridoio sono visibili violenze nei confronti di altre persone.


Isolamento
In seguito alla “perquisizione” furono identificate 15 persone detenute accusate di avere opposto resistenza e per questo da punire con un trasferimento in isolamento e l’esclusione per due settimane dalle attività comuni. Molti degli interessati erano gli stessi indicati in precedenza come gli organizzatori della protesta del 5 aprile.

Il trasferimento, secondo la Procura, fu giustificato dai certificati emessi da un medico, che firmò tredici referti pressoché identici nei quali indicava la presenza di traumi «procuratisi» durante le attività di «contenimento da parte del personale della Polizia penitenziaria». Le attestazioni erano compatibili con le relazioni sulla “perquisizione” effettuata il 6 aprile, che però raccontavano una versione piuttosto diversa di quanto accaduto nel carcere e documentato dai video delle telecamere a circuito chiuso.

Nel gruppo destinato all’isolamento c’era anche Hakimi Lamine, un uomo di 28 anni di origini algerine. Soffriva di schizofrenia e aveva bisogno di seguire una terapia medica per tenerla sotto controllo. Lamine presentava ematomi e ferite dovute alla “perquisizione”, secondo le testimonianze nei giorni dopo le violenze aveva più volte vomitato sangue ed era fisicamente molto provato. Morì il 4 maggio in cella di isolamento, in uno stato di abbandono e privo di sorveglianza medica, secondo le conclusioni della Procura.

Misure cautelari
Nei mesi successivi, i racconti sulle violenze subite il 6 aprile furono riferiti da diversi interessati ad amici, familiari e ad alcune associazioni che si occupano dei diritti dei carcerati. Furono poi presentate alcune denunce e la magistratura avviò un’indagine su quanto accaduto nel reparto Nilo.

Dopo mesi di raccolta di testimonianze, indagini e recupero di chat, documenti, relazioni e video, il 27 giugno scorso sono state disposte 52 misure cautelari: 18 persone sono state messe agli arresti domiciliari, 23 sono state sospese dal lavoro e per 8 agenti è stato disposto l’arresto in carcere, con l’accusa di avere mostrato un comportamento più violento di altri.